sabato 31 maggio 2008

Quando Nonna si diverticolava

Quando nonna si diverticolava
Diverticoli! – disse, grattandosi il mento, il dottor Romano.
Mia sorella ed io, che eravamo nascosti sotto il lettone dei nonni, ci scambiammo uno sguardo complice. Non ci pareva vero che nella pancia della nonna ci fossero i diverticoli.
Io pensai che forse sarebbe stato il caso di aprire una finestra nell’addome, tipo televisione, per intenderci, e assistere allo spettacolo dei diverticoli.
Che devo dire… mi sembrava che mia nonna conservasse nella pancia tanti Aldo, Giovanni e Giacomo in miniatura che di giorno, di sera, a tutte le ore, imbastissero uno spettacolo a suo unico beneficio e che lei si dimenasse sulla poltrona per il gran divertimento.
Mia sorella Pupa, la chiamavamo così perché era bella come una bambola di porcellana, che mi leggeva nel pensiero bisbigliò: ma lo sai che sei sciocco? Nonna non si diverte, si dispera, anzi! Non vedi che quasi piange?
Riflettei: era vero! Forse lo spettacolo imbastito dai comici non era poi così divertente.
Ma no- intervenne ancora mia sorella- lei si dispera perché non può vederlo! Ce l’ha tutto lì nella pancia e non le serve a nulla!
Anche questa volta la telepatia aveva fatto centro!
Mi vuoi dire perché dai risposte a domande che non ho ancora fatto? Come sai cosa volevo dire?
Te lo leggo negli occhi!… lo dice pure una canzone.
Fra mia sorella e me c’è meno di un anno di differenza, siamo quasi gemelli. Lei però è nata prima e questo mi frega, perché le aveva dato il vantaggio della lettura, cosa che io ancora non sapevo fare per bene.
Beh, e allora a cosa sto pensando ora?- la sfidai.
Te lo dico subito! Stai pensando che vuoi mettere una telecamera nella pancia della nonna così vediamo tutti insieme i diverticoli e nonna non si dispera più.
Brava! Mi aveva fregato ancora una volta.
Mia sorella riprese- Ma la telecamera il babbo ce l’ha chiusa nell’armadio.
La nostra origine fiorentina riemergeva ogni volta dovessimo fare riferimento al genitore.
Tutti i miei amici, tutte le amiche di mia sorella dicevano papà; noi no, parlavamo come Pinocchio!
E che ci vuole- la bloccai- prendiamo la chiave e apriamo.
Stupido, il babbo ce l’ha appesa al collo!
Mia sorella era rimasta scioccata dalla fiaba di Barbablù e pensava che tutti gli uomini adulti nascondessero qualcosa o in camere segrete o in armadi, di cui portavano la chiavi al collo.
In verità, mio padre portava al collo una chiave, ma era una minuscola chiave d’oro, un ciondolo della sua collanina che aveva ricevuto in dono il giorno della cresima e che da allora non aveva mai più tolto. Ma noi non lo sapevamo.
Il dottore si accomiatò dopo aver intascato duecento Euro senza rilasciare ricevuta, come disse scandalizzato mio nonno che era un maresciallo della Finanza in pensione.
Mia nonna rimase sola, seduta sul letto, con le gambe penzoloni e si lamentava.
Si sta diverticolando- dissi io.
Si,- confermò mia sorella- ma solo nella pancia; non riesce a vedere niente
La cura era a base di calmanti e sonniferi, nel caso non riuscisse a prendere sonno durante la notte.
Pupa ed io volevamo riguadagnare la libertà, ma non potevamo uscire di sotto il letto sin quando nonna era nella stanza. Ci salvò nostra madre che la invitò in cucina a sorbire una tazza di camomilla.
Sgaiattolammo velocemente da sotto il letto e ci rifugiammo nel ripostiglio che avevamo eletto a base logistica per i piani di monellerie.
Ci distendemmo sul vecchio divano in vimini, mezzo sfondato dai tanti salti che vi avevamo fatto su, mettendo a dura prova l’elasticità del legno, poi assumemmo la posizione fetale, l’unica che ci era congeniale per pensare.
Il cagnolino in peluche, Teddy, ci ammiccava da sotto un asse da stiro tutto sgangherato.
Purtroppo lo scorgemmo nello stesso momento. Ci lanciammo verso di lui per prenderlo e ci ritrovammo l’uno con la testa e l’altra con la coda del pupazzo tra le mani.
Ciascuno di noi lo voleva per sé; tirammo, ci azzuffammo, ci raschiammo e piangemmo.
Nostra madre venne a dividerci.
Io ne reclamavo la proprietà, ma nessuno della mia famiglia ricordava chi l’avesse avuto in dono e da chi.
La questione è rimasta insoluta sino al disfacimento completo del povero peluche.
Chiaramente neppure quella volta nessuno di noi due l’ebbe vinta e il cagnolino fu relegato in soffitta.
A riappacificarci ci pensò l’alcool denaturato che nostra madre strofinò sulle nostre piccole ferite.
Piangemmo per il dolore e ci abbracciammo, come nella poesia “I due fanciulli” di Giovanni Pascoli.
Giunta l’ora di fare i compiti, mia madre ci spinse verso la lunga scrivania fatta costruire apposta per noi, affinché potessimo studiare nella stessa stanza senza infastidirci a vicenda.
Ma il pensiero del grande spettacolo che avveniva nella pancia della nonna, senza che nessuno ne usufruisse, ci spinse a tralasciare i nostri doveri e a tentare di pensare un piano di battaglia per liberare lo schermo che si accendeva e spegneva nell’addome della nonna, con un gran consumo di energia che poi faceva dire a mio padre che le bollette della luce erano molto “salate”.
Le vignette di un vecchio giornalino di Tex Willer, il mio compagno inseparabile durante le lunghe ore di noia alla scuola materna, mi suggerì l’idea di aprire un varco nella pancia della nonna, così come aveva fatto il mio eroe che, per liberare il figlio Kit e il fido Tiger, aveva piazzato della dinamite, mentre le pallottole dei cattivi gli fischiavano attorno, proprio davanti all’uscio della capanna in cui erano rinchiusi.
Mia sorella mi guardò sgomenta: ma dove prendiamo la dinamite!...- mi disse con aria di superiorità.
Non ci avevo pensato, era vero!
Ma ancora lei, mia sorella mi venne in aiuto.
Forse è nell’armadio di Barbablù, cioè – si corresse- del babbo.
La storia di Barbablù quella volta mi parve più vera, anche perché, proprio prima che andasse via il dottore, mio padre si era chiuso nella sua stanza e lo avevamo sentito armeggiare vicino l’armadio, poi, con una bottiglia che a noi parve di veleno, si era avvicinato al dottore con aria cattiva e gli aveva offerto un bicchiere di quell’intruglio.
Il dottore, dopo averlo bevuto, fu colto da una tosse così forte che continuava a farla anche per le scale quando andò via.
Forse era già morto- pensai.
A quel punto decisi che le paure di mia sorella non erano soltanto frutto della sua fantasia, ma che esisteva una valida possibilità che fossero certezze.
Pupa mi lesse ancora una volta nella mente.
E’ proprio così!- mi disse con aria grave.
Mia sorella, che ha un senso pratico molto più acuto del mio, ebbe un lampo di genio.
Perché, invece della dinamite non diamo alla nonna un po’ del veleno che il babbo ha dato al dottore? Se la nonna tossisce come lui, può essere che vomiti il televisore che ha nella pancia!
Giusto!- approvai- come ho fatto a non pensarci io?
Bisognava, però, elaborare un piano per togliere dal collo del babbo la famosa chiave.
Ancora una volta Pupa ebbe un’idea.
Senti- mi disse- domani mattina svegliamoci presto, andiamo nel lettone della mamma e del babbo e li assaliamo con baci e abbracci. Durante la confusione che si creerà io romperò la collanina e tu la prenderai la chiave. Poi ce ne torniamo a letto.
Il piano era geniale e il giorno dopo lo mettemmo in atto punto per punto.
I nostri genitori pensarono che eravamo stati colti da un accesso di affetto e sottostettero volentieri alle nostre effusioni.
Mia sorella ruppe la collana, io presi la chiavetta, la nascosi nella tasca della giacca del mio pigiamino e, dopo aver recitato per alcuni altri minuti, ritornammo nei nostri letti.
Non c’eravamo allontanati che di pochi passi che sentimmo brontolare il babbo per il fatto che si era rotto il suo gioiello e che chissà dove era andata a finire la chiavetta in quel gran macello che avevamo inscenato.
Mia madre lo consolò non so come, perché per un po’ di tempo le voci tacquero.
Ma non eravamo che alla metà dell’opera. Ora bisognava riuscire ad aprire, non visti, il famoso armadio.
Questa volta l’idea fu mia.
Di domenica mattina il babbo, che era un cuoco sopraffino, si preoccupava lui di preparare il pranzo.
Una pietanza che gli riusciva molto bene era il ragout, ma per farlo la mamma gli faceva da assistente.
La preparazione del ragout è molto laboriosa.
Bisogna innanzitutto preparare le braciole di vitello e maiale con ripieno di lardo prosciutto, formaggio romano, aglio, prezzemolo, sale e un pizzico di pepe nero; poi si scelgono le frattaglie di carne più saporite come nervetti e callosi, a cui si aggiungono alcune cotiche di prosciutto e dei piedi di agnello.
A quel punto si mette a sfrigolare il tutto in un tegame di creta, a fuoco lento.
Quando la carne prende un bel colore marroncino le si aggiunge una cipolla tagliata a fette sottili, si aspetta che assuma un colore castano chiaro e si irrora tutto con un buon bicchiere di vino bianco.
Quando il liquido si consuma, si versa abbondante passato di pomodori pelati e il sale, si copre il tegame e si aspetta che cuocia a fuoco lento.
Il tutto porta via almeno quattro ore. Quattro ore in cui Pupa ed io restavamo padroni di tutto il resto della casa, con divieto assoluto di varcare la soglia della cucina.
Mentre, di solito, questo fatto ci arreca grande fastidio, perché vorremmo collaborare alla preparazione del sugo, quella domenica, ci rese felici.
Quando il babbo e la mamma si reclusero in cucina, Pupa ed io ci precipitammo nella loro camera da letto e arrembammo l’armadio.
Ahimè, la chiave era troppo piccola o la toppa dell’anta era troppo grossa.
Deluso detti un calcio al mobile e con mia grande sorpresa mi accorsi che l’anta si era schiusa appena.
Il resto fu facile!
La bottiglia di veleno recava una scritta paurosa: Grappa purissima alla ruta.
Non appena la stappai, annusai il contenuto: un odore fortissimo, nauseante e bruciante salì per le mie narici e starnutii con violenza.
Il volto mi diventò di un rosso paonazzo e la stanza prese a girarmi intorno.
Pupa mi sostenne: non cadere, stupido,si può rompere la bottiglia!
Per fortuna il giramento di testa durò poco!
Prendemmo il bicchiere di plastica ripieno d’acqua che tenevamo per la notte sul comodino, ne svuotammo il contenuto nella pianta di pansé che era sul davanzale della finestra della nostra cameretta, lo riempimmo a metà del liquido “velenoso” e lo nascondemmo nel comodino.
La nonna, che nel frattempo si era svegliata, chiamò per prendere la sua camomilla.
Mai come quella volta, Pupa ed io accorremmo con prontezza, violando la consegna, in cucina e ci dichiarammo disponibili a portarle la medicina.
Mia madre, che aveva già preparato il calmante in un bicchiere da bibita, ce lo porse.
Prima di andare dalla nonna, versammo nella nostra piantina metà del calmante e vi aggiungemmo il “veleno”.
Alla nonna porgemmo il bicchiere consigliandole di berne il contenuto tutto d’un fiato e aspettammo.
Non appena la poverina ingollò quella che avrebbe dovuto essere la sua medicina, fu colta da accessi convulsi di tosse e da dolori fortissimi all’addome.
Le sue grida giunsero sin nella cucina e dalla cucina giunsero velocissimamente ai nostri genitori.
Pupa ed io guardavamo la bocca di nostra nonna nella speranza che il piccolo televisore venisse fuori, ma che devi fare, manco l’antenna sbucò.
Mio padre ci urlò di non stare lì come due imbecilli, ma di chiedere, piuttosto, aiuto al nostro dirimpettaio che è dentista.
Il dottore, non appena si rese conto delle condizioni di nostra nonna, consigliò un ricovero immediato.
L’ambulanza la portò via mentre mia sorella ed io, affacciati alla finestra la guardavamo allontanarsi.
Mia nonna fu operata d’urgenza e da allora non si diverticola più, ma a noi i dottori non hanno mai restituito il televisore che lei aveva nella pancia.
Che ladri, però!...!

