martedì 23 dicembre 2008

Teddy La Dolce

Ancora Ouzo
E’ difficile parlarvi di Ouzo senza raccontare della mia famiglia com’era quattordici anni fa. Io ero un leone; possedevo una forza interiore che pensavo non sarebbe mai stata scalfita; ero fiero di mia moglie e delle mie figlie come ero fiero di Ira e Ouzo. Mi sembrava di essere un principe nel suo castello difeso dagli amici più fedeli. Via, quasi un Re Artù con la storica tavola rotonda costellata di stupendi cavalieri. Non è che fossimo in un’isola felice senza difficoltà, ma eravamo uniti. E vincevamo.
Sì, vincevamo perchè non permettevamo che fattori, persone esterne alla nostra famiglia ne minassero la serenità, la compattezza. E’ così che si diviene vulnerabili, perdenti.
Ira e Ouzo erano inseparabili: dov’era uno era l’altra. Ouzo si accoccolava sulle zampe di sua madre e dormiva, mentre la sua crescita diveniva sempre più evidente e impressionante. In brevissimo tempo si era allungato, alzato, e mostrava una conformazione così massiccia da sembrare un cucciolo di Alano, se non un Rott Wailer.
Ma ciò che più stupiva era la devozione a Ira, che per lui rappresentava un simbolo da imitare. Ira lo addestrava a musate, a piccoli ringhi e morsi incruenti, a zampate leggere sulla testa quando Ouzo trasgrediva, o a leccate amorevoli in segno di approvazione.
Ira non è mai stata una femmina come le altre, forse perché sin da piccina è entrata in concorrenza con un’alta femmina di pastore di nome Shira, sua grande amica, di otto mesi più grande. Con la sua amica ha imparato a lottare senza lamentarsi, a correre, a inseguire la preda che poteva essere una palla, un pezzo di legno o una pietra, o una conchiglia sbreccata; ha imparato a non sottomettersi e ha preso le sue rivincite quando, divenuta grande e possente – una fuori taglia per intenderci –, alta al garrese più di un maschio, con una conformazione ossea pesante e robusta, ha sottomesso Shira che da allora è divenuta il suo alter ego, la sua amica più fidata. Ira e Shira hanno educato Ouzo a essere un gran cane, un dominante, un rompiscatole più unico che raro ma con un gran cuore, un affetto smisurato per tutti coloro che gli hanno mostrato amicizia.
Ira è entrata nella mia vita quasi per caso, quando addirittura pensavo di non dover mai più avere un cane per amico, per via di una insofferenza allergica di mia figlia Toni agli acari della polvere e alle graminacee. Ma “buon sangue non mente”, recita un antico epigramma sin dai tempi più lontani. Proprio mia figlia Toni fu presa da una così grande passione per i cani da costringermi ad acquistarne uno da un allevamento della mia città. Quasi come avevo fatto io con mio padre, quando lo convinsi, lui che per essere stato morso in tenera età da un randagio aveva giurato a se stesso che mai sarebbe entrato un cane in casa sua.

Accadde così.
Il timore verso questi “grandi” animali si tramanda di padre in figlio, quasi a livello genetico; per cui, essendo figlio di mio padre, nutrivo un terrore istintivo verso qualsiasi razza o sotto razza di cani, pur sentendomene fortemente attratto.
Mio padre era ragioniere e amministrava la contabilità di un buon numero di commercianti della mia bella Bari. Ebbene, uno di questi, don Ferdinando Boccia, un napoletano di robusta costituzione, dalla risata inimitabile e di una simpatia unica, possessore di una delle più rinomate pasticcerie della città, aveva il suo negozio nei pressi di una gioielleria a guardia della quale vi era uno stupendo pastore tedesco femmina: Diana.
Tutte le volte che mi accompagnavo a mio padre nel giro di visita al suo cliente, incrociavo il mio sguardo con quello di Diana, e ogni volta dicevo a me stesso che avrei dovuto farmi forza e accarezzarla. Manco a parlarne! Quando ero lì lì per tendere la mia manina di sette otto anni, all’ultimo momento mi mancava il coraggio e la ritiravo velocemente, nel timore che restasse tra le fauci del cane. Mio padre mi guardava e sogghignava, sembrava mi lanciasse una sfida. Decisi, perciò, che a qualunque costo sarei riuscito nel mio intento.
L’occasione capitò pochi mesi dopo, quando un condomino dello stabile in cui abitavamo, il dottor Rafaschieri, adottò un cucciolo di lupo alsaziano. Non vi dico l’invidia! Vedevo i suoi figli giocare con quel lupacchiotto senza timore, anche quando divenne cucciolone, con due zanne acuminate che facevano paura solo a guardarle. Ebbene, una domenica mattina i miei genitori si recarono al cimitero in visita ai loro cari scomparsi. Io colsi l’occasione e bussai alla porta dei miei vicini.
L’abbaiare furioso di Bull mi mise una tremarella tale che mi detti indietro ma, quando feci per rientrare in casa, Enzo, un ragazzotto di una dozzina d’anni, Rafaschieri junior, aprì la porta tenendo stretto il lupo per il collare. Mi chiese cosa volessi; io, con la voce che muoveva appena le corde vocali, deglutii e gli dissi che volevo divenire amico del suo cane. I ragazzini, si sa, sono incoscienti; ma quanto lo fummo Enzo ed io sfiora l’imbecillità.
Enzo si disse subito d’accordo e mi fece cenno di seguirlo su per le scale, sin sul terrazzo, dove avremmo potuto giocare indisturbati con Bull. Io mi tenevo a debita distanza, ma il cane tirava per annusarmi, per saltarmi addosso, per mangiarmi, pensavo io. Sul terrazzo, per non dare l’idea che stessi morendo di paura dissi ad Enzo di lasciarmi solo col cane, sicuro che mai avrebbe acconsentito. Beh, lui, invece, acconsentì. Ci studiammo per un po’ Bull e io, poi lui passò all’attacco. Mi agguantò con le sue fauci a un polpaccio e me lo perforò.
Voleva giocare, mi disse poi Enzo, ma io, che non lo sapevo, sferrai al povero cane un pugno tale sul capo che lo atterrò. Fu così che divenimmo amici, Bull e io.
I miei, al loro ritorno, mi trovarono che zoppicavo, con i pantaloni alla zuava strappati ma fiero di aver superato l’atavico timore dei cani.
Mio padre non ghignò, quella volta; anzi voleva farmi perforare da quaranta iniezioni nel ventre, cosa che rifiutai energicamente, confortato dal signor Rafaschieri che aveva mostrato il libretto sanitario di Bull costellato di tutte le vaccinazioni previste dalla legge.
Il giorno dopo carezzai Diana e quattro mesi dopo il suo padrone mi regalò un cucciolo femmina, Teddy, un magnifico incrocio tra un pastore tedesco e un pastore scozzese.

Beh, Antonella, Toni, per tutti noi, lanciò a me una sfida simile a quella che io avevo lanciato a suo nonno quando, in visita dall’allergologo, confermò il suo desiderio di avere un cane, supportata ardentemente dalla sorella. A me sembrò che finalmente si sarebbe rassegnata, poiché era scontato che il professor Ivan Papadia avrebbe sconsigliato una scelta di tal genere. Invece no. Anzi, mi raccomandò caldamente di soddisfare la richiesta, poiché Toni avrebbe anche potuto, in questo modo, sviluppare anticorpi atti a combattere l’allergia; mi ammonì, però, ad allontanare immediatamente il cane nel caso avessi notato un peggioramento delle manifestazioni allergiche. Fu cosi che ci recammo all’allevamento del Levante, il cui gestore era un amico, Saverio Stella.
Saverio ci guidò subito verso il settore delle cucciolate e ci consigliò di scegliere il cucciolo tra quelli che aveva partorito circa quaranta giorni prima una bellissima femmina di pastore tedesco. C’erano cinque cagnetti che suggevano avidamente il latte dalle mammelle materne. Uno il più grosso, al rumore dei nostri passi si girò incuriosito e venne scodinzolando verso di me che facevo da apripista. Fu amore al primo sguardo.
Lo presi tra le braccia, lo accarezzai e lo mostrai alla mia cucciolata: era una femminuccia. Dieci minuti dopo, le mie figlie e io eravamo in macchina con un esserino che scodinzolava e faceva udire la sua vocina tra uno starnuto e l’altro. Toni la spupazzava in tutti i modi, l’abbracciava, la baciava senza tossire né starnutire. Ma era troppo presto per cantare vittoria, pensavamo noi.

La prima notte che la cuccioletta trascorse in casa nostra fu memorabile. Tutti credevamo che avrebbe sofferto per la lontananza dalla madre e dai fratelli. Ciò ci tenne all’erta. Stabilimmo dei turni di guardia per non lasciarla mai sola. Alle mie figlie toccò il primo turno.
Mia moglie e io, per fare in modo che avvertissero la responsabilità della loro scelta, fingemmo di essere presi da un forte attacco di sonno e ci ritirammo nella nostra camera da letto. Senza dormire, ovviamente, ma interrogandoci se avessimo compiuto il passo giusto.
Le voci di Toni e Lila rimbalzarono allegre sino alle due, in coro con il latrare di Ira; poi, tutt’a un tratto, fu silenzio. Mi alzai cautamente, cercando di non far rumore, e andai in soggiorno. Erano tutte tre tranquillamente addormentate sul divano. Ira russava con la testolina in grembo a Toni e il treno posteriore sulle gambe di Lila. Presi un plaid e le coprii, poi rassicurai mia moglie. Ci svegliammo al suono del latrare della cagnetta.
L’inquilina del piano di sopra batté con forza sul pavimento perché chiedeva il silenzio.
Guardai l’orologio: erano le otto del mattino.
L’ignorai.
Il battere sul pavimento della signora Garofalo, Adele per amici e nemici, ha accompagnato più di un decennio della nostra vita.
Questa donna malvagia, che più volte ha tentato di avvelenare i miei cani, era un bieco essere senza cultura; non della cultura che si affina sui libri, che manco aveva, ma di quella del vivere. Era priva di sensibilità, caratterialmente “acida”, interiormente vecchia, nonostante usasse un trucco da ragazzina che la imbruttiva e invecchiava ancor più. Non provava alcun amore verso gli animali e ciabattava per tutta la giornata nel suo appartamento, mettendo fuori il naso solo per inveire contro il nostro cucciolo o per recarsi a imbonire il vicinato con la sua voce stridula e acida, per invogliarlo ad acquistare alcuni prodotti per uso domestico che lei vendeva casa per casa. Un giorno, forse ubriaca, mandò con determinazione la sua auto a sbattere contro un gigantesco pastore maremmano.
Del cane, purtroppo, non abbiamo mai avuto notizie. Della signora Garofalo, sì. Riportò varie ferite sul volto e sulle gambe, che le lasciarono segni indelebili, deturpandole, se fosse possibile, ancor più il tristo aspetto da vecchia malvissuta. A volte avrei voluto chiederle cosa l’avesse resa talmente arida.
Al contrario accadde l’impensabile per l’allergia di mia figlia. Toni non solo non aggravò la sintomatologia, quanto, col passare dei mesi, migliorò la sua patologia a tal punto da non risentirne quasi del tutto.
Ira divenne il quinto membro effettivo della nostra famiglia, amata e coccolata da tutti grazie non solo alla funzione terapeutica che aveva assolto in brevissimo tempo, ma anche all’amore incondizionato che ci ha dedicato per tutta la sua breve vita.

