martedì 30 settembre 2008

IL LABORATORIO MULTIMEDIALE

La prima volta che misi piede nel primo laboratorio d’informatica mi sembrò di entrare nel mondo delle meraviglie. Io ero, solo per rispettare la favola, Alice, e il coniglio bianco era il tecnico di laboratorio, Osvaldo La Gomma, che tutti per affetto chiamiamo Capitan Uncino, ma di solito solo Uncino per l’odio che nutre per il mondo ittico. I computer erano nuovi di zecca, i monitor erano altrettanti specchi a sfondo nero, le tastiere bacchette magiche che producevano il reale e l’irreale, il mouse il solito topaccio di fogna che percorreva le distanze speculari per inseguire, come pezzi di formaggio, lettere e immagini che correvano sui video. Ma non basta. Persino il pavimento della sala era tirato a lucido con quegli stupendi prodotti chimici che ragazze svestite pubblicizzano sulle nostre televisioni. Ero stupefatto. Pur avendo poche o nulle nozioni d’informatica, mi trasformai in mr. Hide e produssi con i miei alunni decine di CD con progetti sperimentali sull’interland barese. Poi la scuola s’ingrandì, s’ingigantì anzi; non eravamo più io e qualche altro docente di buona volontà a varcare la soglia di quel magico mondo, divenimmo duecento a contendercene il possesso, sia pure temporaneo. C’era un via vai davanti la porta blindata che mai i bagni delle sale cinematografiche quando si proiettava la Corazzata Potyonki hanno annoverato. Le fette maleodoranti infilate in scarpe ginniche 500 € al paio di migliaia di alunni cominciarono a calcare il magnifico pavimento di marmo insozzandolo con il terriccio esterno che ne divenne parte integrante, le tastiere furono pestate da centinaia di migliaia di mani sporche e unte d’olio di focaccine manipolate da Leonzio, il nostro gobbo di Notre Dame, i monitor divennero specchio per le alunne che dovevano rifarsi il trucco, mentre per gli arrapati cronici costituirono il mezzo virtuale per toccare le tette di qualche fanciulla la cui immagine compariva d’incanto a schermo intero; i mouse assunsero il compito di supposte per gli stitici doc. La polvere cominciò, così, ad accumularsi sui banchi, mentre le vetrate furono coperte da chewingum e sabbia, che il vento di Levante porta sino a noi, tanto da trasformare il tutto in una camera oscura.
Incurante dei parassiti, dei batteri e delle piattole, l’altro giorno, precettato Osvaldo, mi sono seduto alla poltrona di comando per sviscerare ciò che la mia diabolica mente aveva partorito circa l’orario del corpo docente. Uncino non era solo. Veleggiava, con lui, Rodolfo Lo Smilzo, il tecnico del secondo laboratorio. C’è da dire che quando i due parlottano tra loro diviene impossibile decifrare una sola parola. Usano un linguaggio primordiale, fatto di suoni gutturali, di strofinate di palle con relativo mugugno di soddisfazione, di masticatura di gomme americane fatte in Cina con licenza italiana, di gesti inconsulti di solito accompagnati da risolini con piega amara e sventolio di fazzoletti di cotone per detergere l’abbondante sudore provocato dal difficoltoso confronto verbale sui rispettivi regni.
M’imbattei in uno di questi momenti. Avrei preferito scaricare la tensione del lungo lavoro da solo, chiuso nella rabbia che si manifesta ogniqualvolta mi si presenta le cahier de lagnance dei miei colleghi, amareggiati dai frequenti buchi che costellano il loro orario. Ma Osvaldo e Rodolfo avevano voglia che io facessi da arbitro alla loro tenzone verbale. All’oscuro dell’oggetto del contendere, chiesi che almeno mi si dicesse di cosa stavano parlando. E fu un errore. Uno da un lato, l’altro dall’altro, mi assalirono con le loro emissioni vocali incomprensibili, mentre ambedue gocciolavano secrezioni sudoripare da tutti i pori visibili del loro corpo. Osvaldo va sui toni alti , Rodolfo è il più ermetico. Tra vari embhe ,e già, uuhmm , così, perché, quando , quindi, non sono fesso,che poi ho cinquant’anni, uniche espressioni che riuscii a comprendere, e gli e già (ne hanno molti in comune) , mo senti, dato che, se vuoi una gomma, i contribuuti ecc dell’altro, non capii una mazza. Mi sentivo come Paride tra due trans nei panni di Venere e Giunone,con la voglia di spiaccicare sul loro cranio la mela, per equa divisione, piuttosto che darla a uno dei due in segno di vittoria. Dopo circa dieci minuti di questo linguaggio cifrato più consono ai servizi segreti che a poveri dipendenti della P.I., mi arresi. Li stoppai e li pregai di tornare al linguaggio originario, anche al dialetto purché mi si parlasse in modo intellegibile. Si offesero. Mi aggredirono con altri grugniti e squilli di tromba non identificati, ma che stavano a indicare il disappunto per la mia rottura di palle. Li mandai a fanculo e cominciai a muovere le mie pedine sulla scacchiera del quadro orario.