Si Vive di Solo Pane

MELIUS ABUNDARE QUAM DEFICERE
L’aria profumava di spaghetti alle vongole, di dentice arrosto, gamberoni al vapore e crostata di mele, ma il desco “de la salle à manger” si presentava terribilmente spoglio, con un'insalata di finocchi e frutta di stagione. Briciole di pane erano sparse per terra; avanzi di lische di pesce giacevano nei pressi della cuccia improvvisata di Knut.
Sonnecchiava sulla sua brandina, quando noi ci affacciammo nella sala da pranzo. Purtroppo non avevo avvisato la Bonelli della sua enorme affettuosità: sentimmo tutto ad un tratto un abbaiare furioso, una corsa disperata, un ringhio terribile e vedemmo una massa di oltre quaranta chilogrammi precipitarsi sulla mia collega.
Ero già pronto a prendere al volo l’energico bestione quando, senza meravigliarmi più di tanto, il cane frenò, slittando sul pavimento, e cominciò, latrando, il suo rituale di corteggiamento: si buttò per terra con le orecchie basse, rimase immobile e languido per alcuni secondi, poi agitò la coda e il suo pisellone e... a quel punto lo tirai per il collare punzonato e gli sussurrai qualche parolina all’orecchio.
Knut è un bravo cane, socievole, intelligente e servizievole, mi capisce a volo: rinfoderò la daga, mise la coda tra le zampe e a testa bassa, brontolando, si riaccucciò sulla brandina.
La Bonelli, pallida in volto e con un lieve tremito alle mani, ricompose l'abito già sgualcito dalle nostre precedenti effusioni e mi si strinse languidamente.
Il ciabattare di Cassandra ci sorprese abbracciati.
Lo stupore che mostrò la nostra collega fu accompagnato da un "ullalà" di Orsobruni che la seguiva a pochi passi di distanza.
In meno che non si dica la stanza fu invasa da una miriade di alunni che ci circondarono e, con parole più oscene di quelle pronunciate da un potente uomo di Stato americano mentre si faceva succhiare il pisello da una giovane fan, mostrarono di approvare la scelta di Ofelia e di condividere i miei gusti.
Gianni Estroverso, su una sedia a rotelle elettrica, sgommando raggiunse la folla ululante e si unì, tra una grattata e un lamento, al casino generale.
I soliti cori goliardici accompagnarono i furiosi battimani e i fischi modulati intonati a nostro beneficio, frenati soltanto dall'urgenza di raggiungere la discoteca per dare sfogo all'esuberanza dell'età giovanile.
Impartitaci, quindi, la loro benedizione, con pacche sulle spalle e strizzare d'occhi, i ragazzi svanirono nel buio della notte, accompagnati dallo scettico Orsobruni.
Ci sedemmo a tavola, Ofelia ed io, affamatissimi.
Cassandra, di turno quella sera e tutte le altre sere come cuoca e vivandiera, scomparve in cucina seguita dal famelico Knut.
Tornò dopo poco con della bruschetta fredda, quasi del tutto scondita, appassita, morta. Si scusò dicendo che i nostri "affidati" e un non meglio specificato Ulrico avevano divorato ogni cosa, fregandosene degli assenti.
Stanco e affamato per le lunghe ore di ginnastica, imitato dalla Bonelli, che stranamente non aveva aperto bocca, ingurgitai quella sbobba. Mentre mi dissetavo con un dolcissimo grappolo d’uva israeliana, preso dalla curiosità, sbottai all’improvviso: “Ma si può sapere chi cacchio è quest’Ulrico?”.
Cassandra mosse il braccio destro come fanno gli americani per significare “roba da poco conto” o “che quiz te ne frega? Son cacchi miei !” e si sedette accanto a me, accendendo una sigaretta. Accavallò le gambe, sistemò il pareo che le scivolava dalle spalle e, ignorando la mia domanda, si rivolse ad Ofelia. Con aria complice le chiese: “Che cosa è successo sulla spiaggia? Mi hanno detto che c’è stato un incidente”.
La Bonelli non si lasciò cogliere di sorpresa e accavallando a sua volta le gambe, tirò la gonna sulle ginocchia e accese una sigaretta: “Oh, niente di grave; - rispose- pare che una ragazza si sia sentita poco bene e che sia stata soccorsa da un suo ammiratore che poi l’ha portata via… nient'altro!" -e lanciò una boccata di fumo verso di me. “Piuttosto- continuò Ofelia strizzando un occhio- a te com'è andata? Sei stata vista allontanarti in compagnia di un “fico” d'importazione… e poi...?”
Cassandra, divenuta improvvisamente rossa, dopo un attimo d'indecisione, sbottò in una risata squillante: “Ulrico...- disse dopo essersi ricomposta- si chiama Ulrico il mio poi… ma voi come l'avete saputo?”.
Il breve e sottile duello fra le due donne mi lasciò indifferente, intento com'ero a cercare qualcos'altro da mandare nel mio stomaco; mi chiedevo soltanto come cacchio avesse fatto Ofelia a sapere del fantomatico Ulrico: un colpo di "culo"- pensai, e mandai giù un tocco di salame piccante trovato nell'enorme dispensa.
Con la bocca che mandava lame di fuoco, corsi in cucina e mi "attaccai” ad una bottiglia di acqua minerale ultra ghiacciata.
Mentre tiravo un sospiro di sollievo, udii Cassandra raccontare:
"Ero sul materassino, al largo, quando mi son vista accanto questo tipo dai capelli dorati, occhi verde mare, spallacce enormi, collo taurino e splendida dentatura color avorio, sapete, di quelle che al sole mandano luce. Con accento tedesco, mi ha chiesto se poteva farmi compagnia e, senza attendere la mia risposta si è messo a vogare con le mani. Mani? due spatole mi sembravano. Ti chiamano "polipo"- disse volgendosi verso di me – e quello cos’è?… ma faceva tutto con molta dolcezza. Mi chiamava “zirena del mare del nord, mag-nifica fichinga, coio del nain equinen (sarà un complimento tedesco), zimpaticissima belfa, stallona of Berlin (questo mi ha lasciato in dubbio), main emmental suisserland, main ice cream, petite cartoffen”.
Accortosi che non reagivo ai suoi complimenti, ha preso una mia mano e se l’è portata sul cuore prima, man mano scendeva e lì l’ho fermato perché i ragazzi hanno cominciato ad ululare, a sfotticchiarmi, a… ricordarmi che sono vergine.
Si chiama Ulrich von Peethoven, discende dall’antica aristocrazia tedesca, è un industriale pieno di soldi. Dice che gli ricordo Bonn e mi vuole con sé in Germania. Mi ha accompagnato sino a casa e non ho potuto fare a meno di invitarlo a cena. Vi abbiamo aspettato sino a mezzanotte, poi abbiamo cenato. Gli è piaciuto tanto il pranzo, che non smetteva di dirmi maine cuoche, maine fantastichen petite faten, maine tutten. E’ andato via alle tre sbronzo di birra e deluso di non avervi incontrato; ma ha promesso che stamattina vi cercherà sulla spiaggia.”
A questo punto del racconto comparve Leonardo Orsobruni, con una bottiglia di birra tra le mani e l'alito puzzolente. Un tremito fortissimo gli scuoteva le spalle e parole senza senso gli venivano fuori dalla bocca assieme a rivoli di birra.
Cassandra lo guardò con commiserazione, si concesse una pausa di riflessione e, dopo qualche secondo, cacciando fumo dal naso e dalla bocca: “Non so che fare- confessò – forse farò una capatina in Germania…”
"Fare una capatina in Germania?" -pensai strabuzzando gli occhi.
Cassandra, la mia segretaria dei Consigli di classe, colei che inventa tutto ciò che dovrei dire, che mi sostituisce nei momenti di bisogno, che mi compra la focaccia e le sigarette quando sono affamato o in crisi d'astinenza…lei fare una capatina in Germania? Manco a parlarne!…"
Distrutto da questi pensieri mi lasciai prendere dalla commozione e imprecai contro Ulrico.
Ofelia, accortasi del mio smarrimento, cerava di consolarmi carezzandomi il viso, le mani e tirando piccoli morsi alle mie orecchie. Le sue manovre mi distrassero dal tormento che mi affliggeva e mi fecero riflettere sul futuro: guardai la Bonelli e sogghignai.
Leonardo, invece, abbandonò tristemente la stanza dicendo che i ragazzi lo avevano seminato e che non intendeva cercarli: "che si fottano!"- concluse.
Lo sentimmo singhiozzare mentre si allontanava, probabilmente per l'eccessiva libagione.


