venerdì 14 marzo 2008

Giudizio Universale

Giudizio Universale
Dormiva Manicotto di Sopra.
La notte dolce d'estate recava i mille violini delle zanzare, il canto delle adenoidi ed i sospiri traditori degli sfinteri che facevano finta di nulla.
D'improvviso, un rombo di tuono staccò il silenzio.
La moglie del Sindaco, in prudente apnea, pensò: "Gli avevo pur detto di non mangiarli tutti, i fagioli”.
Ad un tratto si udì una fanfara scomposta di pifferi e tamburi:
“Giudizio Universale!”- annunciò con voce metallica l’angelo battistrada.
Il banchiere Ricotta, colto nel sonno, si sparò una revolverata in bocca e sua moglie Carenina (la "C sta ad indicare la carena della navicella che utilizzava il padre della sindachessa per le sue scappatelle extraconiugali), atterrita ed incontinente abituale, sporcò le mutandine benedette che le aveva regalato il Parroco per Pasqua.
"Et frenum Fiat!"- ordinò profonda e ieratica la voce di Dio.
L’angelo cocchiere tirò invano le redini dei quattro cavalli alati, agguantò il freno a mano e-: ”Porco cane- gridò impaurito- ora cappottiamo!”.
“Fiatque frenum ... Frena, vacca Sodoma!”- trascese il Padreterno, con la barba e quant'altro ritti per lo spavento, all'indirizzo dell'angelo cocchiere.
Il poverino, già sordo di suo (era stato assunto in quota invalidi di guerra della campagna contro Satana del 6042 a.C.), vecchio sino all'indecenza, rintronato da tutto quel latino lui, che discendeva da una famiglia di Angeli Custodi Notturni, quasi tamponava col supercocchio DV (= divino N.d.A.) la torre del Municipio con l'orologio nuovo, se non fosse intervenuto il vigile Boccone ad attaccarsi eroicamente al morso dei destrieri (come aveva visto fare, in un’immagine storica riportata sulla “Tribuna Illustrata”, vecchio settimanale degli anni cinquanta, da un impavido carabiniere).
Frattanto, l'Angelica Post Band (Post sta per Post e Band sta per Band), stonatissima vuoi per mancanza d'esercizio, vuoi per il carattere nevrotico e riottoso dei suoi componenti (recuperati nel girone degli individualisti permanenti e sessuomani insoddisfatti, con la promessa dell’investitura angelica ad aeternum, se avessero fatto bella figura), cercava di mascherare le diaboliche disarmonie soffiando negli ottoni a tutto gas e picchiando con mazzate da orbi sulla pelle dei tamburi.
La caciara, naturalmente, destò di un colpo le duecento anime del paese (eccetto le anime del banchiere Ricotta e della moglie Carenina, che si erano già destate prima). Al grido "I marziani, i marziani! ", i cittadini (o paesani che dir si voglia) scesero in piazza potentemente armati di cineprese e macchine fotografiche per immortalare l'avvenimento. L’ala massimalista, invece, con a capo Girolamo Spurgatopi, figlio naturale di un caporale delle SS fucilato nel convento delle benedettine da una “spogliata” che aveva spogliato, scese in piazza con bazooca e kalashinikov, intenzionata a massacrare gli invasori.
Costatata, poi, l'assoluta mancanza di pericolo, alcuni di loro si prodigarono, addirittura, per l'atterraggio dei Cherubini, consigliandoli con"accosti… a destra dottò! ... Poggia! ... Buono così”-, incuranti dello stato cianotico e preinfartuale del vigile Boccone, mai per l'addietro tanto insopportabilmente giubilato in presenza di terzi.
Ne sortirono parcheggi allucinanti, tamponamenti con morti e feriti, perdita totale, anche se temporanea, delle facoltà d'intendere e di volere, zoppie, oltraggi e violenze carnali fra i messaggeri del Cielo (eppure, alle prove generali, in Paradiso, tutto era filato liscio ...o quasi).
Finalmente, reintegrato il vigile Boccone nelle sue pubbliche funzioni, gli arcangeli Michele e Raffaele (Gabriele si era recato al distributore di benzina per fare il pieno alla spada fiammeggiante, rimasta a corto di carburante) incolonnarono i giudicandi e li tradussero innanzi al Padreterno per la ramanzina ed i sacri insulti precedenti il verdetto (uno a cranio).
Immenso sul palco che il pomeriggio precedente era stato eretto per il comizio del vicesindaco Facente, il Signore si schiarì la voce ed esordì:
”Popolo di Manicotto! Non siamo scesi su questa pubblica piazza per far le pulci ai cani ed ai barboni…”
L’angelo cancelliere suggerì: “Sono la stessa cosa Signore…”.
“Umani, voglio dire… ignorante!”: - s’accanì l'onnipotente piccato per l’improntitudine del suo sottoposto. Poi riprese con severità: “… bensì onde procedere (quel "onde" - impensierì all'istante la platea) alla formale instaurazione di giudizio di merito, alieno da ogni e qualsiasi pregiudizievole processuale e non avverso i Manicottesi tutti”.
Il gelo era tangibile nella folla; un batter di denti e di dentiere accompagnò la voce roca dell'avvocato Consulto: “Signor Giudice eccepisco…” .
“Eccezione respinta!- s’incacchiò il Padreterno- la quaestio persegue gli imperscrutabili miei fini e, come si dice tra voi mie creature, fatevi i c… vostri. Dunque, andiamo a incominciare! Angelo Cancelliere, a Lei!”