Non si persero d’animo. Poco dopo tornarono alla carica, nonostante inviassi mentali e fervide preghiere per renderli temporaneamente muti.
Tra i vari intercalari, sottoponendo la mia corteccia cerebrale a uno sforzo immane, compresi. Il tutto verteva su alcuni compensi aggiuntivi, quali quelli relativi ai corsi POF,PON e POR. Chiedevano a me, che non me ne fotte, se fosse giusto che un altro aiutante tecnico godesse di privilegi a loro sempre negati, nonostante vantassero una maggiore anzianità di servizio nel Benpensante. Cercai di calmare la loro animosità, che si manifestava con un effluvio di parole smozzicate, sputacchi di saliva sul mio giubbino, pugni sulla scrivania in truciolato, calci alle poltroncine delle postazioni di computer, motivando le decisioni del preside non come frutto di partigianeria, ma come scelte tecniche, data la diversa attribuzione di mansioni. E lì sbagliai. Non appena pronunciai diversità di mansioni, mi assalirono, mi strattonarono per il giubbino, mi spinsero sulla sedia, mi schiaffarono quasi negli occhi i loro indici per affermare la loro supremazia in fatto di gestione dei mezzi informatici. Infine conclusero: il loro rivale era, a detta dei due, il favorito di Porfido Segaioli. Per stemperare l’atmosfera con fare sornione chiesi se fossero sicuri che Porfido fosse gay. Per loro ridere a crepapelle è mostrare appena le dentiere quotidianamente lucidate. E lo fecero. Il luccichio del sole sugli incisivi durò una decina di secondi, poi, calmatisi, mi chiesero, a gesti più che a parole, di essere portavoce del loro scontento, poiché, bontà loro, ero adatto ad assumere il ruolo di patrocinante dei diseredati, come essi ritenevano di essere. Confessai la mia impotenza. Mi assalirono ancora. Mi arresi. Zittirono. Poi, dopo un attimo di pausa, come due orologi sincronizzati, programmati sullo stesso orario di sveglia, riattaccarono. Si erano pentiti. Decifrai che mi pregavano affinché non facessi parola con alcuno, men che meno col preside, del loro sfogo. Finsi di nicchiare ma, prima che cambiassero idea, aderii alla loro richiesta. Mi lasciarono solo nella piccola cloaca e scaricai il mio nervosismo attribuendo prime e seste ore di disposizione ai miei ignari e incolpevoli colleghi. Frattanto il parlottio al di là della porta blindata continuava. Temperai nervosamente la matita. La punta s’incastrò tra la lama e la fessura che consente ai riccioli di legno di venir fuori. Tirai con forza e trac, castrai l’attrezzo della sua mina per intero. Sacramentavo quando Osvaldo rientrò nella stanza: ci aveva ripensato, Rodolfo no. Mi si avvicinarono, e ripresero a gesticolare e a grugnire. Mi ricordarono King Kong, il gigantesco gorilla che si voleva fare la dolce fanciulla bionda. Per fortuna sono bruno, o meglio grigio brunito, e non una dolce fanciulla.
Si affacciò nella stanza il prof Del Cozo, mio socio nella redazione dell’orario. Del Cozo, RSU a tutti gli effetti, deputato a difendere i diritti dei lavoratori, fu la mia ancora di salvezza.
Del Cozo è flemmatico, per meglio dire è un paraculo. Dice sì a tutti per non subire pressioni nè fisiche, nè psicologiche. Chiaramente il più delle volte viene meno a ciò che promette, ma si giustifica col sorriso sulle labbra e tutto gli è perdonato. Quando ciò accade, la maggior parte dei petenti si rassegna, perché non ha il coraggio di affrontare vis a vis il gota del Benpensante. Del Cozo, il piccolo Cesare, si assise in mezzo a lor e con aria da confessionale li ascoltò. Non capì un cazzo ma, comunque, si dichiarò a loro disposizione. Poi sedette accanto a me. Osvaldo e Rodolfo frattanto si erano ammansiti; borbottarono ancora vari e già, ho cinquant’anni, non mi prende nessuno per il culo e altre colorite accezioni e, seduti a due postazioni per studenti, si dettero alla lettura di City.