NON CI RESTA CHE PIANGERE
Fui svegliato dalla radio ad altissimo volume che blaterava di future rappresaglie contro terroristi vari, colpevoli di attentati vari e appartenenti a varie estrazioni etniche, tra cui, gettonatissima, una afro-asiatica.
Ero sul divano, vestito, con a fianco la Bonelli che ancora dormiva saporitamente.
Mi stropicciai gli occhi, stirai le mie membra distrutte da un mollone che mi aveva torturato il fianco per tutta la notte, chiamai Knut e aspettai la mia tazzina di caffè.
Udii i passi della belva avvicinarsi e già pregustavo il piacere della mia bibita preferita, quando mi accorsi che, colui il quale secondo la letteratura di tutti i tempi rappresenta l’esempio massimo di fedeltà verso il padrone, fregandosene della mia persona, con la tazzina di caffè sul cranio, si avvicinava ad Ofelia e con estrema gentilezza, in un equilibrio che sapeva di portentoso, le leccava la guancia per svegliarla. “Delitto e Castigo” (lo porto sempre con me, quando sono con il mio cane) piombò con violenza a mezza altezza tra le zampe posteriori di Knut che latrò disperatamente, s’inginocchiò rumorosamente per terra, facendo volare la tazzina contro la vetrata della finestra e, guaendo e borbottando, sporco di caffè e con cocci di porcellana e di vetri tra le dita unghiate, se ne tornò frettolosamente nella sua cuccia, a leccarsi il basso ventre.
La Bonelli, svegliatasi di soprassalto per tutto quel casotto, dopo un attimo di smarrimento, resasi finalmente conto di dove si trovasse, mi gratificò di un: “cominci a rompere le palle di prima mattina?” poi mi sorrise e mi dette un morso alla guancia.
Anche Cassandra, al rumore della tazzina in frantumi, più scocciata che preoccupata, si affacciò nel tinello e con aria rassegnata, senza degnarmi di uno sguardo, salutò Ofelia e le ricordò l’appuntamento con Ulrico; poi, malinconicamente, se ne tornò in cucina, lamentandosi ad alta voce per i metodi che utilizzo con Knut.
“Il traditore”, consapevole di aver fatto breccia nel cuore della Ognimmorti, non perse l’occasione di farsi coccolare. Le si avvicinò trascinandosi penosamente sul pavimento, ingigantendo le mie colpe, le leccò un piede, uggiolò e si mise pancia all’aria per ricevere carezze e grattatine. Il premio finale fu una gigantesca bistecca che avevo sognato per me: i metodi del dottor Spok colpiscono ancora.
Ignorando il continuo borbottio di Cassandra, andai in bagno per prepararmi in vista dell’impatto con il tedesco.
Ofelia, dopo meno di cinque minuti d’attesa, cominciò a bussare dietro la porta del WC implorando di sbrigarmi, poiché aveva delle urgenze.
Se c’è una cosa che mi disturba è il non essere lasciato in pace nel mio rifugio: la stanza da bagno. E', infatti, per me come la soffitta polverosa in cui rifugiarsi nei momenti di riflessione. Lì leggo, compongo, “cruciverbo”, correggo i compiti, fumo le sigarette più gustose: è un luogo senza tempo, è il luogo delle rimembranze, del piacere della solitudine, della meditazione sull’infinito, della scoperta dell'io.
Seccatissimo dell’ingerenza della Bonelli, risposi, tra una boccata di fumo e l’altra, di lasciarmi in pace, di non rompere le scatole e di cercare un eventuale bagno di servizio.
Udii i passi frettolosi di Ofelia verso la cucina e poi uno scarpinare veloce e la voce di Cassandra: ”Di qua... vieni da qua... dai che ce la fai... No! non gliel'hai fatta!”
Purtroppo il bagno di servizio era la stanza più remota della masseria, cui si accedeva dopo due rampe di ripide scale.
Per fortuna la Bonelli non mi portò rancore per il piccolo incidente, anzi quando la rividi mi sembrò un po’ impacciata, intimidita dalla situazione di cui eravamo stati testimoni. Poi sbottammo tutti in una gran risata e la cosa finì lì anche perché cominciavamo ad aver fretta.
Non è che avessi un gran desiderio di incontrare l’alemanno, ma ero roso dalla curiosità; così, non sapendo a cosa stessi andando incontro tornando sulla spiaggia, alle nove ero già in riva al mare.
Approfittando della manifestazione prevista proprio quel giorno, “spiaggia in maschera”, mi ero travestito da sceicco arabo, con tanto di baffi e barba finti e con la Bonelli nel ruolo di concubina euroafroasiatica.
Purtroppo era una giornata ventosa e i nostri vestiti lunghi e leggeri si gonfiavano ad ogni soffio che il buon Eolo spingeva verso di noi. Per fortuna sotto le bianche tuniche indossavamo pantaloni di seta, stretti alle caviglie, che in un certo senso riparavano da raffreddori alle basse vie e impedivano rapidi riconoscimenti.
La 5C dormiva ancora saporitamente, dopo la bisboccia della sera precedente.
Un soffio di vento fortissimo seguito da una tromba d’aria, tipo Louis Armstrong, lanciò un acuto tale da far volare i nostri occhiali da sole e strappò la mia pelosità posticcia e i pantaloni di Ofelia.
Dicono che le trombe d’aria facciano paura a tutti, ma evidentemente chi lo asserisce non conosce gli "abituès" dello stabilimento balneare “Chi l’ha dura la vince”.
La spiaggia, deserta sino a qualche attimo prima della tempesta, divenne popolatissima: bimbi in carrozzino, ragazzini con palloncini, giovinetti esili ed emaciati, con gli occhi pesti per tutte le seghe giornaliere, ragazzine dal seno piatto e dal sedere prominente, giovani con la bava alla bocca brancolanti sulle girls in topless, mariti finalmente liberi delle mogli, mandate in villeggiatura con le madri a consumare gli occhi davanti al commesso in costume da bagno che succhia costantemente Coca-Cola, mostrando il petto villoso e i gonfi muscolacci a tutti e cinque (!) gli arti, vecchietti e vecchiette reciprocamente schifati nel vedersi mezzi nudi, con l'evidente decadenza espressa dai seni vuoti e grinzosi delle femmine e dal cavallo scarso e cadente dei maschi. Beh, tutta questa gente, che di solito è indaffarata nei cacchi suoi, interruppe la propria attività per lanciarsi, come un sol uomo, verso me e la mia compagna, al potente grido di Ulrico: “Ekcooofeli!”.
Quando ci svegliammo eravamo ancora una volta su di una sedia sdraio, pestati a sangue, doloranti e scioccati, senza nient’altro addosso che brandelli di slip, attorniati da un mare di gente: chi ci spugnava gli occhi, chi il volto, il torace, le gambe. Molti giovani indugiavano sulle parti medio-basse di Ofelia, trascurando completamente me che in compenso ricevevo le cure amorevoli di Cassandra ed Orsobruni.
Ad un certo punto una voce tuonò: “lasciateli, sono miei!...”
Il pio Enea Priamoide, sbucato da non so dove e non so come, venne in nostro soccorso, armato di pinze, aghi, forbici, filo da sutura, etere e specilli.
“San Lazzaro – esclamò quando poté accostarsi a noi, facendosi largo a gomitate e spintoni- due San Lazzaro mi sembrate! Si rivolse poi alla folla che si mostrava un po’ dispiaciuta, molto intimorita dalle possibili conseguenze del pestaggio e, mentre armeggiava sui nostri corpi disfatti, chiese spiegazione del gigantesco “rituino” (da noi significa una valanga di botte) di cui eravamo stati oggetto.
Tutta la 5C rumoreggiò e indicò il teutone, nascosto dietro un bagnino largo tre metri.
Nessuno osò parlare tranne lo stesso Ulrico, che uscito dal suo rifugio, come un cane bastonato, consapevole di aver scatenato la furia omicida della gente con quel suo “ekcofeli”, in italogermanico dette la spiegazione del drammatico avvenimento.
La gente- disse- suggestionata dai notiziari del mattino a proposito di atti terroristici compiuti dai fondamentalisti arabi, al suo grido ci aveva scambiato per due bombaroli e aveva pensato bene di "farci fuori" a pugni e calci. Solo quando ci furono strappati gli abiti di dosso qualcuno ci aveva riconosciuto, ma ormai era troppo tardi.
“Zono fortizzimamente dizpiaciutizzimo”- concluse guardando Cassandra con occhi supplichevoli e chiedendo il suo perdono.
Mentre noi faticosamente ritornavamo alla vita, quel pezzo di... pensava agli affari suoi!
Cassandra gli lanciò un’occhiata fulminante e gli suggerì di accostarsi alla sedia sdraio su cui giacevamo Ofelia ed io, ben sapendo come lo avrei accolto.
Raccogliendo, infatti, con uno sforzo sovrumano tutte le forze rimaste, non appena mi si accostò gli portai le mie mani alla gola e strinsi, strinsi, strinsi...poi qualcosa mi precipitò sul cranio e persi i sensi, mentre con somma gioia mi giungeva il gorgoglio della voce di Ulrico sempre più flebile: “actung... liebe, liebe... main Goth...”.