L'Angelo Cancelliere cercò il Divino Registro
“Era qui due minuti fa”- disse impaurito, col sudore che gli grondava dalle ascelle. Infine, semisoffocato dalla gioia per l’essersi ricordato che gli si era seduto sopra, cavandolo da sotto il sedere: "Signor Mastro Peppino! ... Signor Mastro Peppino!”- rantolò.
"Ragioniere, prego! "- s'adontò quello con sussiego.
“Non sottilizziamo!…-proruppe il Signore – sappiamo come cavolo sia diventato ragioniere.”
Mastro Peppino arrossì e zittì., mentre tutt’intorno si alzava un mormorio di disapprovazione
“Raccomandato di merda!”- s’alzò una voce dal fondo.
L’Angelo Cancelliere procedette con tono inquisitorio: “Signor Mastro Peppino, come ha impiegato i talenti?”.
E aspettò, battendo il piede destro con impazienza.
Il ragioniere si grattò il capo con espressione fessa, rifletté un po’, poi dichiarò:
“Non credo di aver mai posseduto talenti, lo confesso; trascorro una vita serena grazie alla dote di mia moglie, pace all’anima sua… no, talenti proprio no… non sono un collezionista. Se poi si riferisce agli euro, debbo dire che è stata una gran fregatura il passaggio dalla lira alla moneta europea. Si spende molto di più… ma non credo –aggiunse impaurito dall’occhiataccia del Padreterno- sia questo il luogo...”.
“E dice bene- lo interruppe il Signore- mi riferivo ai talenti della parabola di mio Figlio!…Sa- continuò poi con tono di scusa- a lui piace raccontare, scrivere: si è messo in testa che è un grande scrittore, un oratore eccezionale… Gabrieleee! Porca Gomorra! Ma quando torna ‘sto cavolo di Arcangelo? Mi serve qui!”.
Gabriele era indaffarato con la pompa di benzina.
A corto di monete, cercava di convincere il benzinaio a fargli il pieno alla spada fiammeggiante, promettendogli una raccomandazione presso l’Onnipotente, un’indulgenza stratosferica per abbreviare il suo percorso da penitente. Ma quello, no, resisteva alle lusinghe e solo quando l’Arcangelo gli firmò un “pagherò” a brevissima scadenza, lo accontentò.
La spada sfolgorò per qualche secondo, poi si spense.
Gabriele s’incacchiò come solo gli arcangeli sanno fare: “Ma Eva peripatetica!- sbottò- cosa cacchio hai messo nel serbatoio della spada? Non si accende!”. E dalli a provare e riprovare a scaldare l’acciarino che portava nella tasca interna della veste candida.
Il benzinaio arrossì e tentò di scusarsi dicendo che aveva fornito solo ecodisel purissimo, che non gli era mai capitata una cosa simile, che la spada era ingolfata, ormai vecchia e che, forse, era giunto il momento di procurarsene una più efficiente… via, anche un usato garantito.
L’Arcangelo, spazientito, tirò fuori, sempre dalla solita tasca interna, il libretto di “folgorazione” rilasciato dal DVPRF (Divino Provveditorato Revisioni Folgoranti), con l’ultima data di revisione e lo mostrò al benzinaio con fare minaccioso: “Legga, stupido, lei non conosce il suo mestiere!”.
Il benzinaio prese il documento fra le mani, lo osservò con cura, era quasi per restituirlo sconsolato al messo di Dio, quando si accorse di una postilla a margine dell’ultimo foglio del libretto.
“Ecco, vede?- esclamò trionfante- è scritto qui!Leggo testualmente: E’ fatto obbligo al possessore della spada fiammeggiante, matricola AG. (AG.sta per Arcangelo Gabriele) di provvedere entro e non oltre trenta universali alla sostituzione della pompa di iniezione della su detta spada, pena il ritiro della patente. Segue la data: Alto dei Cieli, 22 divinario 290000743. Come vede…”- concluse raggiante il pompista.
“Gabrieleeee!”- tuonò la voce del Signore.
“Debbo andare!”- tagliò corto l’arcangelo e si allontanò frettoloso.
“Dove diavolo ti eri cacciato?- lo rimproverò l’Onnipotente- sostituisci il cancelliere che è afono per il gran gridare”.
Gabriele prese posto sullo scranno, si schiarì la voce, dette uno sguardo all’elenco spuntato sino alla lettera erre e cominciò: “Sanfilippo Giov…”.
“Vai avanti- lo interruppe spazientito l’Onnipresente- non vedi che è santo?”.
“Santapaola Ren…”.
“Ma cacchio fai?- lo interruppe ancora Dio- salta i santi, per Dio!”.
Gabriele provò ad eccepire, ma fu messo a tacere in malo modo.
Il Signore si sistemò sul trono che nel frattempo gli avevano portato i cherubini, strappò l’elenco dalle mani di Gabriele e, personalmente, riprese le convocazioni.
“Ah ah, eccone uno a fagiolo- ridacchiò leggendone ad alta voce il nome- Satanasso Luciano!”.
Un “macho” nerboruto, a torso nudo, tatuato sino all’ombelico di oscenità da far rabbrividire persino un intero convento di monache di clausura, stretto tra due donne procacissime, due occhi celesti, che ogni tanto scopriva portando sulla fronte spaziosa un paio di occhiali da sole griffati, lunga e fluente capigliatura bionda chiusa da un “codino”, avanzò strafottente verso l’Onnipotente.
“Come hai speso i tuoi talenti?”- lo assalì il padrone dell’universo, con sguardo torvo, chiedendosi dove avesse visto quella faccia.
“Maestà…”- ironizzò l’interpellato.
“Porco cane! -lo interruppe Dio – non sai chi sono?”.
“Eccellenza…- riprese il gaudente.