Ricordo un episodio che a posteriori ci fa sorridere, ma che sul momento ci procurò viva preoccupazione.
Abitiamo al terzo piano di una palazzina e usufruiamo di un balcone piuttosto ampio che Ira scelse come uno dei suoi posti preferiti. A quel tempo il cortile condominiale era pressoché privo di gatti; a malapena se ne scorgeva uno di passaggio nelle prime ore pomeridiane dei mesi più caldi.
Un giorno, però, un condomino decise di adottarne uno a distanza, nel senso che non lo prese in casa con sé, ma cominciò a depositare i rifiuti del suo pranzo in un angolo del cortile affinché il felino ne usufruisse.
Ira era con noi da circa due settimane; cresceva bella più del sole, e tanto pasciuta da non crearci preoccupazioni circa l’inferriata, le cui sbarre erano distanti l’una dall’altra poco più di una spanna.
Era una notte d’estate. L’aria tersa di periferia consentiva di ammirare
un affresco di stelle di straordinaria bellezza.
Ira alzava il capo verso il cielo e guardava la luna cercando di modulare il preistorico ululato dei suoi avi. Dopo vari tentativi venne fuori un uuh –uuh che pareva il verso di una civetta più che l’orgoglioso richiamo del lupo. Le feci una carezza sul capo biondo e lei agitò riconoscente la coda.
Ad un tratto, mentre era lì felice e scodinzolante, le vidi sollevarsi il pelo, scoprire i denti e lanciarsi contro l’inferriata con tanta velocità da non poterla assolutamente fermare.
Un gatto pezzato, grosso quanto un vitello, col pelo irto, soffiava come un serpente in direzione del mio cucciolo che, incastrato tra le stecche di ferro, penzolava nel vuoto con metà del suo corpicino.
Non fu semplice liberare il mio cane da quell’assurda posizione, nel timore che le sue tenere costole potessero riportare qualche frattura. Ira, invece, per nulla spaventata, ringhiava con la sua voce da bambina e tentava di liberarsi per saltare addosso al nemico. Imperterrito il gatto continuava a puntarla strisciando per terra la coda. Una provvidenziale secchiata d’acqua, lanciata dai piani superiori investì il felino e un miagolio di terrore ne preannunciò la fuga.
Sollevai lo sguardo e con meraviglia scorsi la signora Garofalo ancora lì, sul balcone, affacciata col secchio tra le mani. Mi guardava anche lei. La sua voce stridula riempì il silenzio: a quest’ora si dorme!- e sbatté le porte della finestra rientrando nelle sue stanze.
Quello è stato l’atto più dolce che Adele abbia mai compiuto nei confronti dei miei cani.
Tratto da "Ouzo e Io" di Natalino Lattanzi

domenica 2 novembre 2008

Roma o morte

Roma o morte!
Partenza ore 05.00 del mattino. Macché, alle 07.00 eravamo ancora alle prese con valige che non volevano chiudersi. Mia moglie ed io non siamo pesi massimi, perciò decidemmo di unire i nostri kg da scaricare sui trolley. Il primo si arrese, il secondo pure, il terzo si fece a scodella e unì mia moglie e me in un abbraccio di quelli che ci stringevano da fidanzatini. Gambe per aria e nuca sul pavimento, riflettemmo per un attimo se approfittare della situazione estremamente favorevole. La sveglietta del mio orologio da polso ci ricondusse alla realtà. Cristo, che ritardo! Mi rialzai in fretta e mi catapultai per le scale. Lo scantinato è un deposito atipico. Vi è di tutto, dalle provviste alimentari agli abiti disusati, alle scarpe dismesse, ai ferri per le riparazioni domestiche, ai lettini divenuti troppo piccoli per i nostri due bellissimi pastori tedeschi, alle migliaia di diapositive scattate negli anni ’70 e ’80 delle nostre due figlie, ai testi universitari di Lettere e Scienze Biologiche, rispettivamente miei e di mia moglie, agli abiti carnascialeschi di Ciuppi e Toni, ai fumetti di Tex Willer, di cui conservo una vasta collezione. Il tutto in un grande disordine per le frequenti visite che operiamo quasi quotidianamente per ricercare oggetti da utilizzare per le riparazioni domestiche. L’angolo delle valige somiglia alla torre di Pisa, sempre in precario equilibrio, ma stranamente sempre in piedi. La valigia sostitutiva, come il solito, era l’ultima, quella sotto la pila. Non disarmai. Afferrai il manico e tirai con forza. La torre, con un sonoro tonfo si accorciò di qualche cm e resistette nonostante lo smottamento provocato dall’estrazione. Lo schianto svegliò gli acari che soggiornano dormicchiando e rosicchiando un po’ di tutto e starnutii violentemente. La pila questa volta crollò vomitandomi addosso vecchi zaini della mia vita militare, bauletti in fibra di epoca vittoriana, buticase vari e il trapano elettrico che ritenevo perduto. L’alluce valgo lo accolse con malagrazia ed esternò con la mia voce ciò che pensava dei suoi progenitori che poi erano anche i miei. Zoppicando riguadagnai l’uscita dello scantinato,spinsi la porta che non voleva chiudersi per l’ingombro che arrivava sin sulla soglia, chiusi a chiave la serratura che può essere aperta anche con un apriscatole e salii in fretta le sei rampe di scala che portano al mio appartamento. Mia moglie che mi attendeva vicino l’ascensore mi chiese come mai fossi salito a piedi. Le spiegai che dovevo rimettere in moto il mio arto inferiore sinistro fresco di un sinistro. Non capì ma non se ne fece un problema. Finalmente alle 07.55 eravamo in macchina, una bella Stilo del 2003, turbodiesel, 1900 non so che.
Divorammo la circonvallazione a 150 km orari e alle 08.05 ritirammo il biglietto autostradale.
Roma o morte!
Il cielo azzurro, l’aria dolce, il levantino profumato di mare erano indizi che ci aspettava una bella giornata, gioiosa, che dico, felice. A Roma, infatti, ci recavamo per assistere alla seduta di laurea di nostra figlia Toni. La distanza che separa la mia città dal capoluogo non era motivo di preoccupazione, nonostante avessimo accumulato un grave ritardo, per l’abilità che mi contraddistingue alla guida di autovetture potenti. Ben lo sapeva mio padre che mi chiamava Cazio Nuvolari per non confondermi con il grande Tazio.
Alle 09.30 eravamo a 36 km da Napoli. Il cielo, frattanto, si era fatto nuvoloso. Nuvole nere, cariche di pioggia incombevano sull’Appennino schiaffeggiato da un vento gelido foriero di bufera. No problem. Noi procedevamo sicuri discutendo del più e del meno accompagnati dal rombo del motore e… da un puzzo terribile di ferodo bruciato. Detti uno sguardo allo specchietto retrovisore e scorsi una cortina di fumo bianco. Inchiodai. La macchina sembrava in preda alle fiamme. Per fortuna avevo scelto la piazzola giusta per sostare: eravamo proprio su un punto SOS. Mia moglie, terrorizzata, mi pregò di uscire per accertarmi che non fossimo sul punto di divenire tizzoni ardenti. Sorrisi, mio malgrado, per darle coraggio. Goccioloni di pioggia, in attesa che il mio corpo fosse allo scoperto, cominciarono a rimbalzarmi allegramente sul capo. Imprecai sottovoce. Mia moglie è per l’ortodossia dottrinale. Aprii il portellone del cofano motore e tossii per il fumo e il puzzo. Pigiai il pulsante del SOS. Mi rispose una voce metallica in inglese, spagnolo e tededesco, in italiano no, sovrastata dal traffico dell’Avellino- Napoli. Non capii un cazzo ma ebbi fiducia che il mio appello fosse stato raccolto. Cominciò l’attesa. Azionai i lampeggiatori d’emergenza e scrutai l’orizzonte. Vetture della polizia, dei carabinieri e delle guardie carcerarie transitavano di continuo a forte andatura, ma nessuna di queste sembrava essere guidata da umani, perché non una ci si avvicinò per chiederci se avessimo bisogno d’aiuto com’era lapalissiano. Dopo mezz’ora mi riattaccai al pulsante del SOS.
In spagnolo una voce mi disse di non rompere le palle perché il soccorso era prossimo. La pioggia cadeva a catinelle. Il freddo si fece pungente per i nostri abiti dannunzianamente leggeri. L’oscurità piombò con una nuvolaglia color melanina che non lasciava presagire nulla di buono. Del soccorso nessuna traccia. Alle 10.45 ricontattai l’SOS. Ancora una volta in spagnolo o portoghese. Il soccorso non poteva venire perché anche lui aveva bisogno di soccorso. Cazzo! Mia moglie era sull’orlo di una crisi di panico. Che fare? La mia mente vulcanica cercò e trovò la soluzione. Ricordai di aver memorizzato nel mo cellulare il numero ACI e telefonai. Mi rispose, questa volta, un italiano in napoletano. Mezz’ora dopo eravamo scomodamente seduti nel carrattrezzi in compagnia di un avellinese che, bontà sua, ci reputava degni di dividere con lui la cabina di guida. Da buon campano l’autista s’interessò ai casi nostri e ci propose la sua autofficina per la riparazione della Stilo e una vettura sostitutiva per raggiungere Roma in tempo utile per assistere alla seduta di laurea che avrebbe impegnato nostra figlia Toni nel pomeriggio, alle 15.00. Accettammo. Per raggiungere il punto ACI dovemmo tornare indietro, sino a Atripalda, uno sperduto paesino dell’avellinese. Lì fummo accolti dal capofficina che ci prospettò, dopo un’oretta, una riparazione costosissima, circa 1300 €, se fossimo sfortunati, altrimenti una bazzecola, solo 650 €, se fossimo fortunati. Chiaramente infoltimmo la schiera degli sfigati. Se avessi avuto bisogno di un digestivo non sarebbe stato necessario fare una puntatina al bar o in farmacia: avevo un pozzo amaro in bocca. Trasferimmo i bagagli dalla Stilo alla nuova, si fa per dire, macchina, una Xara della Citroen, SW. Mi sedetti alla guida. Alle 13.00 eravamo nuovamente in cammino. La distanza che ci separava da Roma era aumentata, grazie alla visita atripaldese. Il tempo era diventato indecentemente brutto per la pioggia violenta e costante e il vento a non so quanti nodi. Non mi persi d’animo. Sono o non sono Cazio?- pensai.
All’imbocco dell’autostrada spinsi il pulsante elettrico per abbassare il vetro del finestrino di guida onde ritirare il biglietto: Macché, non funzionava! Mia moglie scese dall’auto e ritirò il tagliando del pedaggio tra lo strombazzare delle auto che seguivano. Ripartii sgommando. Spinsi a fondo l’accelleratore. La lancetta del tachimetro in pochi secondi segnò 170 km orari. Me ne fregai e guidai a tavoletta. Mia moglie, di solito pallida, alternò, per tutto il tragitto, il pallore al rossore, passando da ondate di caldo a sudore freddo. A volte metteva le sue mani sugli occhi non so se per paura o perché preferiva non vedere. Il tergicristallo andava come un forsennato sul parabrezza nel tentativo di scrollare lo tsunami che impediva la piena visibilità, ma io ero ormai come invasato e ironizzavo sui tratti controllati dal tutor che ammoniva di ridurre la velocità. Alle 15.00 in punto eravamo nella caput mundi, cioè sul suo raccordo anulare. Tra le imprecazioni dei piloti delle altre autovetture mi avventurai in sorpassi a destra e a sinistra impipandomene dei gesti onomatopeici che mi si rivolgeva costantemente. Finalmente, con gli occhi rivolti un po’ al cielo, un po’al manto stradale, lessi a caratteri cubitali Uscita San Giovanni. Il cuore mi si allargò in petto, più di quanto sia già largo, grande se volete, per la lunga attività sportiva consumata in gioventù. I battiti cardiaci da 60 piccarono a 120. La meta era vicina! Entrammo, così, nella Circonvallazione Tiburtina. La mappa stradale procuratami da mia figlia raccontava che poco dopo avrei trovato l’uscita Scalo San Lorenzo. Pregustavo i momenti di relax che mi aspettavano e spinsi sull’acceleratore. La Xara rispose come un cavallo imbizzarrito alla mia sollecitazione. Sorpassammo a velocità della luce di una lampada da 1000 Watt un mini autobus giallo con una inserzione pubblicitaria che diceva Trinity College. Nello specchietto retrovisore il giallo si confuse presto con l’antracite della carreggiata. Macinammo km zigzagando in una gimcana da Go-Kart senza che vedessimo il cartello liberatore. Pensai, a un certo punto, di aver sbagliato strada. Invece no! Ero quasi per invertire il senso di marcia (ma non sapevo come avrei potuto farlo), quando incrociai con lo sguardo un cartello che indicava l’uscita per lo Scalo San Lorenzo, il quartiere sede della Sapienza, dell’Università, intendo dire. Il sole fece capolino giusto in tempo per indicarmi il largo Settimio Passamonti e dopo una breve deviazione a destra il Viale dello Scalo omonimo dello stanco eroe manzoniano. Fermai l’autovettura in prossimità di un sovrappasso. Mia moglie ed io ci facemmo occhiolino. Era fatta. Almeno così sembrava. Marco, fidanzato di mia figlia, ci raggiunse dopo qualche minuto. Dopo un saluto forzatamente frettoloso ci indicò dove posteggiare la macchina e ci guidò, a piedi, a grandi falcate, verso l’abitazione in cui risiede con Toni. Mia moglie sembrò tornare la giovane studentessa che correva i 400 metri; io arrancavo. Entrati in un portone che neppure vidi, attraversato l’androne, una porta si spalancò dinanzi ai nostri occhi. La varcai come un automa, con i polpacci che mi dolevano e l’alluce valgo che cantava. Borbottando sacramentavo contro il meccanico della mia città che aveva revisionato la Stilo prima della partenza. Quel boia mi aveva assicurato che ci avrei potuto fare il giro del mondo. Giunse così il momento della vestizione. In piedi, con la gamba destra del mio pantalone che negava l’ingresso alla mia, tanto da farmi precipitare per terra, indossammo velocemente gli abiti pronti per la cerimonia e poi di nuovo di corsa per raggiungere l’Università. Il sole, che sembrava aver vinto il duello con le nuvole, si arrese. Una pioggia scrosciante ci accolse non appena varcammo l’uscio del portone. Marco riprese la sua sfida con il tempo; mia moglie quasi lo precedeva; io arrancavo più di prima. Alle 15.40, stanchi, bagnati, ma felici, abbracciammo nostra figlia che, poverina, come Cenerentola, era sulle spine per noi.