domenica 18 maggio 2008

Homosex-Si vive di solo pane

ESTOTE PARATI
La masseria, situata a cinque Km da Rimini sud, troneggiava nel sereno, quasi fosse un presepe nella notte di Natale.
Non vi era, infatti, il solito rumore assordante delle auto che percorrono a velocità sostenuta le vie cittadine, non si udiva il frastuono delle radio a tutto volume, delle sirene della polizia e dei pompieri, ma solo il dolce rumore della risacca, lo sciacquio delle onde sulla scogliera, il verso dei gabbiani che predano il cibo al mare, le urla dei turisti vittime degli scippatori.
Decidemmo di trascorrere quella domenica di primavera sulla spiaggia, a prendere un po’ di sole e di acqua salmastra: non fosse altro che per rinfrancarci delle fatiche del giorno precedente.
La proposta non fu accolta con molto favore dai ragazzi che preferivano girare per Rimini alla caccia di anglosassoni e teutoniche.
Feci valere la mia autorità minacciando la non ammissione agli esami di Stato ai fautori della proposta.
Accompagnato da vari "vaffanculo, stronzo rincoglionito!" vinsi la mia battaglia e spinsi la ciurma sulla costa sabbiosa dell'Adriatico.
Dopo qualche lieve “borbottamento”, cinquanta ragazzi bagnavano le loro chiappe nell'acqua salmastra, inseguendosi, lottando, urlando e pomiciando.
Ad un certo punto sentii una voce strozzata ma ben alta richiedere aiuto. Chi se non Olindo Buonavoglia poteva cacciarsi nei guai in ogni situazione ?
Gettai uno sguardo sull'orizzonte e mi accorsi che il provveditore junior annaspava, agitava le braccia, andava sott'acqua, ricompariva e invocava l'help con quel poco d'aria che gli restava nei polmoni.
Alle urla di Olindo non uno dei suoi compagni mosse un dito; i più chiedevano che si lasciasse affogare quel coglione raccomandato, qualcuno se la rideva, pensando ad uno scherzo.
Non sono un gran nuotatore (infatti, prediligo la sabbia perché mi consente di camminare nell’acqua sin quando si tocca), per questo motivo non ritenni opportuno rischiare la vita e incitai Orsobruni, che per fama è ritenuto l'erede del vecchio Jonny Weismuller, a muovere le chiappe e a ripescare Olindo.
Lo psicologo, invece, aveva assunto una posizione asociale e dopo un cenno di diniego fatto col capo, si eclissò dietro una duna.
Di bagnini neppure l'ombra.
Vincendo il mio timore reverenziale per le profondità marine, mi lanciai di corsa verso il bagnasciuga e, preso lo slancio, mi tuffai verso l'oceano.
La panciata che detti sul bassissimo fondo sabbioso risvegliò tutte le amebe e le tenie che sonnecchiano da sempre nel mio intestino; provai un dolore acutissimo che percorse la mia spina dorsale per fermarsi all'alluce sinistro, già provato da mille piccoli precedenti infortuni.
Imprecando ad alta voce raggiunsi quel disgraziato di Olindo che, ad una profondità di neppure trenta centimetri, si sganasciava dalle risate.
Accecato dal dolore lancinante del mio alluce, afferrai il "bastardo" per i capelli, gli spinsi il capo sott'acqua schiacciandoglielo sulla sabbia e lo tenni giù per buoni trenta secondi; quando mi resi conto che il livello del mare era decresciuto per l'acqua ingoiata dal mio allievo, lo feci riemergere e lo sospinsi, a calci nel sedere, verso la spiaggia.
Olindo era infuriato, giurava che me l'avrebbe fatta pagare raccontando tutto al "paparino" che certamente avrebbe provveduto (altrimenti che razza di provveditore sarebbe stato) al mio immediato trasferimento nell'isola di Ventotene.
Non nascondo che provai un po' di paura alle minacce dello sciagurato, per cui la buttai sullo scherzo dicendogli sorridendo che lo stimavo troppo maturo perché se la fosse presa per un gioco innocente.
Buonavoglia, sulla sabbia, con gli occhi rossi, le labbra livide e i capelli appiccicati sulla fronte, imbronciato, sputando acqua mi rassicurò e per dimostrarmi che era un uomo e non un bambino mi tese la mano.
Come un allocco, abboccai e mi ritrovai per terra, a pancia in giù, soffocato dalla sabbia che mi riempiva la bocca.
La finimmo lì.
Un marocchino travestito da “marocchino” si affacciò timidamente sulla spiaggia, portando sulle braccia e sulle spalle tutto l’occorrente per il mare (una coppia di sdraio, ombrelloni, asciugamani ed accappatoi, borse termiche, tamburelli, bocce, sigarette, accendini vari, sombreros messicani, borracce e un mini hi-fi che vociava a tutto volume) .
Il sole picchiava maledettamente e il sudore gli scivolava dappertutto, in modo particolare negli occhi, facendoli bruciare come se li avesse sfregati con un peperoncino calabrese.
Avanzava sulla sabbia bollente barcollando per il peso e per le scottature, suscitando l’ilarità di alcuni alunni che cominciarono a seguirlo, lanciandogli contro palle di sabbia bagnata.
Ad un certo punto fu colpito fra le scapole e con un urlo disperato precipitò per terra, distribuendo il suo bagaglio su una superficie di circa tre metri quadri.
Mentre la sabbia gli riempiva i vari orifizi, alcuni bagnanti tedeschi a gesti gli indicarono un “luogo anatomico” dove andare, invitandolo, immediatamente dopo, con voce hitleriana ad alzare le chiappe e a tornarsene nella sua Africa.
Quando finalmente riuscì ad alzarsi, privo della copertura delle sue cianfrusaglie, ammutolimmo: era un sosia dei bronzi di Riace. I suoi muscoli fremevano potenti sotto l'abbronzatura naturale concessagli da Allah; la dentatura mandava lampi accecanti, colpita dai raggi solari, le mani, chiuse a pugno, sembravano due martelli pneumatici in cerca di lavoro, le gambe due Baobab dal fusto enorme e le spalle una portaerei.
Immediatamente comparve la simpatia sui volti impalliditi dei miei compagni di mare che, "magnanimamente", raccattarono tutto l'armamentario sparso sulla sabbia e chiesero umilmente scusa al gigante nero.
Un bagnante, sottovoce, osò lamentarsi dello scompiglio che aveva causato, ma di fronte. al grugnito del watusso, che cercava digrignando i denti i responsabili della sua caduta, si nascose dietro il grasso strabordante di Otto Merdhammer, un caseario di Berlino.
I miei alunni decisero per la fuga e scomparvero nelle acque dell'Adriatico.
I teutonici, invece, entusiasti delle cianfrusaglie ancora sparse sulla sabbia, se lo ingraziarono con l'acquisto di orribili maschere papuasiane, profilattici africani fatti di buccia di banana (di qui l'aumento demografico registrato nel Continente Nero), feticci contro il malocchio, collane ricavate dalle zampe della mosca tse-tse e braccialetti di corallo industriale.
Tutti felici, dopo aver speso un patrimonio, gli alemanni alzarono le chiappe e noi e "Riace ter" restammo padroni del territorio.