“Santo Dio- s’inviperì Il Signore- sono Dio, per Giuda!”.
“Dio- riprese con condiscendenza il belloccio- i miei talenti, quelli che tu mi avevi dato, non ho potuto spenderli. Quando tentai di farli fruttare, tu mi punisti. Io sono Lucifero…”.
“Sempre fra le palle…”-pensò Dio-.
“…il tuo angelo preferito- continuò il diavolo- e poi scacciato dai cieli quando ho tentato di imitarti. Volevo far fruttare i talenti che mi avevi dato, ma l’ho preso nel boffice. Ora sfarfalleggio per i mondi e porto con me non i rimasugli, gli avanzi del tuo pranzo, ma il fior fiore delle creature. L’ultimo che ho plagiato è già nel girone dei satiri spocchiosi; io lo animo sulla terra, pruriginoso come era, per trascorrere qualche giorno di materialità, come consento, a turno, a tutti i miei collaboratori”.
Gli arcangeli lo guardarono con ammirazione.
Gabriele, che non aveva ancora “digerito” il fatto di essere stato estromesso in malo modo dall’incarico di annunciatore del Giudizio, si fece coraggio e alzò la mano per chiedere la parola.
Dio lo guardò in tralice.
“Che vuoi? Lasciami lavorare!”- s’incazzò.
“Padrone- disse l’Arcangelo- colgo l’occasione per annunciarti quali sono le rivendicazioni sindacali della mia categoria, formulate nell’ultima assemblea del Consiglio degli Arcangeli ”.
Il Signore tentò di zittirlo, ma Gabriele, che ormai aveva rotto il ghiaccio, non si fece intimorire e, cavato dalla tasca interna della tunica bianca un foglio pergamenato, continuò:” Non leggo i preliminari per non annoiare il rispettabile pubblico- e s’inchinò- perciò passo subito alle richieste…”.
Dio, con fare bonario gli consigliò di rinviare la questione al prossimo Consiglio di fabbrica perché era bene lavare i panni sporchi in famiglia, perché era disponibile, da sovrano illuminato, non ad esaudire, ma a prevenire i desideri della sua manovalanza, ecc… ecc…
Ma Gabriele, dopo aver bevuto un paio di sorsi di un liquido presumibilmente ad alta gradazione alcolica da una fiaschetta d’oro che aveva tirato fuori dalla solita tasca interna, face il segno del ”time out”, applaudito da tutta la schiera di angeli e arcangeli (i cherubini si dichiararono neutrali), inforcò gli occhialetti da presbite e, dopo essersi schiarita la voce, lesse: ”a) chiediamo un turno di riposo settimanale, come hai fatto tu quando, di domenica, hai interrotto la Creazione; b) il lavoro straordinario deve essere retribuito con crediti da spendere nelle boutiques celestiali e non passare “in cavalleria”, come è accaduto sino ad oggi; c) le spade fiammeggianti e tutte le altre “macchine” utili all’ordine pubblico nel Paradiso debbono essere sostituite ogni morte di papa e non revisionate ogni trecentomila anni come accade ora; d) la turnazione di sorveglianza davanti la porta dell’inferno deve essere gestita da noi e non da tuo figlio che si dedica troppo alle cene –figurarsi- si rivolse all’uditorio- l’ultima doveva essere quella di duemila anni fa!…- e poco alla gestione dei registri; e) si smetta una volta per tutte con la favoletta che angeli ed arcangeli siano asessuati; onde per cui (quel “onde” impensierì anche Dio) chiediamo con forza -è, infatti, un punto su cui non si transige-, come avviene per i nostri colleghi al servizio di Lucifero, che ci sia concessa qualche materializzazione per spassarcela un po’ sulla terra. Concludo: se non ci sediamo al tavolo delle trattative con serietà- e guardò i compagni a chiedere sostegno- indiremo uno sciopero generale ad oltranza. Ho detto!”- e tirò fuori un sospirone liberatorio.
Michele e Raffaele applaudirono sino a spellarsi le mani e a spiumare per la velocità che impressero al battito delle ali.
Satanasso, ovvero Lucifero, salì sul palco e, sotto lo sguardo esterrefatto di Dio, si congratulò con Gabriele.
L’Onnipotente sobbalzò sul sacro trono, si levò in piedi in tutta la sua possanza metafisica e, poggiando le mani sui fianchi e dondolandosi, arringò la platea:
“ Italiani, Manicottesi tutti, l’imperativo è vincere… e vinceremo! Siano stramaledetti gli Ingle… Volevo dire- si corresse- siano maledetti i ribelli! Questo branco di bastardi sarà cacciato nelle profondità degli inferi se non accetterà le mie condizioni.Tutti coloro che sono con me mi seguano e… boia chi molla!”.
Alle parole del Signore, che è in cielo, in terra e in ogni dove, i Manicottesi atterrirono: un odore di stallatico si diffuse per l’aere e ampie pozze assunsero contorni da fattucchiera sul selciato rifatto di fresco.
Gli arcangeli, seguiti dagli angeli e questa volta anche dai cherubini (che oramai pensavano di aver fatto la scelta giusta schierandosi con Gabriele per la guerra sindacale lampo, condotta con tanta maestria dall’arcangelo), tirarono fuori dalle solite tasche interne delle tuniche le vecchie e gloriose bandiere rosse della vittoriosa campagna del 200032, combattuta contro gli dei pagani capeggiati da Juppiter Massimo (Mino per le sue concubine e i più stretti collaboratori), e, capeggiati da Lucifero, inscenarono una manifestazione di protesta colorita da insulti scurrili e goliardici nei confronti del loro datore di lavoro.