Un silenzio chiesastico scese nella sala computer. Del Cozo ed io ci guardammo sorpresi. Volgemmo lo sguardo alle nostre spalle e vedemmo i due indefessi lavoratori col capo poggiato su due tastiere, nelle tenere braccia di Morfeo, dormire come due angioletti.
Il timore di svegliarli ci fece desistere dal continuare il nostro lavoro. In punta di piedi raggiungemmo l’uscita e li lasciammo ai loro sogni beati. Il corridoio che permette l’accesso alla sala computer era bloccato. Decine di colleghi che avevano preso visione dell’ennesimo orario provvisorio ci attendevano al varco. Non appena ci scorsero ci circondarono. Avevano tra le mani proposte di orario personalizzato, ciascuno adducendo inderogabili problemi di famiglia. Duri più dei protagonisti del film Noi duri non ci facemmo intenerire né da chi dichiarava di dover lasciare il bambino di tre mesi fuori dalle cancellate dell’Asilo Nido, a Napoli, alle tre del mattino per essere puntuali a scuola, a Bari, in prima ora, né da coloro che vantavano padri, madri, nonni e zii da dover assistere in ottemperanza alla legge 104. Solo due furono i casi che prendemmo in considerazione, perché veramente degni di comprensione. Il primo ci fu esposto dalla collega d’Inglese, Carmen Cugina della Sorella, di antica famiglia nobile originaria di Zollino. La poverina rappresentava veramente un caso particolare. Con un marito in pensione e due figli militari di carriera imboscati in fureria, aveva un appartamento di 230 mq da sistemare ogni mattina con l’aiuto di una sola cameriera o collaboratrice domestica, come cacchio si usa dire oggi; l’altro era ben più grave. La prof Scoppola, docente di Matematica, madre di due figli fuori corso alla facoltà d’Ingegneria Nucleare, aveva grave necessità di non essere in servizio in sesta ora poiché doveva prelevare i suoi pargoli all’uscita delle lezioni universitarie. Mostrammo il nostro buon cuore, Del Cozo e io, dichiarando che avremmo esaminato i loro casi vista la gravità delle motivazioni addotte. Mentalmente li mandammo affanculo, praticamente glielo mettemmo nel boffice.
Le urla di protesta destarono Biancaneve e la Bella addormentata. La Gomma e Lo Smilzo si unirono al coro dei contestatori. Pensavano i due imbranati che Del Cozo e io stessimo indirizzando i nostri colleghi verso il laboratorio di Quinto il Pelato, il terzo aiutante tecnico, beniamino sine condicio del dirigente scolastico. Nonostante le nostre proteste d’innocenza, sfiduciarono Del Cozo e dichiararono che essi stessi avrebbero provveduto a far abolire lo scandaloso Ius primae noctis. Non c’entrava un cazzo, ma lo dissero.
Seguiti da un nugolo di docenti, Osvaldo e Rodolfo raggiunsero la presidenza. Porfido era impegnato con il team della Qualità. Anche lì, casino. Una ventina di docenti circondava la scrivania di Porfido, costretto a girare come una trottola sulla poltrona girevole per ascoltare il pensiero di ciascuno. La prof Antrocof, di origine ucraina, docente di francese, era in piedi e invocava l’intervento di Gorbaciov durante le sue lezioni, per avviare una mini Perestroika che insegnasse ai suoi alunni come si fa ad abbattere un muro; il docente di Fisica, Alex Dell’Angelo Della Bona Nova, convinto della bontà del progetto della collega chiedeva di rivolgersi a Maria Lippi, per poter inviare, attraverso la trasmissione C’è posta per te, una lettera d’invito all’ex premier russo. Il prof Caimano, docente d’italiano, scafato a tutte le pseudo novità, scetticamente asseriva che la Perestroika non c’entrava una minchia, ma che gli alunni avrebbero dovuto seguire la trasmissione televisiva, L’isola dei famosi, per essere avviati alla vita vera. La più assennata fra tutti era la prof di Educazione Fisica, Ciccia La Corta, che pensava che la qualità fosse solo del prosciutto di Parma con il suo marchio DOC. Porfido perse per un attimo il senso della realtà. Chiese, rivolgendosi verso l’unico pertugio libero, cosa bollisse in pentola; poi, consapevole della sua defaillance, si passò una mano sugli occhi e decise che Quinto avrebbe raggiunto la piccola assemblea. Rodolfo Lo Smilzo divenne color pomodoro e sbottò: - Ma cacchio, se siamo qui noi perché chiama Quinto? Allora è vero che è il suo preferito! Osvaldo incalzò: - Le particolarità devono finire, non è possibile che lei imponga lo ius primae noctis, cacchio!