L'esotico, non contento della razzia operata ai danni dei nostri fratelli europei, mi si avvicinò per tentarmi con un calendario porno, stampato in oro su seta del pleistocene (diceva lui), ritrovato in una grotta keniota.
Dopo una lunga trattativa fatta con gesti della "morra cinese" e grugniti da plantigradi, mi assicurai il "reperto" per cinque "euro" che mi erano stati dati da un amico bancario in cambio di un fanale di una vecchia cinquecento.
Andato via l'extracomunitario, la Quinta C sorse dalle acque, così come fece Venere nell'isola di Zante, e si lasciò cadere sulla sabbia, pancia all'aria, per farsi dorare la pelle dai cancerogeni raggi ultravioletti del sole.
Vedere i cinquanta corpi distesi e immobili, di ambedue i sessi, quasi nudi ed efebici dei miei alunni imbelli, risvegliò in me l'istinto omicida e se non fosse giunta la Bonelli, avrei brancolato su quelle spoglie come il dantesco conte Ugolino.
Ofelia, in "due pezzi" nero, che mostrava alla natura la riconoscenza per l'impegno che aveva profuso nel confezionare quel bel pezzo di femmina, si sedette accanto a me e commentò gli ultimi avvenimenti, così come fa lei, con un fervore fervente, mediterraneo e forte, fatto di gesti "onomatopeici", con involontarie sfiorate della mia pelle, che mi eccitarono.
Debbo confessare che fra Ofelia e me non è mai corso “buon sangue”; infatti, da quando sono addetto alla costruzione dell’orario scolastico, le ho costantemente raffazzonato un orario pieno di buchi che la costringe a scuola, quotidianamente, dalla prima all’ultima ora. Ciò non vuol dire che lo faccia di proposito, anzi...
Politicamente giacobina, la Bonelli è sempre fra i miei più accesi oppositori e, ogni volta, dopo l’accettazione passiva collegiale del “dictat” curricolare, mi lancia sguardi da assassina, mi toglie il saluto e dichiara ad alta voce volgarissimi propositi di vendetta che poi, per fortuna, non mette in atto.
Pur sentendomi terribilmente di “fottere” per il suo atteggiamento ostile, fingo di stare al gioco e le invio i miei ghigni delle grandi occasioni.
Rimasti soli, dopo aver preso a calci l'intera Quinta C, con la minaccia di relegarla in masseria, senza libera uscita serale, mi concentrai su Ofelia.
Le presi affettuosamente una mano tra le mie e le chiesi notizie sulle sue condizioni psico, ma soprattutto fisiche.
Mi raccontò, quasi sussurrando, con voce sensualmente arrochita, e chinando dolcemente il capo verso la spalla destra, mentre una cascata di capelli neri le copriva l'omero, che "se l'era vista brutta", che mai avrebbe pensato di vivere un'esperienza simile e che voleva solo dimenticare.
Ofelia, allorché comincia a raccontare, somiglia allo scioglimento delle nevi del Kilimangiaro (mistero ancora insoluto), getta ettolitri di parole al secondo e si ferma solo quando è in debito d'ossigeno, poi rifiata e parte a ritmo singhiozzante, consentendo all’interlocutore brevi risposte e lapidarie domande.
A metà mattinata conoscevo i suoi primi dieci anni di vita; all’ora di pranzo ero stato messo al corrente di ciò che le era accaduto sino alla sua età attuale. All’imbrunire aveva preconizzato il suo futuro sino all’età di sessantacinque anni; il resto, dice lei, è sulle ginocchia di Giove.
Il sole e il fiume di parole della mia collega mi avevano intontito a tal punto da spingermi a sussurrarle all’orecchio parole dolci, promesse di eterno amore e, per il prossimo anno scolastico, un orario “ad hoc”, simile al mio.
Ofelia ascoltava assorta, stranamente non interrompeva le mie parole, si guardava le dita e giocherellava con un ciondolo che raffigurava un gobbetto dal volto ripugnante che al posto delle gambe aveva un appariscente corno d’avorio rosso, da cui spuntava, biricchinamente, una protuberanza ben definita: lo riconobbi immediatamente. L'amuleto era, infatti, il trofeo da me vinto nel torneo di bocce che annualmente si gioca nel nostro Istituto. Durante una gita scolastica lo avevo regalato ad Ofelia, non per farmi perdonare una delle tante scortesie, ma per veder trasformare i suoi occhioni grigioverde in due tizzoni ardenti.
Lo presi nel boffice perché la Bonelli non aveva fatto una grinza, anzi con un sorriso mi aveva mostrato il lungo dito medio della sua mano sinistra.
Il gobbetto ora era lì, tra le sue mani.
Il cuore mi scese negli slip: mi convinsi di non esserle indifferente.
Guardai le sue tette e mi confortai, guardai le sue gambe e mi eccitai: in un attimo l’abbrancai e le detti un bacio sulle labbra. Ofelia si lasciò andare, rispose al mio bacio con altrettanta passione: le nostre lingue si toccarono, tirarono un po’ di scherma, poi s’intrecciarono, s’incastrarono, si fusero. Sebbene vari tentativi, non riuscimmo poi a liberarci e se non fosse intervenuto il medico del pronto soccorso, probabilmente saremmo ancora un tutt’uno.
Attorniati da una folla di alunni e di curiosi, ci distendemmo su un’unica sdraio, di fianco, uno di fronte all’altra, mentre il taumaturgo, dopo aver anestetizzato le nostre lingue, con pinze e garze sterili, armeggiava “delicatamente”. Finalmente l’operazione terminò con successo: un applauso scrosciante infiammò la spiaggia.
Il cielo era stellato quando la teacher ed io tornammo in masseria. Avevamo tutti due i capelli e gli abiti scomposti e trasudanti sabbia. Il rossetto di Ofelia, in parte scomparso dalle sue labbra, era finito sulle mie, con sbavature che giungevano fin oltre la cintola, dandomi un aspetto equivoco, anche per la lunga camicia che veniva fuori dai calzoni, arrotolati sino al ginocchio: via! una minigonna.
Per strada, approfittando del buio pesto che contraddistingue le vie di campagna, avevamo fatto di tutto, comportandoci come due ragazzini innamorati per i primi dieci passi e, nel resto del percorso, come due assatanati di sesso che avevano mandato a memoria il Kamasutra e sperimentato “arrangiamenti sul tema”.Ofelia, nei pochi momenti di tregua che c'eravamo concessi, mi aveva confessato di aver sempre avuto simpatia per me, per i miei occhi color gianduia, striati di alghe marine, per la mia chioma di quel grigio antracite “Alfa Romeo”, per il profilo michelangiolesco, per le proporzioni del mio fisico, alla David (sempre di Michelangelo), per le grandi mani, cantate nella melodia “Senza fine” da Mina, nota "canorizzante" degli anni sessanta e, soprattutto, per il mio robusto naso, che lasciava intuire cuore generoso e qualità anatomiche portentose. Poi, la disavventura con l'autista e il mio arrivo le avevano ulteriormente chiarito le idee e aveva deciso di diventare la mia donna, dimenticando l’orario strabucato e le furiose litigate durante il Collegio dei docenti.