laurea e fiori











Mura e tetti di Roma





























martedì 30 settembre 2008

IL LABORATORIO MULTIMEDIALE

La prima volta che misi piede nel primo laboratorio d’informatica mi sembrò di entrare nel mondo delle meraviglie. Io ero, solo per rispettare la favola, Alice, e il coniglio bianco era il tecnico di laboratorio, Osvaldo La Gomma, che tutti per affetto chiamiamo Capitan Uncino, ma di solito solo Uncino per l’odio che nutre per il mondo ittico. I computer erano nuovi di zecca, i monitor erano altrettanti specchi a sfondo nero, le tastiere bacchette magiche che producevano il reale e l’irreale, il mouse il solito topaccio di fogna che percorreva le distanze speculari per inseguire, come pezzi di formaggio, lettere e immagini che correvano sui video. Ma non basta. Persino il pavimento della sala era tirato a lucido con quegli stupendi prodotti chimici che ragazze svestite pubblicizzano sulle nostre televisioni. Ero stupefatto. Pur avendo poche o nulle nozioni d’informatica, mi trasformai in mr. Hide e produssi con i miei alunni decine di CD con progetti sperimentali sull’interland barese. Poi la scuola s’ingrandì, s’ingigantì anzi; non eravamo più io e qualche altro docente di buona volontà a varcare la soglia di quel magico mondo, divenimmo duecento a contendercene il possesso, sia pure temporaneo. C’era un via vai davanti la porta blindata che mai i bagni delle sale cinematografiche quando si proiettava la Corazzata Potyonki hanno annoverato. Le fette maleodoranti infilate in scarpe ginniche 500 € al paio di migliaia di alunni cominciarono a calcare il magnifico pavimento di marmo insozzandolo con il terriccio esterno che ne divenne parte integrante, le tastiere furono pestate da centinaia di migliaia di mani sporche e unte d’olio di focaccine manipolate da Leonzio, il nostro gobbo di Notre Dame, i monitor divennero specchio per le alunne che dovevano rifarsi il trucco, mentre per gli arrapati cronici costituirono il mezzo virtuale per toccare le tette di qualche fanciulla la cui immagine compariva d’incanto a schermo intero; i mouse assunsero il compito di supposte per gli stitici doc. La polvere cominciò, così, ad accumularsi sui banchi, mentre le vetrate furono coperte da chewingum e sabbia, che il vento di Levante porta sino a noi, tanto da trasformare il tutto in una camera oscura.
Incurante dei parassiti, dei batteri e delle piattole, l’altro giorno, precettato Osvaldo, mi sono seduto alla poltrona di comando per sviscerare ciò che la mia diabolica mente aveva partorito circa l’orario del corpo docente. Uncino non era solo. Veleggiava, con lui, Rodolfo Lo Smilzo, il tecnico del secondo laboratorio. C’è da dire che quando i due parlottano tra loro diviene impossibile decifrare una sola parola. Usano un linguaggio primordiale, fatto di suoni gutturali, di strofinate di palle con relativo mugugno di soddisfazione, di masticatura di gomme americane fatte in Cina con licenza italiana, di gesti inconsulti di solito accompagnati da risolini con piega amara e sventolio di fazzoletti di cotone per detergere l’abbondante sudore provocato dal difficoltoso confronto verbale sui rispettivi regni.
M’imbattei in uno di questi momenti. Avrei preferito scaricare la tensione del lungo lavoro da solo, chiuso nella rabbia che si manifesta ogniqualvolta mi si presenta le cahier de lagnance dei miei colleghi, amareggiati dai frequenti buchi che costellano il loro orario. Ma Osvaldo e Rodolfo avevano voglia che io facessi da arbitro alla loro tenzone verbale. All’oscuro dell’oggetto del contendere, chiesi che almeno mi si dicesse di cosa stavano parlando. E fu un errore. Uno da un lato, l’altro dall’altro, mi assalirono con le loro emissioni vocali incomprensibili, mentre ambedue gocciolavano secrezioni sudoripare da tutti i pori visibili del loro corpo. Osvaldo va sui toni alti , Rodolfo è il più ermetico. Tra vari embhe ,e già, uuhmm , così, perché, quando , quindi, non sono fesso,che poi ho cinquant’anni, uniche espressioni che riuscii a comprendere, e gli e già (ne hanno molti in comune) , mo senti, dato che, se vuoi una gomma, i contribuuti ecc dell’altro, non capii una mazza. Mi sentivo come Paride tra due trans nei panni di Venere e Giunone,con la voglia di spiaccicare sul loro cranio la mela, per equa divisione, piuttosto che darla a uno dei due in segno di vittoria. Dopo circa dieci minuti di questo linguaggio cifrato più consono ai servizi segreti che a poveri dipendenti della P.I., mi arresi. Li stoppai e li pregai di tornare al linguaggio originario, anche al dialetto purché mi si parlasse in modo intellegibile. Si offesero. Mi aggredirono con altri grugniti e squilli di tromba non identificati, ma che stavano a indicare il disappunto per la mia rottura di palle. Li mandai a fanculo e cominciai a muovere le mie pedine sulla scacchiera del quadro orario.
Non si persero d’animo. Poco dopo tornarono alla carica, nonostante inviassi mentali e fervide preghiere per renderli temporaneamente muti.
Tra i vari intercalari, sottoponendo la mia corteccia cerebrale a uno sforzo immane, compresi. Il tutto verteva su alcuni compensi aggiuntivi, quali quelli relativi ai corsi POF,PON e POR. Chiedevano a me, che non me ne fotte, se fosse giusto che un altro aiutante tecnico godesse di privilegi a loro sempre negati, nonostante vantassero una maggiore anzianità di servizio nel Benpensante. Cercai di calmare la loro animosità, che si manifestava con un effluvio di parole smozzicate, sputacchi di saliva sul mio giubbino, pugni sulla scrivania in truciolato, calci alle poltroncine delle postazioni di computer, motivando le decisioni del preside non come frutto di partigianeria, ma come scelte tecniche, data la diversa attribuzione di mansioni. E lì sbagliai. Non appena pronunciai diversità di mansioni, mi assalirono, mi strattonarono per il giubbino, mi spinsero sulla sedia, mi schiaffarono quasi negli occhi i loro indici per affermare la loro supremazia in fatto di gestione dei mezzi informatici. Infine conclusero: il loro rivale era, a detta dei due, il favorito di Porfido Segaioli. Per stemperare l’atmosfera con fare sornione chiesi se fossero sicuri che Porfido fosse gay. Per loro ridere a crepapelle è mostrare appena le dentiere quotidianamente lucidate. E lo fecero. Il luccichio del sole sugli incisivi durò una decina di secondi, poi, calmatisi, mi chiesero, a gesti più che a parole, di essere portavoce del loro scontento, poiché, bontà loro, ero adatto ad assumere il ruolo di patrocinante dei diseredati, come essi ritenevano di essere. Confessai la mia impotenza. Mi assalirono ancora. Mi arresi. Zittirono. Poi, dopo un attimo di pausa, come due orologi sincronizzati, programmati sullo stesso orario di sveglia, riattaccarono. Si erano pentiti. Decifrai che mi pregavano affinché non facessi parola con alcuno, men che meno col preside, del loro sfogo. Finsi di nicchiare ma, prima che cambiassero idea, aderii alla loro richiesta. Mi lasciarono solo nella piccola cloaca e scaricai il mio nervosismo attribuendo prime e seste ore di disposizione ai miei ignari e incolpevoli colleghi. Frattanto il parlottio al di là della porta blindata continuava. Temperai nervosamente la matita. La punta s’incastrò tra la lama e la fessura che consente ai riccioli di legno di venir fuori. Tirai con forza e trac, castrai l’attrezzo della sua mina per intero. Sacramentavo quando Osvaldo rientrò nella stanza: ci aveva ripensato, Rodolfo no. Mi si avvicinarono, e ripresero a gesticolare e a grugnire. Mi ricordarono King Kong, il gigantesco gorilla che si voleva fare la dolce fanciulla bionda. Per fortuna sono bruno, o meglio grigio brunito, e non una dolce fanciulla.
Si affacciò nella stanza il prof Del Cozo, mio socio nella redazione dell’orario. Del Cozo, RSU a tutti gli effetti, deputato a difendere i diritti dei lavoratori, fu la mia ancora di salvezza.
Del Cozo è flemmatico, per meglio dire è un paraculo. Dice sì a tutti per non subire pressioni nè fisiche, nè psicologiche. Chiaramente il più delle volte viene meno a ciò che promette, ma si giustifica col sorriso sulle labbra e tutto gli è perdonato. Quando ciò accade, la maggior parte dei petenti si rassegna, perché non ha il coraggio di affrontare vis a vis il gota del Benpensante. Del Cozo, il piccolo Cesare, si assise in mezzo a lor e con aria da confessionale li ascoltò. Non capì un cazzo ma, comunque, si dichiarò a loro disposizione. Poi sedette accanto a me. Osvaldo e Rodolfo frattanto si erano ammansiti; borbottarono ancora vari e già, ho cinquant’anni, non mi prende nessuno per il culo e altre colorite accezioni e, seduti a due postazioni per studenti, si dettero alla lettura di City.
Un silenzio chiesastico scese nella sala computer. Del Cozo ed io ci guardammo sorpresi. Volgemmo lo sguardo alle nostre spalle e vedemmo i due indefessi lavoratori col capo poggiato su due tastiere, nelle tenere braccia di Morfeo, dormire come due angioletti.
Il timore di svegliarli ci fece desistere dal continuare il nostro lavoro. In punta di piedi raggiungemmo l’uscita e li lasciammo ai loro sogni beati. Il corridoio che permette l’accesso alla sala computer era bloccato. Decine di colleghi che avevano preso visione dell’ennesimo orario provvisorio ci attendevano al varco. Non appena ci scorsero ci circondarono. Avevano tra le mani proposte di orario personalizzato, ciascuno adducendo inderogabili problemi di famiglia. Duri più dei protagonisti del film Noi duri non ci facemmo intenerire né da chi dichiarava di dover lasciare il bambino di tre mesi fuori dalle cancellate dell’Asilo Nido, a Napoli, alle tre del mattino per essere puntuali a scuola, a Bari, in prima ora, né da coloro che vantavano padri, madri, nonni e zii da dover assistere in ottemperanza alla legge 104. Solo due furono i casi che prendemmo in considerazione, perché veramente degni di comprensione. Il primo ci fu esposto dalla collega d’Inglese, Carmen Cugina della Sorella, di antica famiglia nobile originaria di Zollino. La poverina rappresentava veramente un caso particolare. Con un marito in pensione e due figli militari di carriera imboscati in fureria, aveva un appartamento di 230 mq da sistemare ogni mattina con l’aiuto di una sola cameriera o collaboratrice domestica, come cacchio si usa dire oggi; l’altro era ben più grave. La prof Scoppola, docente di Matematica, madre di due figli fuori corso alla facoltà d’Ingegneria Nucleare, aveva grave necessità di non essere in servizio in sesta ora poiché doveva prelevare i suoi pargoli all’uscita delle lezioni universitarie. Mostrammo il nostro buon cuore, Del Cozo e io, dichiarando che avremmo esaminato i loro casi vista la gravità delle motivazioni addotte. Mentalmente li mandammo affanculo, praticamente glielo mettemmo nel boffice.
Le urla di protesta destarono Biancaneve e la Bella addormentata. La Gomma e Lo Smilzo si unirono al coro dei contestatori. Pensavano i due imbranati che Del Cozo e io stessimo indirizzando i nostri colleghi verso il laboratorio di Quinto il Pelato, il terzo aiutante tecnico, beniamino sine condicio del dirigente scolastico. Nonostante le nostre proteste d’innocenza, sfiduciarono Del Cozo e dichiararono che essi stessi avrebbero provveduto a far abolire lo scandaloso Ius primae noctis. Non c’entrava un cazzo, ma lo dissero.
Seguiti da un nugolo di docenti, Osvaldo e Rodolfo raggiunsero la presidenza. Porfido era impegnato con il team della Qualità. Anche lì, casino. Una ventina di docenti circondava la scrivania di Porfido, costretto a girare come una trottola sulla poltrona girevole per ascoltare il pensiero di ciascuno. La prof Antrocof, di origine ucraina, docente di francese, era in piedi e invocava l’intervento di Gorbaciov durante le sue lezioni, per avviare una mini Perestroika che insegnasse ai suoi alunni come si fa ad abbattere un muro; il docente di Fisica, Alex Dell’Angelo Della Bona Nova, convinto della bontà del progetto della collega chiedeva di rivolgersi a Maria Lippi, per poter inviare, attraverso la trasmissione C’è posta per te, una lettera d’invito all’ex premier russo. Il prof Caimano, docente d’italiano, scafato a tutte le pseudo novità, scetticamente asseriva che la Perestroika non c’entrava una minchia, ma che gli alunni avrebbero dovuto seguire la trasmissione televisiva, L’isola dei famosi, per essere avviati alla vita vera. La più assennata fra tutti era la prof di Educazione Fisica, Ciccia La Corta, che pensava che la qualità fosse solo del prosciutto di Parma con il suo marchio DOC. Porfido perse per un attimo il senso della realtà. Chiese, rivolgendosi verso l’unico pertugio libero, cosa bollisse in pentola; poi, consapevole della sua defaillance, si passò una mano sugli occhi e decise che Quinto avrebbe raggiunto la piccola assemblea. Rodolfo Lo Smilzo divenne color pomodoro e sbottò: - Ma cacchio, se siamo qui noi perché chiama Quinto? Allora è vero che è il suo preferito! Osvaldo incalzò: - Le particolarità devono finire, non è possibile che lei imponga lo ius primae noctis, cacchio!
Segaioli non sembrò per nulla scosso dalle loro parole, anzi sorrise bonario: il pelato era alle loro spalle.
- Quinto - sussurrò poi con voce arrochita - scaricami il progetto qualità del liceo classico.
- Allora lo fa apposta - sbottò Lo Smilzo e sbatté la porta.
Osvaldo lo seguì masticando nervosamente una gomma.
Non appena fuori i due si proclamarono in sciopero bianco fino a che Porfido non avesse restituito loro la propria dignità assegnandogli un nuovo corso da gestire senza che Quinto ricevesse alcuna contropartita. Incrociarono le braccia e attesero Del Cozo al varco.
Frattanto il pelato aveva scaricato il file del progetto del Liceo. Uncino e lo smilzo lo guardarono indignati. Il pelato ricambiò lo sguardo, rise compiaciuto e varcò la soglia della presidenza. Del Cozo e io eravamo sul punto di ritirarci nelle nostre stanze, quando il preside ci stoppò: Cosma e Damiano, dove andate? Non sapete che anche voi fate parte del progetto qualità?
Veramente non lo sapevamo, ma prendemmo posto su due seggiole vacanti poste alle spalle di Porfido.
- E’ per pararle il culo - sussurrò all’orecchio del preside Del Cozo, che intrattiene con lui un rapporto privilegiato.
- A proposito - chiese Segaioli - cos’è questo fatto dello ius primae noctis?
Mi sentii in dovere di rispondere.
- Lo ius primae noctis era il privilegio del principe di portarsi a letto la sposa del suddito nella prima notte di matrimonio.
Questo lo so - sbottò Porfido - ma che c’entra con Quinto? che me lo porto a letto io?
Le colleghe presenti sorrisero imbarazzate, Caimano e D’Angelo sghignazzarono.
- Chiariamoci - esclamò Segaioli - io ho moglie e figli!
Del Cozo sbadigliò - E chi lo mette in dubbio… quello non sapeva manco cosa diceva…
Quinto divenne più rosso di una mela Star e cercò di guadagnare l’uscita.
- No, no! – lo fermò Segaioli - e mo che fai te ne vai e io resto qui a dare spiegazioni. Parla anche tu!
- Preside, ma che debbo dire…
- Come, che devi dire? Tu devi parlare!
- Ma, preside, così mi mette a disagio.
- E perché a disagio? Ouh, non ti mettere niente in testa…
- Che mi devo mettere in testa?
- Beh, lasciamo perdere, perché se no qui …
- Eh no, adesso deve chiarire! Anche io ho moglie e figli e non è che mo ci debbo fare la parte del …
Del Cozo intervenne con la sua diplomazia del “sì, avete tutti ragione”: Per carità, qua ci stiamo perdendo in cose di poco conto. Lo sappiamo tutti che Osvaldo non voleva assolutamente alludere a ciò che pensate. Quel ragazzo parla spesso a sproposito, non sa cosa dice in italiano, figuriamoci in latino… il suo problema, come quello di Rodolfo, è di percepire più danaro, che collabori o no ai progetti.
Detto questo si sedette a gambe larghe sulla sponda della scrivania presidenziale e attese le reazioni del pubblico. Quinto e il preside mostrarono di gradire il suo intervento, anche perché chiudeva una questione che stava prendendo una strana piega. Tutti gli ascoltatori, a quel punto, si dichiararono d’accordo con le idee delcoziane e si riprese a discutere del progetto qualità. Segaioli, dopo un po’, dichiarò che era meglio interrompere la seduta perché si era fatta ora di pranzo e la prorogò al giorno successivo.
-Mia moglie mi ripudierà- disse sorridendo- domani è il suo compleanno e io, invece che a casa, starò a scuola.
Un coro di voci da soprano si alzò alto nel cielo.
-Preside - pregò Ciccia La corta autoelettasi portavoce dell’assemblea-spostiamo a dopodomani. Le altre applaudirono a mo’ d’incoraggiamento.
Porfido nicchiò per far sì che il coro divenisse veramente unanime, poi, quando si rese conto che l’androceo non reagiva, con aria sconsolata ripeté che era necessario rincontrarsi l’indomani per rispettare la scadenza del bando del progetto.
Il coro ancillare divenne più forte e accorato, ma non commosse alcuno di noi maschi già pronti a togliere le tende. Del resto eravamo ben coscienti che Porfido, piuttosto che rompersi le palle a casa, preferiva romperle a noi a scuola.
Non appena fuori della presidenza Del Cozo e io fummo abbordati da Osvaldo e Rodolfo. Osvaldo ci offrì immediatamente una gomma da masticare. Da quando ha smesso di fumare per risparmiare, spende una barca di euro in chewingum.
Masticando a bocca piena mi rivolsi a Uncino: ma come cazzo ti è venuto in mente di citare lo ius primae noctis? Lo hai fatto incazzare!
-Ma perché, non è giusto?
- Sì che è giusto, come detto latino, ma tu che cacchio volevi dire?
-Come, non è chiaro? Ius lavoro sino alla prima notte.
-Ma chi è sto cavolo di ius?
- Scusa, in latino io non si dice ius?
- Ma vaffanculo! Ius sta per diritto e lo ius primae noctis significa farsi la sposa prima dello sposo.
-Ma come, davvero? Non è che mi prendi per il culo?
-Senti, se vuoi fare una cosa buona va’ da Porfido e chiedigli scusa. Lui pensava che tu volessi dire che è gay
- Madonna, che ho fatto!
Del Cozo lo consolò dicendogli che tutto poteva essere riparato con le scuse e non insistendo più sulla primogenitura di Quinto. Rodolfo si associò alla richiesta prevedendo ritorsioni anche contro di lui che si era associato nella protesta al suo collega.
Bussarono alla porta di Segaioli. Come al solito Del Cozo e io origliammo. Sentimmo il tono sommesso dei due nel silenzio di Porfido, poi il silenzio dei due tra le urla di Segaioli che li minacciava di provvedimento disciplinare. Uscirono a testa bassa imprecando contro il loro avverso destino. La loro condizione è leggermente cambiata: percepiscono qualche euro in più, ma non hanno smesso d’invidiare il collega pelato che la fa da padrone su due laboratori con il consenso del preside.





