martedì 23 dicembre 2008

Teddy La Dolce

Ancora Ouzo
E’ difficile parlarvi di Ouzo senza raccontare della mia famiglia com’era quattordici anni fa. Io ero un leone; possedevo una forza interiore che pensavo non sarebbe mai stata scalfita; ero fiero di mia moglie e delle mie figlie come ero fiero di Ira e Ouzo. Mi sembrava di essere un principe nel suo castello difeso dagli amici più fedeli. Via, quasi un Re Artù con la storica tavola rotonda costellata di stupendi cavalieri. Non è che fossimo in un’isola felice senza difficoltà, ma eravamo uniti. E vincevamo.
Sì, vincevamo perchè non permettevamo che fattori, persone esterne alla nostra famiglia ne minassero la serenità, la compattezza. E’ così che si diviene vulnerabili, perdenti.
Ira e Ouzo erano inseparabili: dov’era uno era l’altra. Ouzo si accoccolava sulle zampe di sua madre e dormiva, mentre la sua crescita diveniva sempre più evidente e impressionante. In brevissimo tempo si era allungato, alzato, e mostrava una conformazione così massiccia da sembrare un cucciolo di Alano, se non un Rott Wailer.
Ma ciò che più stupiva era la devozione a Ira, che per lui rappresentava un simbolo da imitare. Ira lo addestrava a musate, a piccoli ringhi e morsi incruenti, a zampate leggere sulla testa quando Ouzo trasgrediva, o a leccate amorevoli in segno di approvazione.
Ira non è mai stata una femmina come le altre, forse perché sin da piccina è entrata in concorrenza con un’alta femmina di pastore di nome Shira, sua grande amica, di otto mesi più grande. Con la sua amica ha imparato a lottare senza lamentarsi, a correre, a inseguire la preda che poteva essere una palla, un pezzo di legno o una pietra, o una conchiglia sbreccata; ha imparato a non sottomettersi e ha preso le sue rivincite quando, divenuta grande e possente – una fuori taglia per intenderci –, alta al garrese più di un maschio, con una conformazione ossea pesante e robusta, ha sottomesso Shira che da allora è divenuta il suo alter ego, la sua amica più fidata. Ira e Shira hanno educato Ouzo a essere un gran cane, un dominante, un rompiscatole più unico che raro ma con un gran cuore, un affetto smisurato per tutti coloro che gli hanno mostrato amicizia.
Ira è entrata nella mia vita quasi per caso, quando addirittura pensavo di non dover mai più avere un cane per amico, per via di una insofferenza allergica di mia figlia Toni agli acari della polvere e alle graminacee. Ma “buon sangue non mente”, recita un antico epigramma sin dai tempi più lontani. Proprio mia figlia Toni fu presa da una così grande passione per i cani da costringermi ad acquistarne uno da un allevamento della mia città. Quasi come avevo fatto io con mio padre, quando lo convinsi, lui che per essere stato morso in tenera età da un randagio aveva giurato a se stesso che mai sarebbe entrato un cane in casa sua.