Ttto da Homosex- Si vive di solo pane di natalino lattanzi

sabato 10 maggio 2008

OUZO E IO

Ricordo un episodio che a posteriori ci fa sorridere, ma che sul momento ci procurò viva preoccupazione.
Abitiamo al terzo piano di una palazzina e usufruiamo di un balcone piuttosto ampio che Ira scelse come uno dei suoi posti preferiti. A quel tempo il cortile condominiale era pressoché privo di gatti; a malapena se ne scorgeva uno di passaggio nelle prime ore pomeridiane dei mesi più caldi.
Un giorno, però, un condomino decise di adottarne uno a distanza, nel senso che non lo prese in casa con sé, ma cominciò a depositare i rifiuti del suo pranzo in un angolo del cortile affinché il felino ne usufruisse.
Ira era con noi da circa due settimane; cresceva bella più del sole, e tanto pasciuta da non crearci preoccupazioni circa l’inferriata, le cui sbarre erano distanti l’una dall’altra poco più di una spanna.
Era una notte d’estate. L’aria tersa di periferia consentiva di ammirare
un affresco di stelle di straordinaria bellezza.
Ira alzava il capo verso il cielo e guardava la luna cercando di modulare il preistorico ululato dei suoi avi. Dopo vari tentativi venne fuori un uuh –uuh che pareva il verso di una civetta più che l’orgoglioso richiamo del lupo. Le feci una carezza sul capo biondo e lei agitò riconoscente la coda.
Ad un tratto, mentre era lì felice e scodinzolante, le vidi sollevarsi il pelo, scoprire i denti e lanciarsi contro l’inferriata con tanta velocità da non poterla assolutamente fermare.
Un gatto pezzato, grosso quanto un vitello, col pelo irto, soffiava come un serpente in direzione del mio cucciolo che, incastrato tra le stecche di ferro, penzolava nel vuoto con metà del suo corpicino.
Non fu semplice liberare il mio cane da quell’assurda posizione, nel timore che le sue tenere costole potessero riportare qualche frattura. Ira, invece, per nulla spaventata, ringhiava con la sua voce da bambina e tentava di liberarsi per saltare addosso al nemico. Imperterrito il gatto continuava a puntarla strisciando per terra la coda. Una provvidenziale secchiata d’acqua, lanciata dai piani superiori investì il felino e un miagolio di terrore ne preannunciò la fuga.
Sollevai lo sguardo e con meraviglia scorsi la signora Garofalo ancora lì, sul balcone, affacciata col secchio tra le mani. Mi guardava anche lei. La sua voce stridula riempì il silenzio: a quest’ora si dorme!- e sbatté le porte della finestra rientrando nelle sue stanze.
Quello è stato l’atto più dolce che Adele abbia mai compiuto nei confronti dei miei cani.