“Non c’è più religione!”- protestò Dio, sconcertato da tanta arroganza, e, alzato il capo, fulminò tutta la marmaglia con l’unico occhio che l’iconografia cristiana gli riconosce.
Ci fu un fuggi fuggi generale: Lucifero, colpito nel fondo schiena si eclissò preferendo le sue anfrattuosità immonde al bel panorama manicottese che, come è possibile osservare dalle foto turistiche esposte nell’unico minimarket e nelle tre tabaccherie del paese, sfoggia bellissime colline incastonate sulla circonferenza del lago Albino (così detto per il candore delle acque in cui confluiscono gli scarichi dell’industria del latte, la Manicottolat, pubblicizzata sulle reti televisive locali ogni trenta secondi di trasmissione).
I cherubini furono trasformati in immagini marmoree ad abbellire il frontespizio della chiesa madre cittadina, mentre i tre arcangeli, con le ali fra le gambe, furono incatenati alla “colonna infame” che era al centro della piazza.
“Giudizio Universale!”- tuonò il Padreterno.
“Giudizio Universale!”- dissero in coro i Manicottesi tutti.
I tamburi ripresero a rullare battuti dalle mazze rotanti dell’Angelica Post Band, mentre il vigile Boccone, per riaversi dallo shock da traffico cui era stato sottoposto in tutto quell’andirivieni assordante, seduto sul marciapiedi antistante il Municipio, rullava il suo primo spinello, offertogli dal trombettista del complesso, Sebastian de la Columbia.
“Giudizio Universale!”- ripeté con scarsa convinzione Dio, ormai a corto di argomenti.
“Giudizio Universale…”- mormorò il popolo di Manicotto non capendo dove volesse andare a parare l’Onnipotente.
Lo Spirito Santo si posò sulla spalla del Signore dell’Universo e, come un pappagallino delle Azzorre, scandì con voce stridula: “Giudizio Universale… Giudizio Universale!…”.
Dio lo guardò con commiserazione, commiserò se stesso, si passò una mano sulla fluente chioma bianca, chinò i rai fulminei, si alzò dallo scranno d’oro massiccio tempestato di diamanti e, con passo stanco, si avviò verso la Via Lattea, seguito dallo stuolo dei giudicati che marcivano al passo dell’oca e cantavano inni soprannazionali.
La nebbia raccolse la processione nel suo manto e Manicotto divenne il paese fantasma in cui, ancor oggi, si sente lo stridore delle catene che legano gli Arcangeli alla “colonna infame”.
scritto a quattro mani da Lello e Natalino Lattanzi

Il professor Colabrisi


IL PROFESSOR COLABRISI

Era una tranquilla giornata di scuola: gli alunni in ritardo, i professori al bar, i bidelli a fumare, leggere il giornale, confezionare maglioncini ecc..., il preside a brontolare sconsolato, all’ingresso dell’Istituto.
La caccia allo studente, come il solito, cominciò alle 08.’35.
Professori e vicepreside, sguinzagliati sui lunghi marciapiedi antistanti la scuola, presi dal solito rito mattutino, ripetevano i consueti gesti giornalieri, minacciando (a voce poco più che sommessa) sette in condotta, due in italiano, zero in matematica.
Alle 08.’55, tutto, puntualmente, era in ordine.
Gli alunni, non appena in classe, portarono le loro richieste: necessità corporali, lista delle colazioni, urgenza di certificati di frequenza per il rinvio del servizio di leva ed altro ancora.
Alle 9’15, la campanella annunciò la fine della prima ora e le lezioni cominciarono.
Il professor Colabrisi, ultrasettantenne, docente di Genetica, ricacciato in classe da non so quale decreto di non so quale ministro della Pubblica Istruzione (ne cambiamo con la stessa frequenza con cui cambiamo i calzini), sebbene le proteste di tutto il comparto scuola, fece il suo ingresso in Istituto, come il solito, con un sigaro puzzolente tra le labbra e una mano sulla vita dei calzoni che, come ogni giorno, avevano ceduto all’epa straripante.
Il cappellaccio schiacciato sulla fronte bassa e cespugliosa impediva di scorgere gli occhi iniettati di sangue e il naso bitorzoluto, arrossato dalle continue e abbondanti libagioni.
Come il solito agitò in alto il bastone che reggeva nella mano sinistra in segno di saluto e si avviò verso l’ascensore facendo avvertire la flatulenza che, purtroppo per chi gli era vicino, lo accompagnava da circa sessant’anni. Come il solito tutti i presenti, in segno di rispetto per la veneranda età, risposero in coro al saluto turandosi il naso.
Immediatamente dopo, un bidello, Fontani, che aveva perso il senso dell’olfatto durante un’assemblea sindacale, si chiuse nell’ascensore e lo disinfestò con incenso e oli profumati.
Giunto al primo piano, Colabrisi ordinò al bidello di turno di indicargli il laboratorio di informatica, in cui non aveva mai messo piede, e con fare perentorio ne spalancò la porta. Subito vi fu un fuggi fuggi generale di alunni e docenti, che, quasi impazziti, cercarono scampo nelle aule adiacenti, chiudendosi e barricandone gli ingressi.
Ma il professor Colabrisi non cercava vittime; come capimmo in seguito, voleva solo diffondere al mondo intero la grande scoperta che, secondo lui, avrebbe sconvolto tutte le teorie sull’evoluzione.
Il tecnico di laboratorio, il signor Magnesia, di origine siciliana, come Anastasia (tutte le parole che terminano in “sia” provengono dalla Sicilia: vossia, maisia, trasformatosi in mai-fia e poi in Mafia per contrazione di forze dell’ordine e di magistrati), non riuscì a mettersi in salvo perché costretto da Colabrisi ad avviare un computer e a fungere da navigatore nel gran mare di Internet.