Segaioli non sembrò per nulla scosso dalle loro parole, anzi sorrise bonario: il pelato era alle loro spalle.
- Quinto - sussurrò poi con voce arrochita - scaricami il progetto qualità del liceo classico.
- Allora lo fa apposta - sbottò Lo Smilzo e sbatté la porta.
Osvaldo lo seguì masticando nervosamente una gomma.
Non appena fuori i due si proclamarono in sciopero bianco fino a che Porfido non avesse restituito loro la propria dignità assegnandogli un nuovo corso da gestire senza che Quinto ricevesse alcuna contropartita. Incrociarono le braccia e attesero Del Cozo al varco.
Frattanto il pelato aveva scaricato il file del progetto del Liceo. Uncino e lo smilzo lo guardarono indignati. Il pelato ricambiò lo sguardo, rise compiaciuto e varcò la soglia della presidenza. Del Cozo e io eravamo sul punto di ritirarci nelle nostre stanze, quando il preside ci stoppò: Cosma e Damiano, dove andate? Non sapete che anche voi fate parte del progetto qualità?
Veramente non lo sapevamo, ma prendemmo posto su due seggiole vacanti poste alle spalle di Porfido.
- E’ per pararle il culo - sussurrò all’orecchio del preside Del Cozo, che intrattiene con lui un rapporto privilegiato.
- A proposito - chiese Segaioli - cos’è questo fatto dello ius primae noctis?
Mi sentii in dovere di rispondere.
- Lo ius primae noctis era il privilegio del principe di portarsi a letto la sposa del suddito nella prima notte di matrimonio.
Questo lo so - sbottò Porfido - ma che c’entra con Quinto? che me lo porto a letto io?
Le colleghe presenti sorrisero imbarazzate, Caimano e D’Angelo sghignazzarono.
- Chiariamoci - esclamò Segaioli - io ho moglie e figli!
Del Cozo sbadigliò - E chi lo mette in dubbio… quello non sapeva manco cosa diceva…
Quinto divenne più rosso di una mela Star e cercò di guadagnare l’uscita.
- No, no! – lo fermò Segaioli - e mo che fai te ne vai e io resto qui a dare spiegazioni. Parla anche tu!
- Preside, ma che debbo dire…
- Come, che devi dire? Tu devi parlare!
- Ma, preside, così mi mette a disagio.
- E perché a disagio? Ouh, non ti mettere niente in testa…
- Che mi devo mettere in testa?
- Beh, lasciamo perdere, perché se no qui …
- Eh no, adesso deve chiarire! Anche io ho moglie e figli e non è che mo ci debbo fare la parte del …
Del Cozo intervenne con la sua diplomazia del “sì, avete tutti ragione”: Per carità, qua ci stiamo perdendo in cose di poco conto. Lo sappiamo tutti che Osvaldo non voleva assolutamente alludere a ciò che pensate. Quel ragazzo parla spesso a sproposito, non sa cosa dice in italiano, figuriamoci in latino… il suo problema, come quello di Rodolfo, è di percepire più danaro, che collabori o no ai progetti.
Detto questo si sedette a gambe larghe sulla sponda della scrivania presidenziale e attese le reazioni del pubblico. Quinto e il preside mostrarono di gradire il suo intervento, anche perché chiudeva una questione che stava prendendo una strana piega. Tutti gli ascoltatori, a quel punto, si dichiararono d’accordo con le idee delcoziane e si riprese a discutere del progetto qualità. Segaioli, dopo un po’, dichiarò che era meglio interrompere la seduta perché si era fatta ora di pranzo e la prorogò al giorno successivo.
-Mia moglie mi ripudierà- disse sorridendo- domani è il suo compleanno e io, invece che a casa, starò a scuola.
Un coro di voci da soprano si alzò alto nel cielo.
-Preside - pregò Ciccia La corta autoelettasi portavoce dell’assemblea-spostiamo a dopodomani. Le altre applaudirono a mo’ d’incoraggiamento.
Porfido nicchiò per far sì che il coro divenisse veramente unanime, poi, quando si rese conto che l’androceo non reagiva, con aria sconsolata ripeté che era necessario rincontrarsi l’indomani per rispettare la scadenza del bando del progetto.
Il coro ancillare divenne più forte e accorato, ma non commosse alcuno di noi maschi già pronti a togliere le tende. Del resto eravamo ben coscienti che Porfido, piuttosto che rompersi le palle a casa, preferiva romperle a noi a scuola.
