venerdì 18 luglio 2008

I gemelli

PARIDE DEGLI ALBALONGA

Seduto a capotavola, impettito e sicuro, Paride si alzò ed andò verso gli ospiti con la mano tesa.
Sebbene scettici, gli stringemmo le cinque dita.
Enea, invece, si tenne distante.
Il primario, che attendeva proprio lui, non appena notò l’indifferenza dell'ossario, gli andò in contro e, inaspettatamente, lo abbracciò.
Enea, indeciso sul da farsi, lo guardò stranito.
Il primario, a sua volta, lo guardò fissamente negli occhi e poi esclamò con voce rotta dall’emozione:
“Abbracciami, fratello mio!”.
A quel punto il Priamoide, con le lacrime che gli scendevano copiose lo strinse in una morsa stritolaossa.
Tutti quanti noi ci aspettavamo che un fiume di parole, di ricordi, di domande affiorasse dopo il riconoscimento inaspettato, ma invece, i due fratelli si sedettero e continuarono a fissarsi negli occhi con un sorriso ebete che deformava i loro lineamenti.
“Embeh?- sbottai io per rompere il silenzio- embeh?- ripetei.
Fu il primario a prendere la parola, dopo una breve consultazione con il fratello.
“Come avrete ormai capito, Enea aveva visto giusto: io sono suo fratello”.
“Bella scoperta – intervenne Gianni- non siamo poi ciechi!”.
“E sì, avete ragione… ma, vedete, non è stato così semplice per me accettare il ritrovamento di mio fratello, di cui sapevo tutto, che sapevo ignorasse dove fossi, se fossi ancora in vita, cosa facessi. A lui era stato detto che ero stato affidato ad alcuni parenti che erano emigrati in Tripolitania, dopo che nostra madre aveva deciso che due neonati erano troppo per lei che non avrebbe più potuto giocare a Baccarà con tutte due le braccia occupate a tenere i bimbi. Nostra madre, Ecuba Daunia in Priamoide, convinse, così, nostro padre a dare in adozione ad un ramo della famiglia, gli Albalonga, quello di noi due sembrava più gracile.
Conobbi, dunque, i miei genitori adottivi e non quelli veri. Quando, nella maggiore età, mi fu rivelata la mia vera estrazione, provai un odio feroce verso tutti i componenti della mia famiglia d’origine. Aver incontrato Enea mi ha scioccato. Mi sono visto in uno specchio ed ho odiato la mia immagine. Poi ho riflettuto, ho capito che mio fratello era all’oscuro dei fatti, che gli avevano nascosto la verità, tale era lo stupore nei suo sguardo quando ha incrociato il mio. Dopo una breve pausa di riflessione nel mio studio, ho stabilito che non era giusto soffocare nell’odio il richiamo del sangue ed ho deciso di rivelare la mia vera identità”.
Enea era in deliquio; ascoltava rapito il fratello e lo fissava adorante, lui che era un pezzo di marmo di fronte ai casi della vita, una roccia cui appoggiarsi nel momento del bisogno, una stalagmite pronta a perforarti il posteriore se solo gliene fosse capitata l’occasione.
Non appena Paride terminò il soliloquio, l’ortopedico riprese il controllo di sé e chiese di poter esporre i fatti come li avevano raccontati a lui.
Noi eravamo come in un teatro, in una rappresentazione pirandelliana, pronti a commuoverci o sganasciarci dalle risa, avidi di giungere alla fine della commedia, sperando nel lieto fine o nella tragedia totale e assoluta.