La porta blindata del laboratorio di informatica impediva a me e ai tanti altri curiosi di capire cosa stesse accadendo al di là di quelle lastre d’acciaio, perciò, sebbene stupiti e incuriositi, non ci restò che aspettare pazientemente che l’uscio si schiudesse.
Finalmente, dopo alcune ore, quando già gli alunni, impazziti di gioia per aver saltato le lezioni, scendevano urlando, sghignazzando, spintonandosi e palpandosi per le scale dell’Istituto, la porta si aprì e mostrò il volto raggiante del collega Colabrisi e quello devastato del signor Magnesia: tutto era compiuto!
Nello stesso istante, tutta rossa in volto e affannata, salì precipitosamente le scale l’applicata di segreteria, Eufania, avvisandoci che la presidenza era stata invasa da un mare di fax che chiedevano, da tutte le parti del mondo, un urgente incontro con Colabrisi, per un confronto e un conforto con le teorie di alcuni dei più noti scienziati del pianeta.
Il preside in persona, abbandonando la caccia alle coppiette che pomiciavano nelle aule vuote, coprendosi con fare da “raffreddato” il naso, si avvicinò al vecchio docente e lo invitò a metterci al corrente della sua scoperta, gratificandolo con un pubblico encomio.
Colabrisi si commosse, si tenne ancor più strette le brache , tolse il cappellaccio dalla fronte cespugliosa e raccontò tossendo, sputacchiando e, per fortuna, affumicandoci col suo sigaro:
“Amici cari, tutti noi siamo stati presi in giro dalla favola che ci hanno raccontato i preti, per generazioni, all’infinito. Solo attraverso la mia scoperta, finalmente, si saprà come veramente si siano popolate le regioni del nostro mondo. Ora vi narro la vera storia dell’uomo!”
“Un ooooh…” corale allargò le nostre bocche.
“Dio- raccontò Colabrisi, compiaciuto dell’interesse suscitato- creò prima Adamo e poi, da una sua costola, Eva: tutto vero! L’inghippo viene dopo!
Adamo ed Eva, quando capirono che era più logico e più piacevole copulare piuttosto che strapparsi le costole, misero al mondo due figli: Carino e Abele. Si, avete capito bene, Carino e Abele, non Caino e Abele; né ebbero altri figli”.
La platea rumoreggiò tra l’incredulo e il sorpreso.
“Quando Abele sparì – continuò il flatulente- si disse che fosse stato ucciso da Carino, il quale prima negò e poi confessò. Tra le lacrime il giovane disse di essere stato violentato dal fratello, che gli faceva il filo sin da quando erano fanciulli. Carino e non Caino- sottolineò Colabrisi- raccontò, sempre piangendo, che non gli era mai dispiaciuta la corte di Abele, anzi di averlo incoraggiato, a volte, poiché avvertiva in sé una natura se non diversa almeno duplice, di cui quella maschile fortemente sopita.
Abele, però, non solo lo prese, un giorno, con violenza in un prato, mentre era chinato a cogliere un fiore, ma si vantò con la natura circostante di quanto fosse stato bravo e del piacere che aveva provato. A quel punto, preso dall’ira, con un tremendo colpo di clava sugli “ zebedei”, Carino aveva ucciso Abele che, beato, disteso sul prato, fumava della canapa indiana.
Non si sa bene come, il delitto di Carino in breve fu sulla bocca di tutti gli animali del Creato e suscitò tanto scalpore da costringere il povero giovane ad abbandonare i genitori e a addentrarsi nel giardino dell’Eden solo ed impaurito.
A sera, quando si udiva solo il canto delle cicale che flirtavano con i grilli, Carino si lasciò andare sotto l’ombra di un platano e si addormentò”.
Il silenzio nella sala si tagliava come una fetta di prosciutto da seppellire in un sandwich imburrato.
“Il mattino seguente, quando si risvegliò, l’abelicida si trovò circondato da un branco di scimmie, la maggior parte femmine, sbavanti e desiderose di stabilire un contatto sessuale con il giovane umano.
Carino, impaurito dalle avances plateali di alcune gorilla, salì velocemente in cima all’albero, ma fu presto raggiunto. Urlò, si disperò, tentò di far capire che lui aveva poco da dire e da dare in fatto di virilità, ma le scimmie, raggiuntolo, continuavano a palparlo per tutto il corpo, mostrando di gradire ciò che trovavano.
Un vecchio scimmione che assisteva alla scena scotendo il capo in segno di disapprovazione, comprendendo la sofferenza del povero Carino, ad un certo punto lanciò un urlo terribile e fece fuggire tutto il branco di femmine. Da un guscio di noce di cocco, che aveva vicino a sé, tirò fuori una polpetta di erbe e di muschio, una specie di “Viagra”, per intenderci, e lo cacciò nella bocca spalancata per il terrore di Carino e gliela fece ingoiare, dandogli una manata sulle spalle.
Dopo circa mezz’ora avvenne il mutamento: Carino fu costretto ad indossare delle foglie di fico, per coprire la sua inconsueta virilità.
Da quel giorno non ebbe più tregua: tutte le gorilla più belle furono sue e dettero alla luce un'enormità di piccoli esseri pelosi che popolarono il mondo, spargendosi per i cinque continenti.
Così, amici miei, -concluse Colabrisi - sono nate le razze umane, e non come ci ha detto la Chiesa o come poi ci ha spiegato Darwin con la sua teoria sull'evoluzione, che risponde al vero solo in minima parte!”.