Accadde così.
Il timore verso questi “grandi” animali si tramanda di padre in figlio, quasi a livello genetico; per cui, essendo figlio di mio padre, nutrivo un terrore istintivo verso qualsiasi razza o sotto razza di cani, pur sentendomene fortemente attratto.
Mio padre era ragioniere e amministrava la contabilità di un buon numero di commercianti della mia bella Bari. Ebbene, uno di questi, don Ferdinando Boccia, un napoletano di robusta costituzione, dalla risata inimitabile e di una simpatia unica, possessore di una delle più rinomate pasticcerie della città, aveva il suo negozio nei pressi di una gioielleria a guardia della quale vi era uno stupendo pastore tedesco femmina: Diana.
Tutte le volte che mi accompagnavo a mio padre nel giro di visita al suo cliente, incrociavo il mio sguardo con quello di Diana, e ogni volta dicevo a me stesso che avrei dovuto farmi forza e accarezzarla. Manco a parlarne! Quando ero lì lì per tendere la mia manina di sette otto anni, all’ultimo momento mi mancava il coraggio e la ritiravo velocemente, nel timore che restasse tra le fauci del cane. Mio padre mi guardava e sogghignava, sembrava mi lanciasse una sfida. Decisi, perciò, che a qualunque costo sarei riuscito nel mio intento.
L’occasione capitò pochi mesi dopo, quando un condomino dello stabile in cui abitavamo, il dottor Rafaschieri, adottò un cucciolo di lupo alsaziano. Non vi dico l’invidia! Vedevo i suoi figli giocare con quel lupacchiotto senza timore, anche quando divenne cucciolone, con due zanne acuminate che facevano paura solo a guardarle. Ebbene, una domenica mattina i miei genitori si recarono al cimitero in visita ai loro cari scomparsi. Io colsi l’occasione e bussai alla porta dei miei vicini.
L’abbaiare furioso di Bull mi mise una tremarella tale che mi detti indietro ma, quando feci per rientrare in casa, Enzo, un ragazzotto di una dozzina d’anni, Rafaschieri junior, aprì la porta tenendo stretto il lupo per il collare. Mi chiese cosa volessi; io, con la voce che muoveva appena le corde vocali, deglutii e gli dissi che volevo divenire amico del suo cane. I ragazzini, si sa, sono incoscienti; ma quanto lo fummo Enzo ed io sfiora l’imbecillità.
Enzo si disse subito d’accordo e mi fece cenno di seguirlo su per le scale, sin sul terrazzo, dove avremmo potuto giocare indisturbati con Bull. Io mi tenevo a debita distanza, ma il cane tirava per annusarmi, per saltarmi addosso, per mangiarmi, pensavo io. Sul terrazzo, per non dare l’idea che stessi morendo di paura dissi ad Enzo di lasciarmi solo col cane, sicuro che mai avrebbe acconsentito. Beh, lui, invece, acconsentì. Ci studiammo per un po’ Bull e io, poi lui passò all’attacco. Mi agguantò con le sue fauci a un polpaccio e me lo perforò.
Voleva giocare, mi disse poi Enzo, ma io, che non lo sapevo, sferrai al povero cane un pugno tale sul capo che lo atterrò. Fu così che divenimmo amici, Bull e io.
I miei, al loro ritorno, mi trovarono che zoppicavo, con i pantaloni alla zuava strappati ma fiero di aver superato l’atavico timore dei cani.
Mio padre non ghignò, quella volta; anzi voleva farmi perforare da quaranta iniezioni nel ventre, cosa che rifiutai energicamente, confortato dal signor Rafaschieri che aveva mostrato il libretto sanitario di Bull costellato di tutte le vaccinazioni previste dalla legge.
Il giorno dopo carezzai Diana e quattro mesi dopo il suo padrone mi regalò un cucciolo femmina, Teddy, un magnifico incrocio tra un pastore tedesco e un pastore scozzese.

Beh, Antonella, Toni, per tutti noi, lanciò a me una sfida simile a quella che io avevo lanciato a suo nonno quando, in visita dall’allergologo, confermò il suo desiderio di avere un cane, supportata ardentemente dalla sorella. A me sembrò che finalmente si sarebbe rassegnata, poiché era scontato che il professor Ivan Papadia avrebbe sconsigliato una scelta di tal genere. Invece no. Anzi, mi raccomandò caldamente di soddisfare la richiesta, poiché Toni avrebbe anche potuto, in questo modo, sviluppare anticorpi atti a combattere l’allergia; mi ammonì, però, ad allontanare immediatamente il cane nel caso avessi notato un peggioramento delle manifestazioni allergiche. Fu cosi che ci recammo all’allevamento del Levante, il cui gestore era un amico, Saverio Stella.
Saverio ci guidò subito verso il settore delle cucciolate e ci consigliò di scegliere il cucciolo tra quelli che aveva partorito circa quaranta giorni prima una bellissima femmina di pastore tedesco. C’erano cinque cagnetti che suggevano avidamente il latte dalle mammelle materne. Uno il più grosso, al rumore dei nostri passi si girò incuriosito e venne scodinzolando verso di me che facevo da apripista. Fu amore al primo sguardo.
Lo presi tra le braccia, lo accarezzai e lo mostrai alla mia cucciolata: era una femminuccia. Dieci minuti dopo, le mie figlie e io eravamo in macchina con un esserino che scodinzolava e faceva udire la sua vocina tra uno starnuto e l’altro. Toni la spupazzava in tutti i modi, l’abbracciava, la baciava senza tossire né starnutire. Ma era troppo presto per cantare vittoria, pensavamo noi.