Tratto da Cronache di scuola di natalino lattanzi

mercoledì 10 settembre 2008

Sic Stantibus Rebus

Sic stantibus rebus
Minchiuzzi è laureato. Nessuno lo credeva. Noi pensavamo che per una di quelle strane leggi di un tempo, quelle per cui cuochi divenivano docenti, avvocati prof. di educazione fisica, ex bidelli presidi, beh, per una di quelle leggi anche lui avesse potuto fregiarsi del titolo di docente senza essersi spaccato il culo sui libri di testo griffati dai baroni universitari. L’altro giorno, trionfante, mentre eravamo al bar, mostrò il suo diploma targato 1972 perché si era scocciato delle frequenti illazioni sul suo conto. Tanto di 110 e lode in Scienze Apolitiche. Mai sentita prima quella facoltà; inoltre da noi insegna genetica. C’insospettimmo. Un mio amico lavora nella segreteria generale dell’Università, quella in cui si rilasciano i diplomi originali di laurea. Non frapposi indugio: telefonai. Oreste Pugnetta mi rispose con la sua parlata strascicata da texano… da molfettese cioè. Non appena mi riconobbe mi salutò con il solito -“ciao, Nanni, sempre seghe, vero?”. Anche lui stava sorbendo il caffè. Il caffè per Oreste è come la benedizione papale nel giorno di Pasqua. Ha una sacralità tutta sua, particolare. Oreste lo centellina alternando a ogni sorso una tirata alla pipa di radica che fuma da sempre. Lo mescola con il fumo che ingoia con ingordigia, cacciandolo nelle profondità degli alveoli polmonari senza tossire; con lo sguardo rivolto al cielo butta fuori ampie volute di fumo, quasi a mandare un messaggio al padreterno, come facevano i pellerossa quando sacramentavano tra loro contro i bianchi sterminatori di bisonti. Il barista, uno serio il suo, gli serve la bibita in una coppa da cremolata (un gelato tipico del Sud) in cui il mio amico intinge il cannello della pipa quando il caffè è agli sgoccioli per lasciar sedimentare sulle papille linguali il fumo aromatizzato al Segafredo, la sua marca preferita. Non so perché mi chiami Nanni, né perché, lui, col cognome che si ritrova, mi chieda ogni volta se faccia ancora pugnette.
Ci conosciamo da ragazzini, quando la mia famiglia si trasferì nello stesso stabile in cui abitava la sua.
Il primo incontro non fu dei più simpatici. Lui aveva la sua gang, di cui era il capo. Scorazzava per le scale del palazzetto in cui abitavamo, che portava ancora i segni di un possibile crollo, tanto era puntellato con travi grosse una trentina di centimetri, scivolando sui corrimano. Noi ci eravamo stabiliti provvisoriamente lì perché la nostra precedente abitazione era stata presa di mira dai bombardieri americani, i B29, che evidentemente lo avevano in grande antipatia. Un giorno, durante una delle solite scivolate, Oreste mi era precipitato addosso procurandomi un bozzo sulla fronte che non si ruppe solo perché il mio cranio è a prova di martellate; lui, invece, svenne. Questo fatto non gli andò a genio, perché aveva la fama di duro. I suoi compagni cominciarono, così, a non essere più convinti della sua leadership e a guardare a me con un certo interesse. Nacque, in questo modo, una rivalità che risolvemmo con una scazzottata, come avveniva nei film di John Waine. Io, per la verità, ero contrario alla violenza perché i miei avevano fatto di me un timorato di Dio, mandandomi sin dall’asilo presso monache e preti, ma ci fui tirato per i capelli quando, di fronte a un mio ennesimo rifiuto, Guido, uno della banda, mi disse che ero una checca. Feci in modo che lo diventasse lui sferrandogli un calcio nelle palle e, poi, accettai la sfida. Ci picchiammo rompendoci labbra e naso. Alla comparsa del sangue,però, ci guardammo negli occhi e assalimmo gli altri componenti della gang che assistevano compiaciuti alla nostra macellazione. Li stendemmo tutti e divenimmo amici.
-Nanni del cazzo! - ruggii.
Il nome Nanni mi fa andare in bestia. Si chiamava così un giovane gay degli anni ’60. Biondo e sculettante, si aggirava in Piazza Umberto invitando noi ragazzi (non eravamo che monelli di una dozzina d’anni) a seguirlo nei vecchi portoni delle case diroccate dalla guerra. Lo seguivamo. Nanni scendeva le scale che portavano ai rifugi della II Guerra Mondiale e, giunto nel luogo che riteneva più opportuno, si calava i pantaloni. Solo allora, sghignazzando, lo deridevamo gridandogli dietro culattone, e scappavamo facendo le scale a quattro a quattro. Divenuti più grandi, eravamo noi a prendere l’iniziativa. Nanni, che ormai ci conosceva bene, ci percuoteva le orecchie con una serie di imprecazioni che avrebbe scandalizzato anche la più vecchia maitresse della città, apprese quando accompagnava il papà al porto, dove il pover’uomo faticava come un matto a scaricare balle pesanti quintali. Nanni, allora, era un bel ragazzetto di 17 anni, biondo, esile, dai lineamenti delicati, con due occhioni azzurri che ispiravano tenerezza.
La scoperta del sesso dovette essere necessariamente traumatica se fu uno scaricatore del porto, Brutus (così detto per la terribile somiglianza con il rivale di Bracciodiferro) a violentarlo nella cambusa di una nave militare americana sotto gli occhi divertiti di quattro marines ubriachi.
La storia che circola per la nostra città non si limita a queste poche, squallide notizie, ma, man mano, si è arricchita di varie altre sfumature. Si narra, infatti, che Nanni piangesse per molti giorni e che non avesse rivelato ad alcuno i motivi della sua disperazione. Solamente la madre, Elvira, riuscì a vincere la reticenza del figlio con la promessa di un giro sulla ruota panoramica del Luna park. Il padre no. Era morto qualche mese prima, la sera del 2 dicembre del 1943, nelle acque del lungomare di Bari, col ventre squarciato dal frammento di una bomba tedesca lanciata da un bombardiere Ju-88. Il suo corpo galleggiò in prossimità della riva per tutta la notte, prima che due volontari lo riportassero a terra ormai dissanguato e coperto dalle terribili vesciche dell’iprite, un gas letale di cui era imbottita la stiva della nave americana John Harvey. Quella notte persero la vita più di mille persone, di cui circa trecento civili baresi. Quel tragico episodio di guerra oggi è ricordato come la seconda Pearl Harbor, in cui le forze alleate di stanza a Bari persero 17 navi e 700 di soldati. Fu il più grave fatto di guerra chimica verificatosi nel secondo conflitto mondiale.
Elvira, armata di coltello, si recò al porto.
Brutus era lì, a ridere della sua prodezza, quando sentì la punta dell’arma pungergli il collo all’altezza della giugulare. La donna non cercava stupide parole di scusa: esigeva che Brutus riparasse in via definitiva al suo errore esaudendo la richiesta del figlio. Il manovale accettò pur di aver salva la vita. Fu così che Nanni si trasferì da Brutus con cui convisse per circa vent’anni.
Beh, cazzo, ditemi se non era logico che non mi andasse di essere chiamato Nanni!
Riprendendo un gioco che facevamo da bambini, gli risposi: Oreste, amico di Gargiulo, se lo prende sempre in …
Rise: -Va bene, dimmi cosa vuoi.
Gli raccontai in breve del titolo di laurea di Minchiuzzi, della facoltà e della valutazione.
Rise ancora: Ma mi vuoi prendere per il culo?
-No, è vero… c’è tanto di timbro e firma del rettore dell’Università.
La pausa che seguì era il segno che Oreste stava mandando il fumo al cielo.
-Hai detto Minchiuzzi … e il nome?
-Egidio.
-Quando è nato?
-Non lo so, ma posso informarmi…
-Non fa nulla, ci penso io. Dammi un po’ di tempo.
-Quanto tempo!?
-Beh, il tempo di finire il caffè e tornare in ufficio.
-Ho capito, ti telefono tra un paio d’ore.
-Non dire stronzate, ti chiamo io tra un’ora circa.
-D’accordo.
-Ciao.
-Ciao.
Come immaginavo, mi telefonò dopo due ore. Il brusio che proveniva dalla cornetta con voci sovrapposte, risate soffocate e chiacchiericcio di tazzine che si baciavano con cucchiaini metallici mi impediva di distinguere chi fosse il mio interlocutore, poi, finalmente, la voce di Oreste divenne riconoscibile:
- Hello, Nan … Nik?
-Si, dimmi!- e schiacciai una zanzara che si era posata sul mio braccio scoperto, decisa a trasfondersi il mio sangue.
- Allora, non è laureato in Scienze Apolitiche. Quel diploma di laurea è stato annullato quaranta anni fa per un errore macroscopico della stamperia. Il tuo Minchiuzzi è laureato dal 1971 in Scienze Chimiche con 90 su 110. Il diploma originale non è stato mai ritirato, giace ancora negli archivi dell’Università. Ha solo ritirato alcuni certificati di laurea agli inizi degli anni ’80. Non farne parola con altri, però…è segreto d’ufficio. Se si viene a sapere che ti ho informato mi fai passare dei guai per la privacy.
-Sta’ tranquillo, sarò muto come uno che ha tutto un bigné in bocca.
-D’accordo, ti basta?
Mi grattai la testa: Sì, grazie.
-Grazie un corno, mi devi un favore! Uno di questi giorni verrò da te a scroccarti un paio di quei gelati di caffè che fai con quella macchina meravigliosa. Anzi, penso che verrò a prendermi la macchina.
- Stronzo, è il manico che conta!
II suono gutturale che emette quando distorce le labbra e digrigna i denti mi indicò che aveva sorriso.
Minchiuzzi è il re dei chiavici. Ancora una volta s’era preso gioco di noi. Pensai di ripagarlo della stessa moneta.
A scuola chiarii solo che Egidio s’era divertito alle nostre spalle e che la sua laurea, quella vera, in Scienze Chimiche, così come mi aveva assicurato Oreste, consentiva, non si sa per quale arcano motivo, anche l’insegnamento in Genetica.
Un mese dopo, quando Minchiuzzi s’era vantato anche con il guardiano del palazzetto dello Sport , gli operatori ecologici addetti alla raccolta del differenziato e con Rosina, la cagnetta meticcia, mascotte dell’Istituto, di averci gabbati tutti, d’accordo col dirigente amministrativo, escogitai la rappresaglia. Varcai, così, il 20 ottobre, la soglia del nostro istituto fingendo una grande preoccupazione. Egidio era già al bar, in compagnia della solita combriccola con cui consumiamo la colazione mattutina.
-Un caffè maculato e un cornetto- dissi con aria affranta.
Gianni Estroverso, mio alter ego, smorzò il sorriso che gli aleggia sulle labbra ogni volta che mi viene incontro.
-Cosa t’è successo? Mi chiese preoccupato.
- Un’ira di Dio, ecco cosa mi è successo!
-Sarebbe?
-Sarebbe che forse mi sbatteranno fuori della scuola senza pagarmi un cavolo, anzi rifondendo l’Amministrazione.
-Comeee?- chiesero il preside e Minchiuzzi.
- Si, pare che per i laureati del 1970 al ‘73 sia sorta un’inchiesta sulla validità del titolo di studio… altro che la stronzata della laurea in Scienze Apolitiche- dissi guardando in cagnesco il genetico.