La fine ormai sembrava scontata, ma i colpi di scena certamente non erano stati tutti rappresentati. Un applauso frenetico fu il segno che eravamo ansiosi che il “pius” ci mostrasse l’altra faccia della stessa medaglia.
“E’ vero, nostra madre- cominciò il nostro- aveva una grande passione per il Baccarà, ma anche per il baccalà. Io non ho mai saputo quale delle due passioni avesse il sopravvento nella sua psiche. Personalmente, sulla base di alcune indagini che ho svolto col mio professore di “patologia animale”, penso che prediligesse il baccalà e che tutta la storia abbia tratto origine da questa insania. E’ inutile dire che a me era stato riferito da zia Serafina che sì ero uno di due gemelli omozigoti, ma che il primo nato era morto poco dopo la nascita. Zio Romualdo, invece, mi raccontò che mio fratello era stato rapito dagli zingari e che era stato portato in Tripolitania; altri mi dissero che poi se ne erano perse le tracce. Io optai per l’ultima versione. Nostra madre non ne parlava mai e, cosa strana, ogni volta che le chiedevo di mio fratello lei correva dal pizzicagnolo e comprava del baccalà. Compresi che vi era un nesso freudiano fra il baccalà e mio fratello. No, Paride, non fraintendermi – s’interruppe Enea che aveva colto lo sguardo torvo del gemello- non volevo assimilarti al baccalà. Sempre zia Serafina, in una malinconica notte di pioggia, mentre eravamo tutti due svegli per il fragore dei tuoni, mi aveva svelato il segreto: mia madre aveva costretto mio padre a “dare via” il gemello perché era un doppione. Nostro padre era un debole, si mordicchiava le unghie se non aveva a potata di mano un ciuccio da succhiare; usava il pannolone per una fastidiosa incontinenza che lo affliggeva sin dalla nascita, spesso era in analisi per alcuni raptus omosessuali che si evidenziavano in particolare di domenica, quando si recava ad assistere alla funzione religiosa in abiti da donna per far colpo sul parroco ecc…ecc…
Per non tediarvi: il segreto confidatomi da zia Serafina non era completo, mancava la parte più importante che ho reticenza a confidarvi.
“Non ci far stare sulle spine, – supplicò la Tontak- è una bellissima telenovela!”.
”Dovrò prima consultare mio fratello: è un fatto di famiglia…”- sospirò Enea.
Enea e Paride si appartarono.
Noi ne approfittammo per dar fondo agli antipasti ai frutti di mare, alle bruschette, ai salumi che profumavano di Calabria e di Emilia Romagna, alle saporite “boscaiole” ricche di funghi prataioli colti di fresco.
Di bevande neppure l’ombra.
Un ruggito provocò colpi di tosse a ripetizione tra noi che sbafavamo a piene ganasce: “No! Io, un Albalonga, figlio di…”.
“ Paride, non dire cazzate, siamo nella stessa barca … e non urlare –lo frenò Enea- devi prendere coscienza della realtà… via, siamo due figli di troia!
“Ma un figlio di troia con la t maiuscola o minuscola?”- interrogò la voce affranta del primario.
“Minuscola, minuscola – sussurrò Enea- tanto è uguale se non lo scrivi…”.
“Ma sei sicuro, il pizzicagnolo?”.
“Si, ne sono sicuro! …e per giunta si chiamava Achille!”:
“Cacchio, un greco!”.
“Sì, ma un eroe!”.
“Va be’, ho capito…”.
“Lasciamo tutto nel vago”.
“D’accordo, nel vago…”.