Non appena fuori della presidenza Del Cozo e io fummo abbordati da Osvaldo e Rodolfo. Osvaldo ci offrì immediatamente una gomma da masticare. Da quando ha smesso di fumare per risparmiare, spende una barca di euro in chewingum.
Masticando a bocca piena mi rivolsi a Uncino: ma come cazzo ti è venuto in mente di citare lo ius primae noctis? Lo hai fatto incazzare!
-Ma perché, non è giusto?
- Sì che è giusto, come detto latino, ma tu che cacchio volevi dire?
-Come, non è chiaro? Ius lavoro sino alla prima notte.
-Ma chi è sto cavolo di ius?
- Scusa, in latino io non si dice ius?
- Ma vaffanculo! Ius sta per diritto e lo ius primae noctis significa farsi la sposa prima dello sposo.
-Ma come, davvero? Non è che mi prendi per il culo?
-Senti, se vuoi fare una cosa buona va’ da Porfido e chiedigli scusa. Lui pensava che tu volessi dire che è gay
- Madonna, che ho fatto!
Del Cozo lo consolò dicendogli che tutto poteva essere riparato con le scuse e non insistendo più sulla primogenitura di Quinto. Rodolfo si associò alla richiesta prevedendo ritorsioni anche contro di lui che si era associato nella protesta al suo collega.
Bussarono alla porta di Segaioli. Come al solito Del Cozo e io origliammo. Sentimmo il tono sommesso dei due nel silenzio di Porfido, poi il silenzio dei due tra le urla di Segaioli che li minacciava di provvedimento disciplinare. Uscirono a testa bassa imprecando contro il loro avverso destino. La loro condizione è leggermente cambiata: percepiscono qualche euro in più, ma non hanno smesso d’invidiare il collega pelato che la fa da padrone su due laboratori con il consenso del preside.





Tratto da Cronache di scuola di natalino lattanzi

mercoledì 10 settembre 2008

Sic Stantibus Rebus

Sic stantibus rebus
Minchiuzzi è laureato. Nessuno lo credeva. Noi pensavamo che per una di quelle strane leggi di un tempo, quelle per cui cuochi divenivano docenti, avvocati prof. di educazione fisica, ex bidelli presidi, beh, per una di quelle leggi anche lui avesse potuto fregiarsi del titolo di docente senza essersi spaccato il culo sui libri di testo griffati dai baroni universitari. L’altro giorno, trionfante, mentre eravamo al bar, mostrò il suo diploma targato 1972 perché si era scocciato delle frequenti illazioni sul suo conto. Tanto di 110 e lode in Scienze Apolitiche. Mai sentita prima quella facoltà; inoltre da noi insegna genetica. C’insospettimmo. Un mio amico lavora nella segreteria generale dell’Università, quella in cui si rilasciano i diplomi originali di laurea. Non frapposi indugio: telefonai. Oreste Pugnetta mi rispose con la sua parlata strascicata da texano… da molfettese cioè. Non appena mi riconobbe mi salutò con il solito -“ciao, Nanni, sempre seghe, vero?”. Anche lui stava sorbendo il caffè. Il caffè per Oreste è come la benedizione papale nel giorno di Pasqua. Ha una sacralità tutta sua, particolare. Oreste lo centellina alternando a ogni sorso una tirata alla pipa di radica che fuma da sempre. Lo mescola con il fumo che ingoia con ingordigia, cacciandolo nelle profondità degli alveoli polmonari senza tossire; con lo sguardo rivolto al cielo butta fuori ampie volute di fumo, quasi a mandare un messaggio al padreterno, come facevano i pellerossa quando sacramentavano tra loro contro i bianchi sterminatori di bisonti. Il barista, uno serio il suo, gli serve la bibita in una coppa da cremolata (un gelato tipico del Sud) in cui il mio amico intinge il cannello della pipa quando il caffè è agli sgoccioli per lasciar sedimentare sulle papille linguali il fumo aromatizzato al Segafredo, la sua marca preferita. Non so perché mi chiami Nanni, né perché, lui, col cognome che si ritrova, mi chieda ogni volta se faccia ancora pugnette.
Ci conosciamo da ragazzini, quando la mia famiglia si trasferì nello stesso stabile in cui abitava la sua.