-Come sarebbe?- intervenne il preside restando con la tazzina del caffè a mezz’aria.
- Sapete certamente dello scandalo che è sorto per l’ammissione alla facoltà di medicina…
-E che centra?-m’interruppe Porfido.
-Mi lasci finire, preside. Come dicevo, i test d’ammissione alla facoltà erano contraffatti per la collusione di alcuni docenti universitari con studenti e personale ausiliario. L’inchiesta, per un Gip arrivista e che non sa farsi i cavoli suoi, si è allargata a macchia d’olio. Le indagini hanno coinvolto tutte le facoltà, andando a ritroso nel tempo, sino agli anni ’60. E’ venuta così alla luce tutta una serie di illegalità compiute negli anni ’70 riguardo i titoli di laurea rilasciati in varie facoltà.
Minchiuzzzi cominciò a agitarsi: Anche la mia?
-Penso di sì, ma come per tante altre. L’indagine ha abbracciato, come ho detto, tutte le facoltà, limitatamente, però, ai primi anni ’70.
-Dici anche i laureati del ’71?
-Caavolo! Se l’arco di tempo è dal ’70 al ’73, cavolo se c’entra il ’71. E’ il mio anno di laurea!
-Anche il mio!
-Egidio, scusa, ma che mi frega! Io sto pensando al mio!
-Dai che è una cazzata, ti vuoi vendicare dello scherzo del mese scorso…
-Tu devi essere matto… vedi se ho voglia di scherzare su un argomento del genere!
-E per… perché tutto que… questo?-balbettò il genetico.
-Ma, che forse hai la coscienza sporca?- intervenne Gianni che aveva cominciato a capire.
Il dirigente amministrativo entrò nel bar e si avvicinò al preside con un foglio protocollato fra le mani. Si appartò in un angolo con Segaioli e confabulò con lui sottovoce guardando di tanto in tanto il buon Minchiuzzi.
Minchiuzzi era sulle spine.
Perché mi guardate, cosa è scritto su quel documento?.
Il preside assunse un’aria grave: Professor Minchiuzzi, venga con me in presidenza.
-Ma cosa succede?-implorò Egidio.
-Stia tranquillo, mi segua in presidenza- confermò Porfido con voce ferma.
Minchiuzzi si appoggiò al bancone: E lui no?- piagnucolò indicando me.
-Lui? No, perché dovrebbe?
-Ma ci siamo laureati tutti due nel ’71-rantolò Minchiuzzi che era ormai al colmo della disperazione.
-Ebbene?
-Ma anche lui potrebbe aver brigato…
Il preside lo interruppe: brigato per cosa? Minchiuzzi cosa mi nasconde?- si accigliò Porfido.
-Veramente… una raccomandazione…
-Stia zitto- lo interrupe ancora una volta Segaioli- le questioni private le discutiamo in separata sede!
Minchiuzzi seguì Porfido a testa bassa in presidenza. Porfido chiuse la porta e ordinò all’ausiliare di servizio di non disturbarlo.
Rimasti soli, Gianni sbottò in una risata e mi disse che mi aveva sgamato.
Portammo via di peso l’ausiliario di guardia alla porta di Porfido e origliammo.
Minchiuzzi balbettava, pregava, si difendeva, incolpava, imprecava. Ad un certo punto lo sentimmo invocare Allah. Venne fuori come un ossesso: brandiva il fermacarte di bronzo di Porfido. Intuii le sue intenzioni e mi detti alla fuga. Quel minchione di Porfido non gliela aveva fatta a portare a termine lo scherzo, nonostante il dirigente amministrativo gli avesse chiesto di tenere il prof di genetica sulla corda sino al giorno successivo.
Egidio non mi parlò per una settimana, ma quando gli proposi, tenendomi a debita distanza, di riappacificarci davanti ad una buona cena nel miglior ristorante della città, si acquetò.
Con Gianni e Porfido lo prelevai da casa sua la sera successiva e ci recammo al Sorso Preferito, gestito da un mio ex alunno. La cena fu a base di antipasto ai frutti di mare, linguine alle vongole, aragosta al vapore, frittura mista,vini di alta qualità, frutta di stagione, dolce, sorbetto, caffè e ammazzacaffè. Sazi, Porfido, Gianni ed io ci allontanammo per fumare una sigaretta. Egidio preferì attenderci nell’interno del locale dove un cantante di strada aveva appena intonato “O sole mio”. Sul momento ci venne di giocargli un altro tiro mancino. Ce ne andammo. Il giorno dopo, stranamente non incazzato, ci disse che aveva scucito 300€ più una lauta mancia ai camerieri. Minchiuzzi è fatto così… per questo è mio amico.
tratto da Homosex - Si vive di solo pane di natalino lattanzi

venerdì 18 luglio 2008

I gemelli

PARIDE DEGLI ALBALONGA

Seduto a capotavola, impettito e sicuro, Paride si alzò ed andò verso gli ospiti con la mano tesa.
Sebbene scettici, gli stringemmo le cinque dita.
Enea, invece, si tenne distante.
Il primario, che attendeva proprio lui, non appena notò l’indifferenza dell'ossario, gli andò in contro e, inaspettatamente, lo abbracciò.
Enea, indeciso sul da farsi, lo guardò stranito.
Il primario, a sua volta, lo guardò fissamente negli occhi e poi esclamò con voce rotta dall’emozione:
“Abbracciami, fratello mio!”.
A quel punto il Priamoide, con le lacrime che gli scendevano copiose lo strinse in una morsa stritolaossa.
Tutti quanti noi ci aspettavamo che un fiume di parole, di ricordi, di domande affiorasse dopo il riconoscimento inaspettato, ma invece, i due fratelli si sedettero e continuarono a fissarsi negli occhi con un sorriso ebete che deformava i loro lineamenti.
“Embeh?- sbottai io per rompere il silenzio- embeh?- ripetei.
Fu il primario a prendere la parola, dopo una breve consultazione con il fratello.
“Come avrete ormai capito, Enea aveva visto giusto: io sono suo fratello”.
“Bella scoperta – intervenne Gianni- non siamo poi ciechi!”.
“E sì, avete ragione… ma, vedete, non è stato così semplice per me accettare il ritrovamento di mio fratello, di cui sapevo tutto, che sapevo ignorasse dove fossi, se fossi ancora in vita, cosa facessi. A lui era stato detto che ero stato affidato ad alcuni parenti che erano emigrati in Tripolitania, dopo che nostra madre aveva deciso che due neonati erano troppo per lei che non avrebbe più potuto giocare a Baccarà con tutte due le braccia occupate a tenere i bimbi. Nostra madre, Ecuba Daunia in Priamoide, convinse, così, nostro padre a dare in adozione ad un ramo della famiglia, gli Albalonga, quello di noi due sembrava più gracile.
Conobbi, dunque, i miei genitori adottivi e non quelli veri. Quando, nella maggiore età, mi fu rivelata la mia vera estrazione, provai un odio feroce verso tutti i componenti della mia famiglia d’origine. Aver incontrato Enea mi ha scioccato. Mi sono visto in uno specchio ed ho odiato la mia immagine. Poi ho riflettuto, ho capito che mio fratello era all’oscuro dei fatti, che gli avevano nascosto la verità, tale era lo stupore nei suo sguardo quando ha incrociato il mio. Dopo una breve pausa di riflessione nel mio studio, ho stabilito che non era giusto soffocare nell’odio il richiamo del sangue ed ho deciso di rivelare la mia vera identità”.
Enea era in deliquio; ascoltava rapito il fratello e lo fissava adorante, lui che era un pezzo di marmo di fronte ai casi della vita, una roccia cui appoggiarsi nel momento del bisogno, una stalagmite pronta a perforarti il posteriore se solo gliene fosse capitata l’occasione.
Non appena Paride terminò il soliloquio, l’ortopedico riprese il controllo di sé e chiese di poter esporre i fatti come li avevano raccontati a lui.
Noi eravamo come in un teatro, in una rappresentazione pirandelliana, pronti a commuoverci o sganasciarci dalle risa, avidi di giungere alla fine della commedia, sperando nel lieto fine o nella tragedia totale e assoluta.
La fine ormai sembrava scontata, ma i colpi di scena certamente non erano stati tutti rappresentati. Un applauso frenetico fu il segno che eravamo ansiosi che il “pius” ci mostrasse l’altra faccia della stessa medaglia.
“E’ vero, nostra madre- cominciò il nostro- aveva una grande passione per il Baccarà, ma anche per il baccalà. Io non ho mai saputo quale delle due passioni avesse il sopravvento nella sua psiche. Personalmente, sulla base di alcune indagini che ho svolto col mio professore di “patologia animale”, penso che prediligesse il baccalà e che tutta la storia abbia tratto origine da questa insania. E’ inutile dire che a me era stato riferito da zia Serafina che sì ero uno di due gemelli omozigoti, ma che il primo nato era morto poco dopo la nascita. Zio Romualdo, invece, mi raccontò che mio fratello era stato rapito dagli zingari e che era stato portato in Tripolitania; altri mi dissero che poi se ne erano perse le tracce. Io optai per l’ultima versione. Nostra madre non ne parlava mai e, cosa strana, ogni volta che le chiedevo di mio fratello lei correva dal pizzicagnolo e comprava del baccalà. Compresi che vi era un nesso freudiano fra il baccalà e mio fratello. No, Paride, non fraintendermi – s’interruppe Enea che aveva colto lo sguardo torvo del gemello- non volevo assimilarti al baccalà. Sempre zia Serafina, in una malinconica notte di pioggia, mentre eravamo tutti due svegli per il fragore dei tuoni, mi aveva svelato il segreto: mia madre aveva costretto mio padre a “dare via” il gemello perché era un doppione. Nostro padre era un debole, si mordicchiava le unghie se non aveva a potata di mano un ciuccio da succhiare; usava il pannolone per una fastidiosa incontinenza che lo affliggeva sin dalla nascita, spesso era in analisi per alcuni raptus omosessuali che si evidenziavano in particolare di domenica, quando si recava ad assistere alla funzione religiosa in abiti da donna per far colpo sul parroco ecc…ecc…
Per non tediarvi: il segreto confidatomi da zia Serafina non era completo, mancava la parte più importante che ho reticenza a confidarvi.
“Non ci far stare sulle spine, – supplicò la Tontak- è una bellissima telenovela!”.
”Dovrò prima consultare mio fratello: è un fatto di famiglia…”- sospirò Enea.
Enea e Paride si appartarono.
Noi ne approfittammo per dar fondo agli antipasti ai frutti di mare, alle bruschette, ai salumi che profumavano di Calabria e di Emilia Romagna, alle saporite “boscaiole” ricche di funghi prataioli colti di fresco.
Di bevande neppure l’ombra.
Un ruggito provocò colpi di tosse a ripetizione tra noi che sbafavamo a piene ganasce: “No! Io, un Albalonga, figlio di…”.
“ Paride, non dire cazzate, siamo nella stessa barca … e non urlare –lo frenò Enea- devi prendere coscienza della realtà… via, siamo due figli di troia!
“Ma un figlio di troia con la t maiuscola o minuscola?”- interrogò la voce affranta del primario.
“Minuscola, minuscola – sussurrò Enea- tanto è uguale se non lo scrivi…”.
“Ma sei sicuro, il pizzicagnolo?”.
“Si, ne sono sicuro! …e per giunta si chiamava Achille!”:
“Cacchio, un greco!”.
“Sì, ma un eroe!”.
“Va be’, ho capito…”.
“Lasciamo tutto nel vago”.
“D’accordo, nel vago…”.