IL CONVIVIO

Paride ed Enea tornarono da noi bisbigliando .
La Tontak, fedele alla tradizione che la vuole disponibile e generosa, fingendo di non aver ascoltato la conversazione tra i due gemelli, si fece portavoce del Benpensante pensiero e disse che, poiché si trattava di fatti di famiglia, era bene che non ne fossimo messi a conoscenza.
I gemelli, invece, con estrema disinvoltura, ci raccontarono una storia di famiglie legate al fondamentalismo catto-islamico-buddista, di cui, per la nostra sicurezza, non ci avrebbero rivelato le identità, visto il particolare momento politico.
Così, secondo loro, ci lasciarono nel vago: noi glielo lasciammo credere.
Uno stuolo d’infermieri, incuranti delle proteste dei degenti che scampanellavano come cento chierici durante una messa cantata, affollarono il refettorio e portarono vassoi colmi di ogni ben di Dio.
Ma di bevande neppure l’ombra.
Gianni, che frattanto aveva ingurgitato un’infinità di salame piccante, con la gola che somigliava ad un rosso estintore fuori uso, implorò che gli si portasse un bicchiere di acqua minerale.
Paride di Albalonga fu irremovibile: niente bevande se non a pagamento.
Ci spiegò, poi, confidenzialmente, che se il cibo era possibile sottrarlo alle ricche dispense dell’Ospedale, riservate ai “baroni” universitari, le bevande no… quelle erano gestite dal suo aiuto che le vendeva, sottobanco, nella fiaschetteria del suocero, per consentire alla moglie, un otre di oltre centocinquanta kg, di ricorrere alle cure dei più famosi dietologi.
Rassegnati, cavammo dai portamonete tutti gli euro di cui disponevamo e ordinammo Cocacola, limonate, ginger, vini bianchi e rossi, Whisky, Rhum e Vodka e, per ultimi il caffè e l’ammazzacaffè, un Jak Daniel.
Ovviamente Paride non cacciò neppure un cent, mentre noi ci dissanguammo.
L’atmosfera fu decisamente cordiale grazie all’alcool che circola a velocità stratosferica nelle nostre arterie.
Il primario, in vena di confidenze, ci parlò di una relazione intrattenuta con una dottoressa del suo reparto che gli aveva dato un figlio, a cui aveva imposto il nome di Enea, ma che non aveva impalmato perché di bassa estrazione sociale.
L’ortopedico si commosse, abbracciò il fratello e si disse impaziente di conoscere il nipote; poi, cambiando immediatamente discorso, ci confessò di aver conosciuto intimamente una podista sterile che non gli aveva neppure dato la soddisfazione di un aborto.
La Tontak gli lanciò uno sguardo tenero, dolce e appassionato.
Paride, a cui non era sfuggito l’interesse che Lucia (la polonica, per intenderci) mostrava per il fratello, la convinse a cambiare posto e a sedersi accanto ad Enea.
Enea… Enea è un duro, passionalmente di parte, ma duro. Il suo cinismo sfiora il mio e ciò contribuisce a legarci di un’amicizia vera, robusta e incorruttibile. Ha solo qualche anno più di me, ma spesso assume un atteggiamento paterno, di protezione, perché, nonostante la mia ruvidezza, pensa che io sia un indifeso, un ingenuo, un puro.
Sono abituato a scorgere nei suoi occhi il “Lancillotto” che difende la sua Ginevra (non fraintendetemi!!!), ma che si sciogliesse per uno sguardo femminile proprio no!
Carezzevole, sfiorò la guancia della prof e le dichiarò la sua simpatia, non priva di una forte attrazione fisica (il suo pragmatismo non ha confini).
La Tontak gli prese una mano e la strinse fra le sue ad esplicitare la reciprocità dei sentimenti.
Esterrefatto li vidi tubare come due gazze ladre e tuffai il viso nel piatto di spaghetti ai frutti di mare che avevo d’avanti.
Il profumo mi inebriò e dimenticai il luogo, il tempo e il perché fossi lì.
Il feeling che c’è tra me e i frutti di mare, molluschi e crostacei in particolare, ma pure di qualsivoglia tipo e genere, è qualcosa di atavico, d’istintivo, di primordiale: io cerco loro e loro cercano me.
C’incontriamo quotidianamente, senza testimoni, senza un cavolo di limone che possa intromettersi, snaturare il nostro rapporto, il cannibalismo ancestrale che regola il ciclo biologico universale.