Il primo incontro non fu dei più simpatici. Lui aveva la sua gang, di cui era il capo. Scorazzava per le scale del palazzetto in cui abitavamo, che portava ancora i segni di un possibile crollo, tanto era puntellato con travi grosse una trentina di centimetri, scivolando sui corrimano. Noi ci eravamo stabiliti provvisoriamente lì perché la nostra precedente abitazione era stata presa di mira dai bombardieri americani, i B29, che evidentemente lo avevano in grande antipatia. Un giorno, durante una delle solite scivolate, Oreste mi era precipitato addosso procurandomi un bozzo sulla fronte che non si ruppe solo perché il mio cranio è a prova di martellate; lui, invece, svenne. Questo fatto non gli andò a genio, perché aveva la fama di duro. I suoi compagni cominciarono, così, a non essere più convinti della sua leadership e a guardare a me con un certo interesse. Nacque, in questo modo, una rivalità che risolvemmo con una scazzottata, come avveniva nei film di John Waine. Io, per la verità, ero contrario alla violenza perché i miei avevano fatto di me un timorato di Dio, mandandomi sin dall’asilo presso monache e preti, ma ci fui tirato per i capelli quando, di fronte a un mio ennesimo rifiuto, Guido, uno della banda, mi disse che ero una checca. Feci in modo che lo diventasse lui sferrandogli un calcio nelle palle e, poi, accettai la sfida. Ci picchiammo rompendoci labbra e naso. Alla comparsa del sangue,però, ci guardammo negli occhi e assalimmo gli altri componenti della gang che assistevano compiaciuti alla nostra macellazione. Li stendemmo tutti e divenimmo amici.
-Nanni del cazzo! - ruggii.
Il nome Nanni mi fa andare in bestia. Si chiamava così un giovane gay degli anni ’60. Biondo e sculettante, si aggirava in Piazza Umberto invitando noi ragazzi (non eravamo che monelli di una dozzina d’anni) a seguirlo nei vecchi portoni delle case diroccate dalla guerra. Lo seguivamo. Nanni scendeva le scale che portavano ai rifugi della II Guerra Mondiale e, giunto nel luogo che riteneva più opportuno, si calava i pantaloni. Solo allora, sghignazzando, lo deridevamo gridandogli dietro culattone, e scappavamo facendo le scale a quattro a quattro. Divenuti più grandi, eravamo noi a prendere l’iniziativa. Nanni, che ormai ci conosceva bene, ci percuoteva le orecchie con una serie di imprecazioni che avrebbe scandalizzato anche la più vecchia maitresse della città, apprese quando accompagnava il papà al porto, dove il pover’uomo faticava come un matto a scaricare balle pesanti quintali. Nanni, allora, era un bel ragazzetto di 17 anni, biondo, esile, dai lineamenti delicati, con due occhioni azzurri che ispiravano tenerezza.
La scoperta del sesso dovette essere necessariamente traumatica se fu uno scaricatore del porto, Brutus (così detto per la terribile somiglianza con il rivale di Bracciodiferro) a violentarlo nella cambusa di una nave militare americana sotto gli occhi divertiti di quattro marines ubriachi.
La storia che circola per la nostra città non si limita a queste poche, squallide notizie, ma, man mano, si è arricchita di varie altre sfumature. Si narra, infatti, che Nanni piangesse per molti giorni e che non avesse rivelato ad alcuno i motivi della sua disperazione. Solamente la madre, Elvira, riuscì a vincere la reticenza del figlio con la promessa di un giro sulla ruota panoramica del Luna park. Il padre no. Era morto qualche mese prima, la sera del 2 dicembre del 1943, nelle acque del lungomare di Bari, col ventre squarciato dal frammento di una bomba tedesca lanciata da un bombardiere Ju-88. Il suo corpo galleggiò in prossimità della riva per tutta la notte, prima che due volontari lo riportassero a terra ormai dissanguato e coperto dalle terribili vesciche dell’iprite, un gas letale di cui era imbottita la stiva della nave americana John Harvey. Quella notte persero la vita più di mille persone, di cui circa trecento civili baresi. Quel tragico episodio di guerra oggi è ricordato come la seconda Pearl Harbor, in cui le forze alleate di stanza a Bari persero 17 navi e 700 di soldati. Fu il più grave fatto di guerra chimica verificatosi nel secondo conflitto mondiale.
Elvira, armata di coltello, si recò al porto.
Brutus era lì, a ridere della sua prodezza, quando sentì la punta dell’arma pungergli il collo all’altezza della giugulare. La donna non cercava stupide parole di scusa: esigeva che Brutus riparasse in via definitiva al suo errore esaudendo la richiesta del figlio. Il manovale accettò pur di aver salva la vita. Fu così che Nanni si trasferì da Brutus con cui convisse per circa vent’anni.