IL CONVIVIO

Paride ed Enea tornarono da noi bisbigliando .
La Tontak, fedele alla tradizione che la vuole disponibile e generosa, fingendo di non aver ascoltato la conversazione tra i due gemelli, si fece portavoce del Benpensante pensiero e disse che, poiché si trattava di fatti di famiglia, era bene che non ne fossimo messi a conoscenza.
I gemelli, invece, con estrema disinvoltura, ci raccontarono una storia di famiglie legate al fondamentalismo catto-islamico-buddista, di cui, per la nostra sicurezza, non ci avrebbero rivelato le identità, visto il particolare momento politico.
Così, secondo loro, ci lasciarono nel vago: noi glielo lasciammo credere.
Uno stuolo d’infermieri, incuranti delle proteste dei degenti che scampanellavano come cento chierici durante una messa cantata, affollarono il refettorio e portarono vassoi colmi di ogni ben di Dio.
Ma di bevande neppure l’ombra.
Gianni, che frattanto aveva ingurgitato un’infinità di salame piccante, con la gola che somigliava ad un rosso estintore fuori uso, implorò che gli si portasse un bicchiere di acqua minerale.
Paride di Albalonga fu irremovibile: niente bevande se non a pagamento.
Ci spiegò, poi, confidenzialmente, che se il cibo era possibile sottrarlo alle ricche dispense dell’Ospedale, riservate ai “baroni” universitari, le bevande no… quelle erano gestite dal suo aiuto che le vendeva, sottobanco, nella fiaschetteria del suocero, per consentire alla moglie, un otre di oltre centocinquanta kg, di ricorrere alle cure dei più famosi dietologi.
Rassegnati, cavammo dai portamonete tutti gli euro di cui disponevamo e ordinammo Cocacola, limonate, ginger, vini bianchi e rossi, Whisky, Rhum e Vodka e, per ultimi il caffè e l’ammazzacaffè, un Jak Daniel.
Ovviamente Paride non cacciò neppure un cent, mentre noi ci dissanguammo.
L’atmosfera fu decisamente cordiale grazie all’alcool che circola a velocità stratosferica nelle nostre arterie.
Il primario, in vena di confidenze, ci parlò di una relazione intrattenuta con una dottoressa del suo reparto che gli aveva dato un figlio, a cui aveva imposto il nome di Enea, ma che non aveva impalmato perché di bassa estrazione sociale.
L’ortopedico si commosse, abbracciò il fratello e si disse impaziente di conoscere il nipote; poi, cambiando immediatamente discorso, ci confessò di aver conosciuto intimamente una podista sterile che non gli aveva neppure dato la soddisfazione di un aborto.
La Tontak gli lanciò uno sguardo tenero, dolce e appassionato.
Paride, a cui non era sfuggito l’interesse che Lucia (la polonica, per intenderci) mostrava per il fratello, la convinse a cambiare posto e a sedersi accanto ad Enea.
Enea… Enea è un duro, passionalmente di parte, ma duro. Il suo cinismo sfiora il mio e ciò contribuisce a legarci di un’amicizia vera, robusta e incorruttibile. Ha solo qualche anno più di me, ma spesso assume un atteggiamento paterno, di protezione, perché, nonostante la mia ruvidezza, pensa che io sia un indifeso, un ingenuo, un puro.
Sono abituato a scorgere nei suoi occhi il “Lancillotto” che difende la sua Ginevra (non fraintendetemi!!!), ma che si sciogliesse per uno sguardo femminile proprio no!
Carezzevole, sfiorò la guancia della prof e le dichiarò la sua simpatia, non priva di una forte attrazione fisica (il suo pragmatismo non ha confini).
La Tontak gli prese una mano e la strinse fra le sue ad esplicitare la reciprocità dei sentimenti.
Esterrefatto li vidi tubare come due gazze ladre e tuffai il viso nel piatto di spaghetti ai frutti di mare che avevo d’avanti.
Il profumo mi inebriò e dimenticai il luogo, il tempo e il perché fossi lì.
Il feeling che c’è tra me e i frutti di mare, molluschi e crostacei in particolare, ma pure di qualsivoglia tipo e genere, è qualcosa di atavico, d’istintivo, di primordiale: io cerco loro e loro cercano me.
C’incontriamo quotidianamente, senza testimoni, senza un cavolo di limone che possa intromettersi, snaturare il nostro rapporto, il cannibalismo ancestrale che regola il ciclo biologico universale.
E’ una cerimonia, uno sposalizio che celebriamo sottovoce, con le papille gustative che ci avvolgono in un abbraccio paradisiaco, senza rimpianti di sorta, senza turbamenti. Un silenzio religioso, rotto soltanto dal lieve sfregamento del coltello contro la ruvida scorza, mentre le valve si aprono voluttuose, roride di acqua marina ad invitarmi a coglierne il frutto, dà il segno che l’atto sacrificale non ci sconvolge, ma ci affascina, ci coinvolge, esalta i nostri sensi e diveniamo dannunzianamente un tutt’uno: io in loro, loro in me, lavati dall’umore salato che penetra le nostre cellule, i nostri atomi indistinti, la nostra spirituale visione dell’origine della vita. Il patto che ci unisce è nel mio testamento: così come io, in vita, ho ospitato nel mio corpo questi meravigliosi esseri marini, così loro ospiteranno me, quando le mie ceneri rientreranno nella placenta della terra, cibo prediletto dei miei figli adottivi.
Ero perso in questi pensieri quando Minchiuzzi, il mio “grillo parlante”, mi richiamò alla realtà:
“Cacchio fai? – mi disse- stai raschiando il fondo del piatto!”.
Gli sguardi dei presenti erano tutti schifosamente appiccicati sul piatto che io, disinvoltamente cullavo e baciavo, come fosse un neonato.
Mi vergognai sin nell’imo del cavallo, ma spudoratamente mi giustificai dicendo che stavo saggiando la qualità della porcellana che aveva ospitato i miei cento grammi di spaghetti.
Non convinsi neppure la formica solitaria che, nel tentativo di portare a casa le minuscole briciole del desinare, attraversava il largo ventre di Panzicelli: l’imenottero si fermò, mi fissò per un attimo, scosse le antenne e riprese lentamente il cammino.
Ofelia, la traditrice, che aveva assistito alla scena sogghignando e dando di gomito a Gianni, assuefatta com’era alle mie stranezze quando degusto il mio alimento preferito, mi porse un tovagliolo di carta e mi invitò a non dire “quizzate”; poi, “coram populo”, tra le “sganasciate” generali, raccontò di altre mie particolari abitudini fregandosene del disagio crescente in cui sprofondava il mio “ego”.
Quando si stancò di novellare le sue caviglie erano tumefatte e gonfie.
Voi mi conoscete: sono buono e caro, ma quando me le fanno girare divento cattivo e vendicativo.
Il nostro “convivio” divenne un “decameron”:
In breve ciascuno dei convitati vide spiattellati i fatti più intimi di cui ero stato testimone, senza censura alcuna, ma con dovizia di particolari, ricchezza espressiva, linguaggio appropriato, aderenza alla traccia e forma discorsiva congrua ed esaustiva.
Fregandomene dei vari “ma lasciamo perdere…”, “non fare così…”, “dai, non è il caso…”, “ ma sei proprio stronzo!…”, andai a “ruota libera” con grande insoddisfazione dei presenti. Quando terminai, i pellerossa, pitturati con i colori di guerra, sarebbero sembrati ai pavidi pionieri meno feroci e pericolosi dei miei amici.
Paride, l’unico che avevo risparmiato per mancanza d’informazioni, cercò di riportare serenità ricordandoci che eravamo seri professionisti, padri di famiglia, madri attente all’educazione della prole e che non potevamo permetterci di mandarci a “fanculo” come dei miseri plebei.
Colpiti nella propria dignità, assumemmo un’aria mortificata e promettemmo che mai più avremmo assunto un atteggiamento tale da confonderci coi miserabili servi della gleba.
Vinto, così, l’imbarazzo iniziale, ciascuno di noi dedicò le proprie attenzioni al collega dell’altro sesso più disponibile a subire il fascino dell’attrazione fisica, del richiamo della foresta, dell’urlo dei sensi inebriati dal nettare a pagamento.
In breve, dopo l’abbuffata, la tavolata si spopolò e le stanze libere e non del reparto cantarono sinfonie metalliche con sottofondo di gemiti appena soffocati.
Ofelia ed io preferimmo tornarcene in albergo dove, con piena soddisfazione di ambedue, sperimentammo nuove performances.
Quando l’eros sprofondò sotto i talloni, ci addormentammo.

tratto da Homosex-Si vive di solo pane e Noi del Benpensante di natalino lattanzi