Tutti noi, che avevamo ascoltato in religioso silenzio l’esposizione del vecchio docente, alla conclusione del racconto esplodemmo in un fragoroso applauso, lanciando fischi di approvazione e facendo volare in aria libri, quaderni, registri, penne e matite.
Solo Minchiuzzi, collega di Genetica del Corso F, non unì la sua voce alla nostra, ma, con piglio severo, livido per l’invidia, ci richiamò alla realtà, invitando Colabrisi a dimostrare ciò che diceva.
Le gote del vecchio docente s’imporporarono, gli occhi brillarono, i pantaloni si gonfiarono per uno scoppio di flatulenza, dovuto all’emozione, alla gioia per l’occasione che gli offriva il rivale e, asciugandosi il sudore che gli scendeva copioso dalla fronte, che gli bagnava spudoratamente le ascelle e il cavallo dei calzoni, esclamò: “Ho trovato Carino! lui era lì, murato nello scolo del mio water, ed io non lo sapevo. L’ho scoperto solo l’altro giorno quando, per un improvviso e tremendo mal di pancia, ho dovuto cacciar fuori violentemente tutta l’aria che mi gonfiava l'addome: la cintura, pensate, è volata via in mille pezzi. Per la deflagrazione è crollato il muro che reggeva la colonna montante: son caduto giù, nello scantinato e poi ancora più giù, sino a che ho perso i sensi. Al mio risveglio non ero più solo. Avevo accanto a me Carino, o meglio, ciò che resta di Carino, con la parete della caverna, apertasi sotto di me, istoriata a raccontare la sua vicenda. E’ un reperto che stravolgerà la scienza, cambierà i costumi, segnerà quest’epoca come la sola che abbia veramente dato al genere umano la consapevolezza della sua origine, l’orgoglio e l’essenza dell’essere... ho concluso”.
Un nuovo più forte scroscio di applausi, fischi e lanci più fitti di cassini, gessetti colorati e vecchi gettoni della “SIP”, con mani screpolate per la vigoria del battito, ululati di consenso e solidarietà si levarono verso Colabrisi: la perfezione, per la prima volta nella storia dell’uomo, non era più un mito.
Il prof. Minchiuzzi, il mio caro Minchiuzzi, ancora lui, manifestò, più triste che mai, con voce rotta dal pianto, nel tripudio generale, unico e solo, il suo scetticismo e, arricciandosi i baffi alla Vittorio Emanuele, chiese di vedere i reperti.
Colabrisi fu scosso da un tremito, cominciò a strabuzzare gli occhi, divenne paonazzo, poi pallidissimo, si lasciò cadere sul pavimento con una mano sul cuore che gli batteva all’impazzata e balbettò: ”Li... li... li vedrai...”
Sommessamente, con i pantaloni che gli erano diventati enormi, quasi per magia, per la completa scomparsa della pancia, si sollevò da terra e, scortato da un esercito di nuovi fans, s'incamminò verso l’uscita della scuola bofonchiando: “Ho scoperto l’homosex e te lo dimostrerò, brutto invidioso, te lo dimostrerò...”.
Da quel giorno non l’abbiamo più visto, sappiamo solo attraverso i giornali che è diventato giovane, alto, bello, biondo, occhi azzurri e forte, circola in Ferrari “Testa Rossa”, attorniato da uno stuolo di stupende fanciulle che lo sbaciucchiano dappertutto.
Minchiuzzi non è più solo...



Tratto dal romanzo di Natalino Lattanzi Homosex- Si vive di solo pane

giovedì 13 marzo 2008

Les Grands Transparents













LES GRANDS TRANSPARENTS

















Autore: Natalino Lattanzi
Posta elettronica: pekblenda@gmail.com



PROLOGO

Il giorno prima un aereo, un piccolo bimotore da turismo, si era schiantato contro un grattacielo, il “Pirellone”. Uno squinternato aveva deciso di porre fine ai suoi giorni in compagnia di alcuni poveri disgraziati, colpevoli solo di essere presenti nel momento sbagliato sul posto di lavoro.
L’occasione mi parve la più idonea a dimostrare che non per paura avevo sempre cortesemente rifiutato l’invito del mio amico, il capitano Matteo Marsini, ad un volo di ricognizione con un “Tornado” sul capoluogo della mia regione.
Il mio “Alcatel 511” compose automaticamente il numero telefonico di Marsini: gli annunciai che allora o mai più avrebbe potuto “godere” della mia compagnia tra i cirri del nostro bel cielo mediterraneo.
Matteo era profondamente addormentato, quando lo squillo del Motorola gli perforò i timpani, alle cinque del mattino.
Sacramentando, rispose alla chiamata, riconobbe la mia voce e mi mandò a “fanculo” perché era reduce da una nottata trascorsa nel “posto di guardia” del Quartier Generale.
Di fronte al mio aut-aut, fece marcia indietro, se non altro per non perdere l’occasione di divertirsi a mie spese, sicuro che sarei stato costretto a cambiare lo slip non appena rimesso piede a terra.
Come il solito, il parcheggio dell’aeroporto brulicava di piccioni; al rombo della mia potente Alfa 155 SW, s’alzarono in volo depositando al suolo il loro carico intestinale.
Pazientemente mi misi in attesa di Marsini.
Dopo circa dieci minuti e cinque Marlboro Light, il capitano d’Aviazione fece il suo ingresso nell’atrio Aeroportuale, salutato dai militi di guardia.
A me, rivolse un sorriso beffardo e una poderosa “pacca” sulle spalle; ricambiai con una stretta di mano da far scricchiolare le ossa. La smorfia di dolore che comparve sul suo volto mi inorgoglì.