Tratto da Ouzo e Io di Natalino lattanzi

domenica 4 maggio 2008

Homosex- Si vive di solo pane

La gita scolastica

L'urlo ripetuto del cellulare mi svegliò in piena notte.
Maledicendo la tecnologia, risposi con la solita voce impastata di quando non si è ancora bevuto il primo caffè. All'altro capo della linea telefonica era Segaioli, il mio esimio preside.
"Si vesta in fretta- mi disse con voce concitata- e raggiunga il pullman al Motel dell'Agip, alle porte di Firenze. Non perda tempo!…".
Assonnato e desideroso di rituffarmi nel bellissimo sogno che stava proiettando la mia fervida fantasia (ero su una spiaggia hawaiana, circondato da uno stuolo di bellissime figliole sorridenti che mi coccolavano massaggiandomi e infarcendomi di profumati frutti esotici, mentre Gianni Estroverso e Ofelia Bonelli, nudi e di spalle, legati ad un palo, con i fondoschiena dipinti a cerchi concentrici gialli, verdi e blu in cui era incastonato un pallino rosso centrale, fungevano da bersaglio alle frecce scagliate da ferocissimi indigeni pitturati con i colori di guerra), risposi di non aver capito cosa desiderasse da me, visto che ben quattro docenti se la spassavano in compagnia dei ragazzi.
"Le ripeto- disse Segaioli- non perda tempo e parta!… le diranno poi i colleghi!…"- e interruppe la comunicazione.
Knut scodinzolava presso il mio letto abbaiando e saltellando, con le fauci aperte e la lingua penzoloni, nel tipico atteggiamento del cane rompicoglioni, in attesa della passeggiata mattutina.
Guardai sconsolato il mio " ma che Casio è?" automatico, anni settanta, dotato di sveglia e lancette fosforescenti: le tre del mattino o le ventisette della notte, se più vi piace.
Preparai in fretta il caffè, fumai una sigaretta del mercato parallelo, feci una doccia fredda, urlando bestemmie poiché Sarcinella aveva dimenticato di riaccendere lo scaldabagno, indossai dei jeans neri, una maglietta nera e scarpe da ginnastica e riempii una valigia di tutto ciò che pensavo mi potesse essere utile durante "l'esodo".
Knut mi attendeva sulla soglia della camera guardandomi fisso negli occhi e manifestava la sua impazienza borbottando e sbavando come una medusa su uno scoglio in secca: decisi che l'avrei portato con me. Sarcinella russava beatamente, perciò pensai di non svegliarla e di lasciarle un messaggio.
La mia Lancia Beta è la seconda cuccia di Knut: custodisce, infatti, pietre, sabbia, polvere e peli del mio cane; in corsa mima il ghibli sahariano, tanto da costringermi ad utilizzare una mascherina antismog per evitare che scorie, inorganiche e non, mi penetrino nei polmoni.
Le ruote fischiarono sull'asfalto, quando affondai il piede sull'acceleratore. Un anziano pedone solitario fece appena in tempo a tuffarsi sul marciapiede; rialzandosi mi apostrofò: "Cazzio Nuvolari, non sei ad Indianapolis!…".
Non udii il resto dell'apostrofe poiché ero già sulla circonvallazione prima che l'ironico pedone potesse ripreneder fiato.
Le ore notturne mi danno ebbrezza, guido come un pazzo facendo affidamento sulla mia vista d'aquila. Non temo rivali sin quando spunta il sole. Solo allora decelero e inforco gli occhialoni affumicati da motociclista, ricordo di un flirt studentesco con una supplente di matematica.
Knut, seduto sul sedile accanto al mio, assaporava la brezza notturna a piene fauci e abbaiava furiosamente non appena intravedeva un randagio, cane o gatto che fosse, incazzatissimo di non poterlo raggiungere.
Divorammo la strada in poche ore.
L'alba tingeva appena di rosa le acque dell'Arno quando la Lancia frenò stridendo sull'asfalto davanti al Motel.
L'area di parcheggio era semivuota, quindi mi fu facile individuare il pullman dei gitanti.
Tutt'intorno regnava un silenzio sepolcrale, interrotto di tanto in tanto dallo strombazzare di qualche vettura che transitava sull'autostrada.
Non persi altro tempo e, seguito dal fido Knut, varcai la soglia del Motel.
Il vecchio portiere, che evidentemente era stato avvisato in precedenza del mio arrivo, mi accolse con gran calore, quasi mi conoscesse da una vita, e mi condusse nella hall, invitandomi ad attendere qualche minuto, il tempo di preparare un caffè e di avvisare uno dei miei colleghi. Mi stravaccai su una poltrona di pelle gialla e attesi.
Poco dopo Cassandra Ognimmorti mi corse precipitosamente incontro, tra gridolini di gioia e singhiozzi soffocati, saltellando come un piccolo di canguro. La cosa non fu molto gradita da Knut che balzò verso la mia collega stoppandola ad un passo da me e facendola cadere per terra. Il mio “casinista”, nell’impeto travolse anche il cameriere che, sopraggiunto, stava porgendomi il caffè.
La calda bibita sciolse le sue lacrime su tutti noi e si confuse col manto nero focato del mio cane.
Riuscii a salvare jeans e maglietta, ma non le scarpe, fortunatamente blu scuro, grazie ad un salto da circo, a cui mi alleno da quando sono negli organici della Pubblica Istruzione.
Il contegnoso comportamento del cameriere fece da contraltare alle mie imprecazioni e ai grugniti di Knut, che tentava di annullare gli effetti deleteri della bevanda dal suo pelo, con lunghe e sistematiche slinguate.
Cassandra non si lasciò intimorire dai miei sproloqui, ignorò il cane e mi investì con un fiume di parole che, nei suoi intenti, avrebbero dovuto chiarire l'urgenza della mia presenza: non capii un cacchio!
Finalmente, quando si fu calmata, mi riferì in modo quasi comprensibile cosa fosse accaduto.
"Non eravamo neppure partiti - ricominciò Ognimmorti- che l'autista, un energumeno di oltre cento kg, alto due metri, mezzo ubriaco, a torso nudo, in short e ciabatte, con un tappeto di peli che lo copriva dalle punte degli alluci al collo e un odoraccio rancido di sudore e di pesce, pretese che qualcuno di noi docenti gli si sedesse accanto poiché aveva bisogno di parlare per non addormentarsi, poiché era appena tornato dalla Danimarca dove aveva dovuto scaricare baccalà mediterraneo e caricare baccalà danese. Sebbene l'assurdità della richiesta, per non mettere in allarme i ragazzi, facemmo una conta veloce e toccò alla Bonelli. Ofelia, vincendo il ribrezzo, si sistemò sul sedile accanto a quello dell'autista e dette il via alla collaborazione verbale.
Lo squittire di Ofelia ci dette ad intendere che tutto andava per il meglio e ci addormentammo tranquilli.
Purtroppo non era così ! La Bonelli, per non indispettire lo scimmione, che pure si concedeva delle libertà inconcepibili, continuava a stargli accanto anche se con grande disagio.
Quando le "attenzioni" divennero manipolazioni, sfregamenti, strusci volgari e insistenti, complimenti grossolani, non sussurrati, ma urlati, Ofelia non ne poté più e, dopo aver dato al satiro una gomitata in bocca e un pugno sulle palle, tirò il freno a mano e scese dal pullman urlando e imprecando contro l’energumeno.
I ragazzi, svegliati di soprassalto, non appena capirono cosa fosse successo, accerchiarono Pasquale Scivolo, sì, l'autista, insomma, intenzionati a sbudellarlo, ma intervenne Gianni Estroverso che affermò che era una questione che spettava a lui affrontare.
Invitò l'autista, che si contorceva dal dolore sul sedile di guida, a seguirlo in strada e senza attendere che rispondesse all'esortazione gli rifilò un altro fendente sugli zebedei.
A quel punto lo Scivolo reagì: afferrò Gianni per il collo e lo scaraventò fuori dal pullman, poi scese precipitosamente, lo riagguantò per la cintola dei calzoni e lo lanciò, come fosse un disco, oltre la collina. Fatto questo, si allontanò a piedi e da allora non l'abbiamo più rivisto.
Noi eravamo come impietriti, impotenti di fronte a quella forza scatenata della natura; gli stessi ragazzi che poco prima erano decisi a vedersela con Pasquale assistettero ammutoliti all'uscita di scena dell'autista, sordi alle invocazioni d'aiuto che ci giungevano dal di là della collina.
Quando ci riavemmo, raccogliemmo il povero Gianni, che per fortuna era caduto su di un terreno erboso, ma zeppo di ortiche e, messo al volante Orsobruni, ci dirigemmo verso il primo posto abitato.
La traversata non fu semplice e indolore: Leonardo è un pessimo autista; abbiamo rischiato più volte di restare coinvolti in incidenti mortali.
A circa dieci Km da qui, abbiamo forato. L'autobus ha cominciato a sbandare in modo pauroso: si è fermato solo quando ha investito un cellulare dei carabinieri, che traduceva in carcere un pericoloso malvivente, il quale, per giunta, è riuscito a fuggire.
Abbiamo trascorso circa due ore a raccontare le nostre disavventure ad un capitano dell'Arma, che sospettava fossimo complici del prigioniero evaso.
Solo dopo aver telefonato al preside si è chiarita la nostra situazione e siamo stati scortati sin qui, con l'obbligo di non muoverci perché testimoni di vari fatti di rilevanza penale.
Poco fa è andato via il dottore che ha diagnosticato per Gianni fratture multiple e lieve commozione cerebrale.
La Bonelli è scioccata ; Leonardo è chiuso in un mutismo tombale. Le ultime sue parole sono state a proposito del pullman: “che mi si liquefacciano le palle se ne guiderò più uno" ha detto.
Cassandra terminò il suo racconto affermando che, pur avendo deciso di prendere la via del ritorno per le condizioni dei docenti accompagnatori, la rivolta degli alunni li aveva costretti a rivedere le loro decisioni e a chiedere consiglio al preside circa il da farsi.
“Non più la Germania - aveva ordinato il padre padrone- ma Rimini, a due passi da casa, con l'aiuto di un altro collega.”