Il Buco

IL BUCO
La mia residenza estiva (il “buco”, per intenderci) è ricavata in un'ala di un vecchio castello ristrutturato, situato nella periferia del centro storico del mediterraneo paesino che mi ospita. Costeggia il mare.
Purtroppo (ma forse no, dopo tutto), il resto del castello è di proprietà di ben cinque famiglie rumorose, pettegole e rompiscatole, a me affezionate.
E’ inutile che vi dica che uno dei lotti è occupato dal mio inseparabile dott. Enea Priamoide.
Nei saloni del castello, nei tempi andati, bizantini, saraceni e francesi gozzovigliarono, dando sfogo, in preda al vino genuino delle nostre parti, ai loro "medio-bassi" istinti, le cui tracce sono ancora visibili nelle segrete, non più segrete da quando una traccia di umidità sul pavimento della cantina ne ha rivelato l'esistenza.
Asce, fruste, coltelli, scimitarre e pugnali, stendi ossa e fornaci annerite dall'uso frequente mostrano in tutto il loro splendore il sapore d'antico che traspira con l'umido della terra battuta.
Non nascondo che quando sono "incazzato" contro qualcuno mi rifugio in quegli antri bui e severi a rimuginare vendette e olocausti.
Il trentuno agosto, quando idraulici e urologi, meccanici e ortopedici, operatori ecologici ed enterologi, dentisti e autodemolitori, chirurghi e macellai, avvocati e secondini, ingegneri e muratori erano ancora sotto l’ombrellone a gustare gli ultimi sprazzi di sole e di libertà, Ofelia ed io eravamo chiusi nel mio ripostiglio- studio, ricavato da uno dei locali sotterranei, a cercare di buttare giù quella che sarebbe dovuta essere la colonna vertebrale dell’orario del nuovo anno scolastico, anticipando la richiesta del preside.
Sudammo come pazzi nel tentativo di assemblarci un orario uguale, ma alla fine i nostri sforzi trovarono la loro significazione: lunedì prime tre ore; martedì ultime tre; mercoledì prime due; giovedì ultime cinque, con un’ora di disposizione centrale per eventuale caffè; venerdì idem come sopra; sabato libero.
Il mio cellulare ad un tratto squillò.
La voce di Cassandra, petente e rogante, mi proponeva di sostituirmi alla sua famiglia, scomparsa nei flutti marini vent'anni prima per una gita andata assai male, e di farle da fratello, padre, zio e nonno in occasione della venuta di Ulrico, desideroso di infognarsi in un nuovo matrimonio.
Feci presente alla collega che la presenza di Ofelia le avrebbe garantito anche una sorella, una madre, una zia ed una nonna oltre che l'ospitalità nel mio "albergaccio".
Cassandra, pimpante come un ferragosto bagnato da una pioggerellina rinfrescante, accettò entusiasta.
Felici come due vigilie di Pasqua, Ofelia ed io facemmo una doccia fredda, mica tanto veloce, alternando giochi infantili ad altri ben più piacevoli, accompagnati dalla riprovazione per nulla silenziosa di Sarcinella, che spiandoci dal finestrino che dà nel “bagno” ci apostrofava con epiteti che è meglio non riferire.
La tavernetta riluceva di palloncini fluorescenti incollati al soffitto dall’ossigeno che li gonfiava, in perfetta sintonia con ciò che pensavo del mio amico “made in Deutchland”.
Candelieri d’argento e in silver illuminavano strategicamente i quattro angoli del locale, mettendo in risalto un grande tavolo ricoperto da una tovaglia allegramente variopinta e circondato da innumerevoli festoni colorati.
Antipasti di ogni genere, invece, erano poggiati su di un lungo buffet e troneggiavano risvegliando l’atavico istinto predatore del buon Knut, che con la bava alla bocca e la lingua penzoloni, di tanto in tanto si contorceva leccandosi i baffi e bagnandosi la pancia nella pozza di saliva che si allargava sempre più sul pavimento.
Nell’angolo mancino della parete opposta alla porta di ingresso della tavernetta, racchiuso in una nicchia, il mio vecchio pianoforte faceva mostra di sé in compagnia di una delle innumerevoli chitarre che uno dei miei otto fratelli, Vitulio (il “santo” per i parenti e gli amici), lascia presso di me, per assordarmi, quelle rare volte che viene, con il ritmo sfrenato della musica Jazz e del Rock and Roll.
Sul lato destro, in alto, era ben visibile un cesto di basket ( con cui mi alleno quando mi accorgo che è tempo di smaltire un po’ di grasso superfluo); la parete opposta, quella d'ingresso, invece, era parzialmente coperta, vicino la porta, da una sagoma per tiro al bersaglio, due carabine e due revolver ad aria compressa, che utilizzo di tanto in tanto, per essere pronto ad ogni eventualità.
In accappatoio e con i capelli ancora bagnati, Ofelia ed io ci sedemmo, vicini, su uno dei lunghi scanni di tipo francescano, che attorniano il tavolo dello stesso stile.
In quel momento fece il suo ingresso Cassandra con una coppa fumante colma di risotto ai funghi. Non appena ci scorse, conciati come se fossimo in una sauna tailandese, s’incavolò di brutto e ci spedì, di corsa, a rivestirci in modo consono alla circostanza.
“Siete due bastardi!” ci disse fra il serio ed il faceto.
Sghignazzando e borbottando allo stesso tempo, obbedimmo.
Non appena in camera mia, tirai fuori un sospensore e uno slip donatimi da Ulrico e l’indossai; tolsi dal “Foppa-Pedretti” un pantalone beige e una camicia a quadratini bianchi e rossi, spolverai un paio di stivaletti in pelle bordeaux e raccolsi un bandana sul verde penicillina dall’ultimo cassetto della scrivania. Accesi un sigaro avana, pregiato, ma ugualmente puzzolente e, così conciato, con fare texano, ridiscesi nella tavernetta.
Ofelia, invece, aveva indossato un abito che pareva “fine ottocento”, con trine e pizzi che venivano fuori da ogni parte, ma che, per ammissione della Ognimmorti, era adatto alla circostanza. Cassandra, infatti, lodò la scelta della Bonelli e guardò me con la solita aria che assume durante i "Consigli di classe" quando mi estraneo dal resto del mondo e vado dietro i miei pensieri. Allora, sì, vuol mandarmi a “quel paese”.
Per non farla innervosire più di quanto già lo fosse, misi via bandana e sigaro e tirai giù le maniche della camicia.


EPILOGO?
Lo squillo del campanello annunciò la venuta di Ulrico.
Era vestito di tutto punto: abito blu, camicia celestina, cravatta a fasce trasversali e sottili blu e rosse, scarpe leggere, di foggia inglese, nere. Era sudato in modo indicibile, con i capelli che mandavano giù per il volto, il collo, le spalle, il torace e oltre, acqua e gelatina. Le sue mani, quando strinse le nostre, sembravano due canovacci intrisi di detersivo liquido, tanto erano umide e scivolose.
Faceva tanta pena da far dimenticare tutte le “pene” di cui, sia pur inconsapevolmente, era stato causa.
Persino Knut, che non aveva mai mostrato molta simpatia per il “connazionale”, invece di aggredirlo a morsi e ringhiate, lo guardò con estrema compassione.
“Ch-vesta eshtate è lunca e focozizzima”- esordì Ulrico toccandosi il nodo della cravatta e girando il collo da destra verso sinistra, quasi volesse liberarsi del nodo scorsoio; poi, resosi conto che eravamo rimasti scioccati alla sua umida apparizione, pensando di non essere gradito continuò con tono di scusa, rivolgendosi a me: “ tua crrrande amica, mia dolce Cassandra ha detto essere qui crrande zorpresa per me...”
Capii di non essere stato molto ospitale col mio silenzio, per cui mi scossi dal torpore e lo invitai ad entrare, mentre il cielo si illuminava della luce dei lampi.
Il brontolio dei tuoni lontani accompagnò il teutone nel tinello.
Knut, intanto, cominciava ad innervosirsi per la tempesta che si avvicinava, correndo su e giù per i corridoi e abbaiando in risposta ai rumori della forza della natura.
Cassandra, ultimati i preparativi, ci raggiunse proprio nello stesso istante in cui cominciavamo, con il nostro ospite, a scendere la scalinata che porta alla tavernetta.
Il suo abito lungo e nero, appena scollato, i capelli neri sciolti sulle spalle, le labbra tinte di un verde melanzana, la collana di perle nere, come gli orecchini e l’anello che portava all’anulare destro e gli eleganti sandali, anch’essi neri, a tacco alto, le davano un aspetto tetro, da “vedova nera” (scusate se insisto), pronta a sacrificare sull’altare la vittima prescelta.
Confesso di essere superstizioso, per cui immediatamente mi toccai per gli scongiuri del caso.
“Maine piccola Hitler!- esclamò, invece, commosso ed entusiasta Ulrich il barbaro- maine dolce SS, stupehenda reincarnazzzioone di Efa Braun, maine ariana pruna, fera fig-lia della crrande Orope tetescha!...”
Scosso da singulti di riso che trattenevo a stento, guardai le due donne con fare interrogativo e frenai la prolissità dell’unno senza manifestare i miei più intimi pensieri; poi, per non sembrare scortese, detti una poderosa pacca sulle spalle del nostalgico, segno di benevola amicizia, e lo spinsi verso una sedia stile dogi, che Cassandra gli aveva riservato.
“Main Goth!- reagì Ulrico, battendosi il petto, tossendo e sputando per la saliva di traverso che gli impediva la respirazione.
Non so se vi ho detto quanto sia giocherellone Knut. Insieme facciamo il gioco della lotta, per insegnargli il comportamento da tenere in caso di aggressione al padrone: io con schiaffi, pugni e calci negli zebedei, lui con morsi ovunque capitino.
Beh! pensò che fosse giunto il momento ludico-didattico con un nuovo compagno che, evidentemente, aveva assunto il ruolo dell’aggressore.
Ringhiando e agitando furiosamente la coda, si scagliò, a peso morto, sul povero Ulrico. Sebbene gli urlassi di fermarsi, gli addentò il braccio destro, strappandogli il bell’abito nuovo di zecca, lo trascinò per terra, lo immobilizzò col suo enorme peso e gli afferrò la gola tra le fauci, come aveva visto fare in un film da un cane scapocchione come lui.
Von Peethoven, inebetito dall’assalto, sporco di saliva, lacero, contuso, in lacrime quasi, non potendo utilizzare le sue corde vocali, paralizzate dalla morsa di Knut, con gli occhi supplici, chiedeva aiuto.
La Bonelli, che come Ulrico non conosce l’intima indole gioiosa di Knut, urlava spaventata di fare qualcosa per salvare il pover’uomo.
Io, al contrario, tranquillissimo, poiché so che il mio cane, per sbranare gli indesiderati, ha bisogno del comando, detto con tono secco e imperioso: “squarta!”, lasciai che Knut desse libero sfogo all’inesauribile energia di cui è dotato. Quando mi accorsi, però, che Ulrico era lì lì per soffocare , biascicai: “molla!”e liberai lo straniero.
La Bonelli scandalizzata dal mio atteggiamento, dopo avermi etichettato barbaro e sadico, salì di corsa le scale che conducono al piano superiore e aprì la porta per andare via.
Aveva, però, fatto i conti senza Enea e tutti gli altri condomini del palazzaccio che, come avvoltoi, erano tutti dietro il nostro ingresso, attirartidall’abbaiare furibondo del mio cucciolone e dalle urla stridule di Ofelia. Come un fiume in piena, travolsero la mia collega, respingendola in casa, e affollarono il tinello circondandoci e subissandoci di domande. Cassandra, intanto, pallida come un bianco di uovo sodo, inebetita, come la maggior parte dei parlamentali che affollano le nosre due Camere, senza parole, addossata ad uno stipite, piano piano scivolava verso il pavimento quasi priva di sensi.
La Bonelli, intanto, riappropriatasi dello spirito rivoluzionario che è caratteristica imprescindibile del suo essere, montò sul tavolo e cominciò ad arringare la folla, aizzandola contro di me, colpevole di non saper gestire un mostro (Knut) e di sadismo nei confronti dell’umanità. Ma i miei condomini, allettati da tutto il ben di Dio che vedevano lì, sul buffet, pronto per essere divorato, parteggiavano per noi (Knut ed io, voglio dire), per cui accolsero le sue parole con manifesta disapprovazione, battendo i pugni sul tavolo e i tacchi per terra, sbeffeggiandola e intimandole di smetterla di profanare il suolo che le offriva ospitalità, pena un solenne “mazziata”.
Consapevole del rischio che correva, Ofelia dette una brusca svolta alla sua concione e cominciò a parlare anche dei meriti che avevo acquisito nei suoi confronti, dicendosi pronta non solo a scusare i miei piccoli difetti, ma anche a difendermi con le unghie e con i denti da coloro che approfittavano del mio buon cuore.
L’assemblea rumoreggiò, questa volta favorevolmente; si alzò persino qualche grido “viva la prof”, seguito da qualche timido applauso, poi condiviso da quasi tutti gli astanti. Infervorata dalle sue stesse parole, passò poi a vantare i meriti del proletariato sfruttato dai capitalisti, a lamentarsi dei bassi stipendi degli insegnanti, del costo della vita sempre più esoso, della Sanità e della Previdenza Sociale e della voracità degli industriali come Ulrico, che spolpano sino all’osso le capacità produttive degli operai, senza retribuirne gli straordinari. I condomini, tutti di sinistra, entusiasmati dall’orazione sindacale, dimenticarono me, Cassandra e Knut e, come un sol uomo si unirono in applausi fragorosi e ovazioni indirizzati alla Bonelli.
Enea, che aveva bevuto quasi tutto il contenuto di una bottiglia di brandy, sollevò di peso Ofelia e la portò in trionfo, mentre tutti gli altri guardavano con disprezzo il povero Von Peethoven che, spinto, accompagnato da cori di”buuuh, carogna, sfruttatore, aguzzino, stronzo” e altro che ora mi sfugge, zoppicante, pallido e intimorito, lasciò la mia magione.
Il cielo mandava giù torrenti d’acqua quando il meschino salì a bordo della sua Mercedes, accompagnato dagli ululati di Knut che cercava la luna e dal pianto disperato di Cassandra.