Con i capelli ancora scomposti per le giravolte operate dal cranio sui cuscini, Matteo mi indicò ai sottoposti per consentirmi l’accesso nell’area aeroportuale: no problem.
Non appena varcata la barriera d’accesso alle piste di decollo, un brontolio lontano si levò dal cielo annunciando la comparsa di un nembo temporalesco.
“E’ la solita iella che mi perseguita”- dissi a me stesso, consapevole di non poter più tirarmi indietro.
Marsini sorrise beato, pregustando la mia debacle.
Anche se non ho un cuore da “Lancillotto”, non ho mai dovuto far ricorso ad antidiarroici per frenare sconvolgimenti intestinali dovuti a cali improvvisi di adrenalina.
I tornado non erano ancora “tornadi”, come mi parve di capire dall’insofferenza che mostrò Matteo non appena si accorse che gli hangar erano vuoti.
Un TB9 ad elica con doppi comandi, carico di stemmi variopinti e di motti inneggianti alla vittoria troneggiava ai bordi della pista riservata all’Aero Club cittadino. Sciorinando una litania non pienamente condivisa dal tenente cappellano, Marsini mi pilotò verso il vecchio monomotore.
“Andremo con questo!”- mi informò a voce alta.
Il vento soffiò minaccioso.
Mi feci coraggio e mi dichiarai pronto a seguirlo.
Marsini si avvicinò all’aereo per effettuare i controlli di rito.
E’ bene chiarire che i controlli pre-volo consistono (li recito così come mi tornano a mente) nel verificare le condizioni generali dell’interno della cabina, i vetri del cruscotto, i comandi, gli strumenti, l’integrità del muso anteriore sia a sinistra sia a destra, la capotattura del motore, il carrello, i piani di coda, la libertà di movimento degli alettoni, le parti fusoliera anteriori a destra e a sinistra, l’integrità di tutte le parti esterne ed interne, la quantità di olio, l’integrità dell’elica e dell’ogiva, dell’ala destra e sinistra, la quantità di carburante, gli alettoni, il flap e, infine, la fusoliera destra e sinistra posteriore. Ma a Matteo, naturalmente, fu sufficiente una sola occhiata per dichiararlo idoneo al volo.
Con un cenno del capo, mi invitò a seguirlo in cabina.
Dal cielo cadevano già le prime gocce, quando mi lasciai andare, rassegnato, sul sedile del copilota.
Sbirciai il mio amico mentre avviava il motore.
Marsini è un uomo non ancora trentenne, alto, vigoroso nel fisico, di bell’ aspetto: occhi grigio- verde tipo carnet d’assegni della Comit, capelli biondo-rossicci come i 50 cent di € che ci fornisce lo Stato, dentatura di un nitore da nebbia in Val Padana, coraggioso ai limiti dell’incoscienza. Lo conosco da tre lustri circa: io ero un “professore” piuttosto affermato, lui un diciassettenne allampanato in cerca d’aiuto.
Gli propinai qualche lezione d’Italiano ed eliminai la sua terribile pronuncia emiliana: da quel momento fu mio. L’ho svezzato quando ha discusso la tesi di laurea su “La culinaria delle popolazioni boscimane prima della scoperta dell’apriscatole”. Ora Matteo si esprime in perfetto volgare pugliese, colorito di varie attribuzioni linguistiche del bacino mediterraneo, che fanno del nostro dialetto un rebus di difficile soluzione per la maggior parte delle popolazioni italiche.
Le pale dell’elica disegnarono la prima circonferenza, poi la seconda.
Poi non le contai più.
La macchina infernale si avviò sulla pista.
L’asfalto correva sotto di me. Le sue strisce bianche s’inseguivano come uno stormo di colombe pronte a spiccare il volo.
Chiusi gli occhi…


I miei nonni

I miei nonni paterni, Raffaele e Carmela, a sessant’anni erano ancora innamorati, l’uno dell’altra, come due diciottenni.
Abitavamo nello stesso appartamento e occupavano la stanza più grande, arredata con un lettone matrimoniale in ferro battuto verniciato e istoriato da fiori di campo dai bellissimi colori, un armadio immenso, un canterano sormontato da una specchiera, una poltrona in cuoio rosso antico e un dondolo del’700.
Li sentivo, di notte, parlare a lungo, sotto voce, con le note basse e suadenti di mio nonno, colonnello dell’Aviazione, e i toni sensualmente arrochiti di mia nonna, maestra in pensione della gloriosa “Leonardo da Vinci”, fucina di tanti “ingegni” della nostra città.
Si erano incontrati, la prima volta, in un paesino d’Abruzzo, circa mezzo secolo prima e si erano innamorati a prima vista: lui bello, biondo, alto, occhi color mare, in divisa, quasi un dio agli occhi di lei; lei esile, slanciata, occhi color castagno, capelli neri e labbra rosse come i tulipani del mese di maggio, quasi una dea agli occhi di lui. Avevano aggirato l’ostracismo del padre di lei, un antimilitarista renitente alla leva, graziato dal governo Giolitti, e si erano sposati, in una notte di fine estate, il 29 Agosto, con la sola benedizione del papà di nonno Fae.
La loro vita si era svolta dolce, ma malinconica per la “maledizione di Bernardo”, il padre di mia nonna, artefice di un anatema nei confronti della giovane coppia.
Dei sei figli nati dalla loro unione, infatti, solo mio padre, il più piccolo, era sopravvissuto alla maledizione del “vecchio” e aveva riempito con le sue grida di gioia le stanze della casa paterna.