Beh, cazzo, ditemi se non era logico che non mi andasse di essere chiamato Nanni!
Riprendendo un gioco che facevamo da bambini, gli risposi: Oreste, amico di Gargiulo, se lo prende sempre in …
Rise: -Va bene, dimmi cosa vuoi.
Gli raccontai in breve del titolo di laurea di Minchiuzzi, della facoltà e della valutazione.
Rise ancora: Ma mi vuoi prendere per il culo?
-No, è vero… c’è tanto di timbro e firma del rettore dell’Università.
La pausa che seguì era il segno che Oreste stava mandando il fumo al cielo.
-Hai detto Minchiuzzi … e il nome?
-Egidio.
-Quando è nato?
-Non lo so, ma posso informarmi…
-Non fa nulla, ci penso io. Dammi un po’ di tempo.
-Quanto tempo!?
-Beh, il tempo di finire il caffè e tornare in ufficio.
-Ho capito, ti telefono tra un paio d’ore.
-Non dire stronzate, ti chiamo io tra un’ora circa.
-D’accordo.
-Ciao.
-Ciao.
Come immaginavo, mi telefonò dopo due ore. Il brusio che proveniva dalla cornetta con voci sovrapposte, risate soffocate e chiacchiericcio di tazzine che si baciavano con cucchiaini metallici mi impediva di distinguere chi fosse il mio interlocutore, poi, finalmente, la voce di Oreste divenne riconoscibile:
- Hello, Nan … Nik?
-Si, dimmi!- e schiacciai una zanzara che si era posata sul mio braccio scoperto, decisa a trasfondersi il mio sangue.
- Allora, non è laureato in Scienze Apolitiche. Quel diploma di laurea è stato annullato quaranta anni fa per un errore macroscopico della stamperia. Il tuo Minchiuzzi è laureato dal 1971 in Scienze Chimiche con 90 su 110. Il diploma originale non è stato mai ritirato, giace ancora negli archivi dell’Università. Ha solo ritirato alcuni certificati di laurea agli inizi degli anni ’80. Non farne parola con altri, però…è segreto d’ufficio. Se si viene a sapere che ti ho informato mi fai passare dei guai per la privacy.
-Sta’ tranquillo, sarò muto come uno che ha tutto un bigné in bocca.
-D’accordo, ti basta?
Mi grattai la testa: Sì, grazie.
-Grazie un corno, mi devi un favore! Uno di questi giorni verrò da te a scroccarti un paio di quei gelati di caffè che fai con quella macchina meravigliosa. Anzi, penso che verrò a prendermi la macchina.
- Stronzo, è il manico che conta!
II suono gutturale che emette quando distorce le labbra e digrigna i denti mi indicò che aveva sorriso.
Minchiuzzi è il re dei chiavici. Ancora una volta s’era preso gioco di noi. Pensai di ripagarlo della stessa moneta.
A scuola chiarii solo che Egidio s’era divertito alle nostre spalle e che la sua laurea, quella vera, in Scienze Chimiche, così come mi aveva assicurato Oreste, consentiva, non si sa per quale arcano motivo, anche l’insegnamento in Genetica.
Un mese dopo, quando Minchiuzzi s’era vantato anche con il guardiano del palazzetto dello Sport , gli operatori ecologici addetti alla raccolta del differenziato e con Rosina, la cagnetta meticcia, mascotte dell’Istituto, di averci gabbati tutti, d’accordo col dirigente amministrativo, escogitai la rappresaglia. Varcai, così, il 20 ottobre, la soglia del nostro istituto fingendo una grande preoccupazione. Egidio era già al bar, in compagnia della solita combriccola con cui consumiamo la colazione mattutina.
-Un caffè maculato e un cornetto- dissi con aria affranta.
Gianni Estroverso, mio alter ego, smorzò il sorriso che gli aleggia sulle labbra ogni volta che mi viene incontro.
-Cosa t’è successo? Mi chiese preoccupato.
- Un’ira di Dio, ecco cosa mi è successo!
-Sarebbe?
-Sarebbe che forse mi sbatteranno fuori della scuola senza pagarmi un cavolo, anzi rifondendo l’Amministrazione.
-Comeee?- chiesero il preside e Minchiuzzi.
- Si, pare che per i laureati del 1970 al ‘73 sia sorta un’inchiesta sulla validità del titolo di studio… altro che la stronzata della laurea in Scienze Apolitiche- dissi guardando in cagnesco il genetico.
-Come sarebbe?- intervenne il preside restando con la tazzina del caffè a mezz’aria.