La prima notte che la cuccioletta trascorse in casa nostra fu memorabile. Tutti credevamo che avrebbe sofferto per la lontananza dalla madre e dai fratelli. Ciò ci tenne all’erta. Stabilimmo dei turni di guardia per non lasciarla mai sola. Alle mie figlie toccò il primo turno.
Mia moglie e io, per fare in modo che avvertissero la responsabilità della loro scelta, fingemmo di essere presi da un forte attacco di sonno e ci ritirammo nella nostra camera da letto. Senza dormire, ovviamente, ma interrogandoci se avessimo compiuto il passo giusto.
Le voci di Toni e Lila rimbalzarono allegre sino alle due, in coro con il latrare di Ira; poi, tutt’a un tratto, fu silenzio. Mi alzai cautamente, cercando di non far rumore, e andai in soggiorno. Erano tutte tre tranquillamente addormentate sul divano. Ira russava con la testolina in grembo a Toni e il treno posteriore sulle gambe di Lila. Presi un plaid e le coprii, poi rassicurai mia moglie. Ci svegliammo al suono del latrare della cagnetta.
L’inquilina del piano di sopra batté con forza sul pavimento perché chiedeva il silenzio.
Guardai l’orologio: erano le otto del mattino.
L’ignorai.
Il battere sul pavimento della signora Garofalo, Adele per amici e nemici, ha accompagnato più di un decennio della nostra vita.
Questa donna malvagia, che più volte ha tentato di avvelenare i miei cani, era un bieco essere senza cultura; non della cultura che si affina sui libri, che manco aveva, ma di quella del vivere. Era priva di sensibilità, caratterialmente “acida”, interiormente vecchia, nonostante usasse un trucco da ragazzina che la imbruttiva e invecchiava ancor più. Non provava alcun amore verso gli animali e ciabattava per tutta la giornata nel suo appartamento, mettendo fuori il naso solo per inveire contro il nostro cucciolo o per recarsi a imbonire il vicinato con la sua voce stridula e acida, per invogliarlo ad acquistare alcuni prodotti per uso domestico che lei vendeva casa per casa. Un giorno, forse ubriaca, mandò con determinazione la sua auto a sbattere contro un gigantesco pastore maremmano.
Del cane, purtroppo, non abbiamo mai avuto notizie. Della signora Garofalo, sì. Riportò varie ferite sul volto e sulle gambe, che le lasciarono segni indelebili, deturpandole, se fosse possibile, ancor più il tristo aspetto da vecchia malvissuta. A volte avrei voluto chiederle cosa l’avesse resa talmente arida.
Al contrario accadde l’impensabile per l’allergia di mia figlia. Toni non solo non aggravò la sintomatologia, quanto, col passare dei mesi, migliorò la sua patologia a tal punto da non risentirne quasi del tutto.
Ira divenne il quinto membro effettivo della nostra famiglia, amata e coccolata da tutti grazie non solo alla funzione terapeutica che aveva assolto in brevissimo tempo, ma anche all’amore incondizionato che ci ha dedicato per tutta la sua breve vita.

Ricordo un episodio che a posteriori ci fa sorridere, ma che sul momento ci procurò viva preoccupazione.
Abitiamo al terzo piano di una palazzina e usufruiamo di un balcone piuttosto ampio che Ira scelse come uno dei suoi posti preferiti. A quel tempo il cortile condominiale era pressoché privo di gatti; a malapena se ne scorgeva uno di passaggio nelle prime ore pomeridiane dei mesi più caldi.
Un giorno, però, un condomino decise di adottarne uno a distanza, nel senso che non lo prese in casa con sé, ma cominciò a depositare i rifiuti del suo pranzo in un angolo del cortile affinché il felino ne usufruisse.
Ira era con noi da circa due settimane; cresceva bella più del sole, e tanto pasciuta da non crearci preoccupazioni circa l’inferriata, le cui sbarre erano distanti l’una dall’altra poco più di una spanna.
Era una notte d’estate. L’aria tersa di periferia consentiva di ammirare
un affresco di stelle di straordinaria bellezza.
Ira alzava il capo verso il cielo e guardava la luna cercando di modulare il preistorico ululato dei suoi avi. Dopo vari tentativi venne fuori un uuh –uuh che pareva il verso di una civetta più che l’orgoglioso richiamo del lupo. Le feci una carezza sul capo biondo e lei agitò riconoscente la coda.
Ad un tratto, mentre era lì felice e scodinzolante, le vidi sollevarsi il pelo, scoprire i denti e lanciarsi contro l’inferriata con tanta velocità da non poterla assolutamente fermare.
Un gatto pezzato, grosso quanto un vitello, col pelo irto, soffiava come un serpente in direzione del mio cucciolo che, incastrato tra le stecche di ferro, penzolava nel vuoto con metà del suo corpicino.
Non fu semplice liberare il mio cane da quell’assurda posizione, nel timore che le sue tenere costole potessero riportare qualche frattura. Ira, invece, per nulla spaventata, ringhiava con la sua voce da bambina e tentava di liberarsi per saltare addosso al nemico. Imperterrito il gatto continuava a puntarla strisciando per terra la coda. Una provvidenziale secchiata d’acqua, lanciata dai piani superiori investì il felino e un miagolio di terrore ne preannunciò la fuga.
Sollevai lo sguardo e con meraviglia scorsi la signora Garofalo ancora lì, sul balcone, affacciata col secchio tra le mani. Mi guardava anche lei. La sua voce stridula riempì il silenzio: a quest’ora si dorme!- e sbatté le porte della finestra rientrando nelle sue stanze.
Quello è stato l’atto più dolce che Adele abbia mai compiuto nei confronti dei miei cani.
Tratto da "Ouzo e Io" di Natalino Lattanzi