tratto da Homosex- Si vive di solo pane di natalino lattanzi

mercoledì 16 luglio 2008

De Vulgari Eloquentia

“DE VULGARI ELOQUENTIA”

Mi risvegliai, come dicevo, recitando il “Magnificat”.
La Bonelli reggeva una borsa di ghiaccio sul mio capo, imitata da Irene Belfagor che faceva altrettanto con Carlo.
Un bozzo enorme deformava la mia bella fronte spaziosa e mi procurava un mal di testa feroce.
Carlo, al contrario, sembrava rinato.
Non solo non ricordava come fosse finito in astanteria, ma addirittura pensava che non per lui ma per me l’intero collegio del “Benpensante” si fosse trasferito nel reparto psichiatrico del “Fate Bene Cognati”, vecchio e glorioso ospedale, fondato da Bonifacio VIII, poco prima di “trasferirsi” ad Avignone, “ospite” di Filippo il Bello, per farsi curare una fistola anale recidivante.
Sacramentando, gli feci presente che se un pazzo vi era tra noi quello certamente non ero io, ma la sua esimia persona e, offeso, gli girai le spalle e feci per uscire dalla stanza.
Immediatamente Carlo si sottrasse alle cure della sua samaritana e, libero della camicia di forza, corse ad abbracciarmi con una delle sue solite strette che ti incrinano le costole.
Tra vari scricchiolii di ossa lo scusai e mi scusai (insomma, ci salameleccammo) e lo invitai a riaccasciarsi perché le rispettive ci ricoccolassero.
Un fremito improvviso alla colonna montante della mia anatomia e un violento sommovimento intestinale mi spinsero, però, a volare verso il wc..
Mi accoccolai sul water, compressi il capo tra le mani e detti libero sfogo allo shock puteolente che venne espulso tra uno scoscio di applausi tutti interni al mio intestino per nulla riluttante a lasciarsi evacuare.
Impressionata dal fragore, Ofelia bussò alla porta del bagno e si tranquillizzò quando le risposi che finalmente mi ero liberato dagli incubi e che fumavo una rilassante Marlboro Light.
Il mio riposario, la mia stanza prediletta, ovunque mi trovi, il mio pensatoio si ottimizzò col fumo profumato che veniva fuori dalle sigarette che fumavo una dietro l’altra, mentre mi dedicavo alle riflessioni sul nostro essere, persistere, propugnare e pugnare per cose vacue ed effimere come la constatazione della vanità dell’opporsi all’opposizione del muro, l’impiego statale, le sessantanovate goderecce, la vita, la morte, il fumo, l’alcool, le multe prese per non aver voluto raccogliere la cacca di Knut, i sindaci pdellini e pdiessini artefici del dissanguamento dei cinofili, la contestazione di Moretti, il picconatore della dirigenza di sinistra colpevole di aver dato la precedenza a destra, i mori in patria, gli albanesi e gli extracomunitari necessari per il lavoro nero, la raccolta dei pomodori e la manovalanza della “mala”, lo sciopero generale, l’esercito professionistico, l’abolizione della leva, il servizio militare professionistico in terra “straniera”, inventato per incrementare gli introiti della Telecom per le lunghissime telefonate all’144 personalizzato (il numero telefonico della morosa), la giovinezza perduta sgobbando sui libri per uno stipendio di merda, Roma, Regina Coeli, il capitano Movais.
Immediatamente realizzai che eravamo ancora nella “città eterna”, che non avevamo fatto un cacchio di quanto ci eravamo proposti prima della partenza e che ci trovavamo in una clinica psichiatrica.
A simboleggiare la nostra pazzia, la nostra follia, madre matrigna e benevola, sorella di Alzaimer e cugina di Parkinson, era il disegno impossibile di cambiare il costume, tutto italico, di credersi dei padreterno non appena varcate le soglie di Montecitorio con tanto di blasone stampato sul culo.
Terminate le abluzioni di rito, venni fuori dal cagatoio avvolto in una nebbia tutta light che nascondeva le mie fattezze michelangiolesche.
Minchiuzzi, credendomi una apparizione di Allah, si prostrò ai miei piedi, ma fu subito preso a calci nel sedere da Gianni che già altre volte aveva assistito al “miracolo”.
Il rumore delle mandibole che sbattevano contro il pavimento fu seguito dal sibilo della chiostra dentaria di manifattura artigianale che volava sotto l’armadietto metallico in dotazione alle formiche e ai ragni dell’ospedale affinché potessero fornicare lietamente nelle segrete del buio artificiale.
Dopo aver recuperato la dentiera dalle fauci di Knut, comparso all’improvviso sulla scena del delitto, il povero Egidio, graffiato e addentato negli arti e nelle parti nobili del corpo, fu tramortito con un potente calmante, propinatogli dallo “scrollapalle” prontamente accorso, perché, in preda ad un raptus cinocida, agitava contro il “miglior amico dell’uomo” la scimitarra che porta con sé sotto il barracano.
Knut, come suo solito, saltò sul letto e cominciò a lubrificarmi la faccia con la sua abbondante e salivosa saliva, mentre con la coda roteante portava un po’ di refrigerio ad Ofelia che, tutta accaldata, tentava invano di rinfrescarsi con la borsa dell’ex ghiaccio scioltosi al calore delle alitate del mio quadrupede.
Non ebbi la forza d’indagare sul come, quando e perché Knut veleggiasse da quelle parti: mi rassegnai e carezzai i due metri quadrati di cranio del mio cucciolone.
La voce di Priamoide rintoccò per i corridoi della struttura sanitaria come una campana suonata per la Resurrezione ed Enea varcò la soglia della camera di Carlo seguito da uno stuolo di medici che lo ossequiavano come fosse il nuovo messia.
Per nulla stupiti, accettammo la realtà abituati, ormai, alle apparizioni straordinarie dell’ortopedico.
Il “pius”, ci fulminò con lo sguardo fulminante che utilizza quando vuol fulminare, poi, con aria professionale, si avvicinò a Sguizzi, gli pose una mano sulla fronte, ispezionò le tempie ed il cuoio capelluto, fregò la punta del naso, gli martellò le rotule, poggiò l’orecchio sulla spalla abbronzata, gli estorse due respiri profondi, gli strizzò lo scroto con tutto il suo contenuto ormonale, avendone in cambio un calcio nello stinco destro, e profetizzò una rapida guarigione in ambiente familiare senza supporto di alcuna cura psicofarmacosa (non mi guardate schifati: so bene che si dice farmacologia, ma poiché la logica non mi appartiene… non rompetemi i coglioni!).
Tra gli sguardi ammirati dei suoi colleghi, alzò la mano benedicente e andò via senza degnarci di uno sguardo.
I Commentari di Cesare son ben poca cosa raffrontati ai nostri commenti.
Si dice che il generale usasse la terza persona per parlare delle sue gesta e che utilizzasse un eloquio scarno e incisivo nel descrivere avvenimenti e personaggi caduti sotto la sua osservazione.
Beh, noi, utilizzando il”tu”, fummo molto più scarni del dux romano nel mandare benevolmente a fanculo il nostro amico epicureo non appena si presentò a noi nella consueta veste del “pius”.
Gli ricordammo che se Troia aveva dato i natali ai suoi avi, lui era certamente il più degno rappresentante dei figli di Troia tutt’ora esistenti e che eravamo fieri di essere suoi pupilli.
Enea ci guardò stranito, poi dichiarò di non sapere a cosa si riferissero i nostri complimenti.
Più straniti di lui gli raccontammo cosa era accaduto poco prima.
“Alt!- ci disse - ricapitolate! Non capisco un cacchio di ciò che mi dite. Non ero certamente io il primario venuto a visitare Sguizzi”.
“Ma come!- esclamai ridendo- non dire stronzate, ci vuoi prendere per il culo!”.
“No!- urlò Enea- siete voi che volete infinocchiarmi, approfittando del fatto che avrete saputo, non so come, che ho un fratello gemello di cui ho perso le tracce ancora bambino”.
“Ma che cavolo dici?- intervenni piccato- l’unico che avrebbe potuto esserne a conoscenza sarei io, tuo vicino e amico da sempre, ma che non so assolutamente un quiz del tuo gemello”.
“Allora vuoi dire che veramente avete visto il mio alter ego?”.
“Alter che?”- domandò Egidio, ritornando nel mondo dei meno.
Il clone del “pius” fu annunziato dal silenzio tombale che oppresse i corridoi della clinica.
Con passo veloce e sicuro rientrò nella stanza e apostrofò Guizzi ignorando completamente noi che astanteggiavamo: “muova le chiappe e torni a casa, mi occorre la sua stanza!”.
“Paride, sei tu?- bofonchiò Priamoide con voce commossa- sei proprio tu, fratello mio?”.
Il silenzio troneggiò sui nostri volti stupiti, istupiditi, e rigati di lacrime, di rimmel e di fard delle proff. che assistevano alla scena.
Il primario si girò verso il podologo, lo guardò fisso negli occhi, scolorò in viso e: ”porca vacca!”- esclamò tutto d’un fiato- sembra mio fratello gemello!”.
Enea, che non stava più nella pelle per l’emozione, con voce rotta dal riso violento, gli si lanciò contro per abbracciarlo.
Il primario, con una veronica alla Dominguin, lo schivò.
L’armadio metallico emise un gemito metallurgico quando il corpo di Enea gli si spalmò contro.
“Si contenga, signore! –pronunciò con voce severa il primario- non la conosco, non so chi lei sia, non me ne frega un cacchio di chi lei è. Io sono il primario Paride d’Albalonga, nativo di Roma, figlio dei marchesi d’Albalonga, nipote del generale Ippolito d’Albalonga, zio del ministro Osvaldo d’Albalonga, padre di due stupendi gemelli di nome Eurialo e Niso d’Albalonga, in onore di due miei fieri cugini banchieri, morti durante una battuta di caccia per mano di due guardacaccia che li aveva scambiati per bracconieri ”.
Enea a quel punto, piccato, si ricompose e si qualificò.
“Io sono- disse, gonfiando il petto- Enea Priamoide, primario ortopedico dell’Università di Bari, figlio di Troia, nella Daunia, prole di Ilio Priamoide, marchese di Troia, nipote del dott. Astianatte Priamoide, primario veterinario dell’Università di Urbino, zio di Ilione Priamoide, direttore dell’Istituto di Araldica di Castelfranco Veneto, celibe con nutrice a carico”.
“Nobile stirpe, certamente, ma mai coverta”- sibilò il primario dei fuori di testa.
“Mai coverta anche la sua! –si offese il mio amico- ciò non toglie che, purtroppo, ci somigliamo tremendamente…appurerò le sue origini, caro marchese!”.
“Ed io appurerò le sue!”.
La porta si chiuse violentemente alle spalle del mattologo.
Nella stanza il silenzio si tagliava come quelle belle fette di mortadella di puro suino, spesse un cm e profumate da far venire l’acquolina in bocca…
L’abbaiare furioso di Knut ci restituì alla vita.
Guardammo Enea e sbottammo in una risata generale.
“Che cazzo ridete?- ci apostrofò - non immaginate neppure un po’ quanto mi stia sul pisello quel cialtrone!… ma andrò a fondo della questione… Per quello che mi diceva mia zia Andromaca sui vari rami della famiglia, quello stronzo sarà certamente il nipote del cugino di mio nonno. Un montato del cazzo mi sembra…”
“Dai, non te la prendere-lo interruppe Ofelia, che aveva una certa familiarità con il mio amico- che t’importa chi sia?”.
“Che m’importa, dici?…non mene sbatte una mazza!… ma è la prosopopea che mi dà fastidio, la mancanza di educazione, la superbia, la coglionaggine, insomma!”.
La Tontac, che sino allora aveva taciuto, non ne poté più e: “Ma sì, ha ragione Enea,- sbottò- quello è un montato scemo e ha bisogno di una lezione! Marchese di qua, marchese di là…va a vedere che ce l’ha lui il marchese!… che stronzo!…”.
Il sommesso bussare alla porta interruppe le nostre rimostranze, ma scatenò l’ira di Knut che corse furioso alla parta abbaiando come una muta di cani all’inseguimento della volpe in una battuta di caccia.
Gianni, vista la mia impossibilità a trattenere la belva, mi sostituì beccandosi un ‘addentata all’avambraccio.
Sacramentando come un confratello di Ochalan, dette un calcione nelle terga di Knut, che venne da me a chiedere vendetta, e aprì la porta.
Per nulla turbato, un infermiere, smilzo come un grissino, somigliantissimo a Stanlio, il compare di Ollio, con fare riguardoso, si affacciò all’interno della camera e annunciò:
“Il primario, dott., prof., grand’Uff., cav. e comm. della Repubblica italiana, si onora di invitarvi a cena, nel refettorio della clinica, stasera alle diciannove e trenta. Ah, dimenticavo, le bevande sono a vostre spese”.
“Girò i tacchi” e andò via.
tratto da Si Vive di Solo Pane- Noi del Benpensante di natalino lattanzi