E’ una cerimonia, uno sposalizio che celebriamo sottovoce, con le papille gustative che ci avvolgono in un abbraccio paradisiaco, senza rimpianti di sorta, senza turbamenti. Un silenzio religioso, rotto soltanto dal lieve sfregamento del coltello contro la ruvida scorza, mentre le valve si aprono voluttuose, roride di acqua marina ad invitarmi a coglierne il frutto, dà il segno che l’atto sacrificale non ci sconvolge, ma ci affascina, ci coinvolge, esalta i nostri sensi e diveniamo dannunzianamente un tutt’uno: io in loro, loro in me, lavati dall’umore salato che penetra le nostre cellule, i nostri atomi indistinti, la nostra spirituale visione dell’origine della vita. Il patto che ci unisce è nel mio testamento: così come io, in vita, ho ospitato nel mio corpo questi meravigliosi esseri marini, così loro ospiteranno me, quando le mie ceneri rientreranno nella placenta della terra, cibo prediletto dei miei figli adottivi.
Ero perso in questi pensieri quando Minchiuzzi, il mio “grillo parlante”, mi richiamò alla realtà:
“Cacchio fai? – mi disse- stai raschiando il fondo del piatto!”.
Gli sguardi dei presenti erano tutti schifosamente appiccicati sul piatto che io, disinvoltamente cullavo e baciavo, come fosse un neonato.
Mi vergognai sin nell’imo del cavallo, ma spudoratamente mi giustificai dicendo che stavo saggiando la qualità della porcellana che aveva ospitato i miei cento grammi di spaghetti.
Non convinsi neppure la formica solitaria che, nel tentativo di portare a casa le minuscole briciole del desinare, attraversava il largo ventre di Panzicelli: l’imenottero si fermò, mi fissò per un attimo, scosse le antenne e riprese lentamente il cammino.
Ofelia, la traditrice, che aveva assistito alla scena sogghignando e dando di gomito a Gianni, assuefatta com’era alle mie stranezze quando degusto il mio alimento preferito, mi porse un tovagliolo di carta e mi invitò a non dire “quizzate”; poi, “coram populo”, tra le “sganasciate” generali, raccontò di altre mie particolari abitudini fregandosene del disagio crescente in cui sprofondava il mio “ego”.
Quando si stancò di novellare le sue caviglie erano tumefatte e gonfie.
Voi mi conoscete: sono buono e caro, ma quando me le fanno girare divento cattivo e vendicativo.
Il nostro “convivio” divenne un “decameron”:
In breve ciascuno dei convitati vide spiattellati i fatti più intimi di cui ero stato testimone, senza censura alcuna, ma con dovizia di particolari, ricchezza espressiva, linguaggio appropriato, aderenza alla traccia e forma discorsiva congrua ed esaustiva.
Fregandomene dei vari “ma lasciamo perdere…”, “non fare così…”, “dai, non è il caso…”, “ ma sei proprio stronzo!…”, andai a “ruota libera” con grande insoddisfazione dei presenti. Quando terminai, i pellerossa, pitturati con i colori di guerra, sarebbero sembrati ai pavidi pionieri meno feroci e pericolosi dei miei amici.
Paride, l’unico che avevo risparmiato per mancanza d’informazioni, cercò di riportare serenità ricordandoci che eravamo seri professionisti, padri di famiglia, madri attente all’educazione della prole e che non potevamo permetterci di mandarci a “fanculo” come dei miseri plebei.
Colpiti nella propria dignità, assumemmo un’aria mortificata e promettemmo che mai più avremmo assunto un atteggiamento tale da confonderci coi miserabili servi della gleba.
Vinto, così, l’imbarazzo iniziale, ciascuno di noi dedicò le proprie attenzioni al collega dell’altro sesso più disponibile a subire il fascino dell’attrazione fisica, del richiamo della foresta, dell’urlo dei sensi inebriati dal nettare a pagamento.
In breve, dopo l’abbuffata, la tavolata si spopolò e le stanze libere e non del reparto cantarono sinfonie metalliche con sottofondo di gemiti appena soffocati.
Ofelia ed io preferimmo tornarcene in albergo dove, con piena soddisfazione di ambedue, sperimentammo nuove performances.
Quando l’eros sprofondò sotto i talloni, ci addormentammo.

tratto da Homosex-Si vive di solo pane e Noi del Benpensante di natalino lattanzi

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