- Sapete certamente dello scandalo che è sorto per l’ammissione alla facoltà di medicina…
-E che centra?-m’interruppe Porfido.
-Mi lasci finire, preside. Come dicevo, i test d’ammissione alla facoltà erano contraffatti per la collusione di alcuni docenti universitari con studenti e personale ausiliario. L’inchiesta, per un Gip arrivista e che non sa farsi i cavoli suoi, si è allargata a macchia d’olio. Le indagini hanno coinvolto tutte le facoltà, andando a ritroso nel tempo, sino agli anni ’60. E’ venuta così alla luce tutta una serie di illegalità compiute negli anni ’70 riguardo i titoli di laurea rilasciati in varie facoltà.
Minchiuzzzi cominciò a agitarsi: Anche la mia?
-Penso di sì, ma come per tante altre. L’indagine ha abbracciato, come ho detto, tutte le facoltà, limitatamente, però, ai primi anni ’70.
-Dici anche i laureati del ’71?
-Caavolo! Se l’arco di tempo è dal ’70 al ’73, cavolo se c’entra il ’71. E’ il mio anno di laurea!
-Anche il mio!
-Egidio, scusa, ma che mi frega! Io sto pensando al mio!
-Dai che è una cazzata, ti vuoi vendicare dello scherzo del mese scorso…
-Tu devi essere matto… vedi se ho voglia di scherzare su un argomento del genere!
-E per… perché tutto que… questo?-balbettò il genetico.
-Ma, che forse hai la coscienza sporca?- intervenne Gianni che aveva cominciato a capire.
Il dirigente amministrativo entrò nel bar e si avvicinò al preside con un foglio protocollato fra le mani. Si appartò in un angolo con Segaioli e confabulò con lui sottovoce guardando di tanto in tanto il buon Minchiuzzi.
Minchiuzzi era sulle spine.
Perché mi guardate, cosa è scritto su quel documento?.
Il preside assunse un’aria grave: Professor Minchiuzzi, venga con me in presidenza.
-Ma cosa succede?-implorò Egidio.
-Stia tranquillo, mi segua in presidenza- confermò Porfido con voce ferma.
Minchiuzzi si appoggiò al bancone: E lui no?- piagnucolò indicando me.
-Lui? No, perché dovrebbe?
-Ma ci siamo laureati tutti due nel ’71-rantolò Minchiuzzi che era ormai al colmo della disperazione.
-Ebbene?
-Ma anche lui potrebbe aver brigato…
Il preside lo interruppe: brigato per cosa? Minchiuzzi cosa mi nasconde?- si accigliò Porfido.
-Veramente… una raccomandazione…
-Stia zitto- lo interrupe ancora una volta Segaioli- le questioni private le discutiamo in separata sede!
Minchiuzzi seguì Porfido a testa bassa in presidenza. Porfido chiuse la porta e ordinò all’ausiliare di servizio di non disturbarlo.
Rimasti soli, Gianni sbottò in una risata e mi disse che mi aveva sgamato.
Portammo via di peso l’ausiliario di guardia alla porta di Porfido e origliammo.
Minchiuzzi balbettava, pregava, si difendeva, incolpava, imprecava. Ad un certo punto lo sentimmo invocare Allah. Venne fuori come un ossesso: brandiva il fermacarte di bronzo di Porfido. Intuii le sue intenzioni e mi detti alla fuga. Quel minchione di Porfido non gliela aveva fatta a portare a termine lo scherzo, nonostante il dirigente amministrativo gli avesse chiesto di tenere il prof di genetica sulla corda sino al giorno successivo.
Egidio non mi parlò per una settimana, ma quando gli proposi, tenendomi a debita distanza, di riappacificarci davanti ad una buona cena nel miglior ristorante della città, si acquetò.
Con Gianni e Porfido lo prelevai da casa sua la sera successiva e ci recammo al Sorso Preferito, gestito da un mio ex alunno. La cena fu a base di antipasto ai frutti di mare, linguine alle vongole, aragosta al vapore, frittura mista,vini di alta qualità, frutta di stagione, dolce, sorbetto, caffè e ammazzacaffè. Sazi, Porfido, Gianni ed io ci allontanammo per fumare una sigaretta. Egidio preferì attenderci nell’interno del locale dove un cantante di strada aveva appena intonato “O sole mio”. Sul momento ci venne di giocargli un altro tiro mancino. Ce ne andammo. Il giorno dopo, stranamente non incazzato, ci disse che aveva scucito 300€ più una lauta mancia ai camerieri. Minchiuzzi è fatto così… per questo è mio amico.
tratto da Homosex - Si vive di solo pane di natalino lattanzi