RIMINI O MORTE
Si tramanda che andare a Rimini senza prenotazioni comporti due gravi rischi: dormire in spiaggia e nutrirsi di telline per tutta la durata del soggiorno.
Per noi non fu così.
Dopo aver patteggiato con il capitanoBonhomme (è d’origine francese) una dichiarazione di disponibilità a testimoniare nel caso fosse stato riacciuffato l’evaso, ci preparammo per partire alla volta della città romagnola.
Il problema più grave fu costituito dalla ricerca di un nuovo autista.
Poiché ormai gravava tutto sulle mie spalle, montai nella mia Lancia e mi diressi alla volta di Firenze per ingaggiarne uno.
Firenze, voi la conoscete, è una città stupenda: belle strade, bei palazzi, bei parchi, belle chiese, belle femmine.
Non appena individuai la donna dei miei sogni bloccai la vettura con discreto stridore di freni e l’abbordai.
Fui mandato velocemente a quel paese in perfetta lingua toscana con la caratteristica aspirazione della “c”.
Mi specchiai nello speculo posteriore della mia vettura per capire cosa avesse indotto la gentil donna a mandarmi a fare in culo e mi accorsi che l’individuo che rifletteva lo specchio somigliava più a uno spaventapasseri che ad un uomo, tanta era la barbizie incolta che gli circondava il volto sormontato da una incolta e folta capigliatura.
Mi resi conto che mi sarei mandato da solo a raccoglier le olive.
Poiché tengo molto alla mia persona, pensai di fermarmi al primo albergo diurno in cui incappassi per riprendere le fattezze umane.
Avevo appena rimesso in moto che un poliziotto motociclista si accostò alla mia vettura e, senza neppure chiedermi i documenti mi piantò la “beretta” d’ordinanza sulla punta del naso e mi ordinò di scendere.
Firenze è fantastica: nessun capannello, nessun curioso, ciascuno per i fatti propri come se nulla stese accadendo a Torino, Cuneo, Bolzano; Aosta; ma a Firenze no! È la Napoli del centro-nord. E’ una fornace piena di ferro fuso, è gridaiola, monella e simpatica, fiera e passionaria, forte e sbarazzina.
In men che non si dica una folla incredibile circondò me e il poliziotto, tifando chi per l’uno chi per l’altro senza conoscere i fatti.
Una “bischerata…” dicevano i miei partigiani, invitando il policemen a lasciarmi andare.
Un passante frettoloso mi degnò di uno sguardo compassionevole e sussurrò quasi: “Ah, behafiho! Ti se’ fatto prendere, grullo!”(traduzione: Ah, beccafico! Ti sei fatto prendere, scemo!).
L’agente di polizia, per nulla intimorito, mi ammanettò e comunicò per radiomobile al Comando di aver catturato l’evaso.
Capii subito che c’era un equivoco, anche perché dalle mie parti non si arresta un tizio solo per aver tentato di fare il filo ad una donna.
Protestai la mia innocenza a gran voce, sempre nel “disinteresse” generale dei cittadini fiorentini che ci pressavano ormai da ogni parte e, visto che non mi si dava retta, pronunciai la parola magica: “Capitano Bonhomme!”.
Il commisario sopraggiunto proprio in quel momento mi guardò fisso negli occhi e mi chiese: “Conosce mio fratello?”
L’atmosfera divenne tutt’a un tratto meno tesa, quasi sopportabile e, infine, amichevole.
Cacciai dal taschino sinistro della mia maglietta la patente e la carta d’identità e raccontai allo “sceriffo” la disavventura in cui eravamo incorsi noi inquilini part time del “Benpensante”.
Il capitano Bonhomme, tempestivamente chiamato, confermò la mia versione.
Mi si elargirono scuse a più non posso, misi offrì una principesca colazione nella più accorsata pasticceria fiorentina e mi si indicò l’albergo in cui operare la trasformazione.
Quando ne venni fuori ero nuovamente un uomo e non una scimmia.
Il tempo stringeva, perciò decisi di recarmi ad un’agenzia di lavoro interinale nel tentativo di trovare l’autista del mio pulmann.
La signorina allo sportello(com’è piccolo il mondo) era la stessa che avevo abbordato poco prima.
Evidentemente la doccia, la sbarbata, la pettinata, l’alito profumato di dentifricio e la colonia “Sei mia” avevano fatto di me un vero uomo, perché mi accolse con un grande sorriso sulle labbra e una dolcezza che nello “stil novo” solo Dante seppe esprimere “qualche anno fa”.
Non solo la bella mi indicò il nome e l’indirizzo di un autista extracomunitario di sfortuna (aveva appena vinto un terno al lotto e aveva appena perso nello scolo di un tombino la cedola vincente), ma mi dette anche il suo numero telefonico e le sue misure di seno, vita e bacino, che accertai qualche ora dopo nella mia Lancia Beta coupè, divenuta, per l’occasione, comoda quanto una camera d’albergo di periferia.
Vero sera, quando tornai dai miei amici ero distrutto, ma felice ed in compagnia del sospirato autista.
Non appena lasciammo l’autostrada fummo accerchiati da mille procacciatori d’affari del settore alberghiero che ci offrirono a prezzi stracciati lunghi periodi di pensione completa. Trovammo, così, ampia disponibilità di vettovaglie e di posti letto, ma grande indisponibilità ad ospitarci, non appena gli albergatori si resero conto che eravamo in compagnia di cinquanta ragazzi scalmanati e un cancavallo. Come opzione ci fu offerta una masseria fortificata, a due passi dal mare, sprovvista di tutto e bisognosa di restauro.
Non ci restò che accettare con la promessa che avremmo provveduto noi a renderla abitabile e che ci saremmo preoccupati di ristrutturare ciò che ci era possibile nei dieci giorni di permanenza. Stranamente i ragazzi furono d’accordo.
Il trasferimento dal motel alla masseria non fu indolore. Dopo aver pagato tutti i danni che gli alunni avevano prodotto nel giro di una nottata, ci accorgemmo di aver ingaggiato un conducente che non sapeva condurci e che licenziammo dopo appena dieci km perché non sapeva orientarsi sulle strade italiane.
Fui costretto a lasciare la mia "Beta" nel parcheggio del motel e mi misi alla guida dell'autobus.
Fu un viaggio estenuante. La "Firenze-Bologna" era come il solito super battuta: veicoli che sorpassavano a destra, al centro e solo qualche volta a sinistra, tir spaventosi che in galleria correvano a trecento l'ora strombazzando in modo assordante, moto sfreccianti alla Capirossi, guidate da individui che di umano avevano solo il casco agganciato al braccio destro, pullman carichi di stranieri starnazzanti, guidati da autisti pieni di birra sino alla calotta cranica.
Invece che rizzarsi, i miei capelli si ondularono ed io acquistai un certo che di fascinoso, di eccentrico (come dimostravano i fischi prolungati delle mie alunne).
Knut, al contrario, super eccitato, affacciato a un finestrino, abbaiava furiosamente a tutto ciò che si avvicinava al nostro veicolo e di tanto in tanto lanciava un ululato prolungato.
Come Dio volle arrivammo a destinazione e potei finalmente rilassarmi.
Orsobruni, che non aveva aperto bocca per tutto il tragitto, mi si avvicinò e pronunciò le prime parole dopo ore di silenzio assoluto.
"Ti capisco- mi disse- ti capisco " e si lasciò cadere sotto un albero di prugne.
I ragazzi, dopo la delusione della Germania, furono presi da nuovo entusiasmo e si "catapultarono" fuori del pullman gridando da ossessi e capitombolando su un immenso prato verde.
Gianni fu portato fuori a braccia da Cassandra e dalla Bonelli e fu adagiato sul terreno ancora umido di rugiada. Il pover’uomo, lasciandosi cadere sul prato cacciò un mezzo urlo di dolore e prese a grattarsi disperatamente il volto e il ventre.

Tratto da Si vive di solo pane di Natalino Lattanzi