Nelle sere d’inverno, quando la televisione era ancora solo un miraggio, mia nonna, davanti il braciere d’ottone, mi prendeva sulle ginocchia e raccontava. Raccontava della sua giovinezza, del suo incontro con quel giovane che le aveva “rubato” il cuore, dell’ostinazione di suo padre, della solitudine di sua madre, povera donna analfabeta, abituata a obbedire senza riflettere, come un asino carico sul basto sino a scoppiare, ma fedele, obbediente, rassegnato. Riandava agli incontri segreti, ai primi baci strappati al tempo che, inesorabile, trascorreva veloce tra le braccia di lui; agli studi interrotti e poi ripresi, a Roma, col suo cavaliere alato che dondolava le ali dell’aereo quando sorvolava il convento delle suore Orsoline alle porte della città eterna.
Mio nonno era stato uno dei pionieri dell’aviazione, su quelle macchine volanti fatte di tela e “cartone”, ruggenti e graffianti nelle mani di quei temerari che, fra i primi, osarono sfidare la gravità della terra.
Sin da ragazzino era stato un “enfant terribile”.
Era nato il 15 giugno del 1897 e a soli diciotto anni era già nei teatri di battaglia con il grado di sottotenente pilota. L’amore per l’aviazione era sorto in lui quando aveva solo quattordici anni, il 4 giugno del 1911, in occasione della prima manifestazione aerea tenutasi a Bari, per celebrare il cinquantenario del Regno d’Italia.
Il mio bisnonno paterno, nonno Vito, aquilano, era un appassionato di aerei e approfittò dell’occasione per spingersi nel capoluogo pugliese in compagnia del figlio.
Lì nacque in nonno Fae la passione per il volo che condivise con il padre per tutta la vita.
Il sindaco di Bari, Giovanni Capruzzi, per dare risalto all’avvenimento, aveva invitato a gareggiare aviatori di fama internazionale, quali il francese Elie Mollien e la belga Elene Dutrieu.
Il campo d’aviazione era situato in una vasta zona, quasi nel centro della città, in quello che oggi è chiamato “Corso Mazzini”, denominata “Campo Marisabella”.
In origine non era che un terreno paludoso che la duchessa di Bari, Isabella d’Aragona aveva fatto prosciugare per bonificarla dalle zanzare.
Le esibizioni dei due aviatori stranieri entusiasmarono tanto nonno Fae che, quel giorno stesso decise quale sarebbe stato il suo futuro.
A venti anni, il 4 ottobre del 1917, con Gabriele D’Annunzio, era già nella formazione di quattordici velivoli Caproni da bombardamento, comandata dal maggiore Armani che flagellò la flotta austro-ungarica ancorata nelle Bocche di Cattaro, per vendicare il bombardamento di Brindisi del 27 settembre. I nostri aviatori percorsero 400 Km sull’Adriatico, con l’aiuto della sola bussola, consapevoli che in caso di avaria o abbattimento si sarebbero inabissati in soli 17 secondi.
L’impresa riscosse tanto successo da divenire leggendaria e spinse gli Stati Uniti a scegliere, per la linea di bombardamento, il nostro trimotore su cui si addestrarono i migliori aviatori americani, al comando del futuro sindaco di New York, Fiorello La Guardia, figlio di emigrati italiani.
Raccontava, mia nonna, della “grande guerra”, delle maschere antigas, delle battaglie aeree, della fame e della carestia, della sofferenza nell’attesa della lettura dei bollettini sugli eroi che avevano donato la vita per la Patria, del sollievo nel non scoprire “quel nome” tra i caduti.
Brillavano i suoi occhi al ricordo della fine dell’incubo, ai baci appassionati di “Fae”. Riandava dolorosamente, con la mente, ai cinque aborti dei primi nati, tutti al nono mese, bellissimi angeli generati per far da corona, in cielo, alla vita raminga, di città in città, cui erano costretti per via dei vari trasferimenti di mio nonno.
Raccontava di mio padre, dei primi suoi passi, delle birichinate infantili, dell’odio per lo studio e del grande amore per la lettura e il volo, della sua fantasia che andava oltre i confini della scienza nel desiderio di svelare i misteri dello spazio infinito.
Quando le chiedevo, però, di narrarmi le avventure di guerra di mio padre, lei, con gli occhi che si accendevano come due stelle filanti, mi diceva con voce tremante: “Tornerà… vedrai che tornerà…” – poi si alzava stancamente dalla seggiola a dondolo e, a capo chino, si asciugava i lacrimoni che le solcavano le guance…
Il rumore monotono delle spazzole tergicristallo mi richiamò alla realtà: cavolo! Eravamo in volo, circondati da cumuli nembi grigi, carichi di pioggia che ticchettava sul parabrezza infrangendosi in mille stille.
Il cielo plumbeo, malinconico, circondava il monorotore da tutti i lati e creò nel mio estremamente conscio un’atmosfera piena di souspence.
Il risolino aperto e malizioso di Matteo mi colse come un pugno nello stomaco.
“Come, io, nipote e figlio d’aviatori, sono qui tremebondo, spaventato per un voletto condito da un po’ di pioggia?”- dissi a me stesso, vergognandomi del panico che impediva alle mie corde vocali di articolare qualsiasi suono che potesse definirsi umano.
Finsi di rischiararmi la gola, per un improvviso attacco di raucedine.
Quando riuscii a dominare la tensione che mi aveva gettato in quello stato di prostrazione, recuperai la voce e con tono freddo e sicuro chiesi a Matteo come mai si divertisse così tanto.
“Ehi, prof, te la stai facendo sotto!” – rispose divertito il mio capitano.
“Ragazzo, - dissi sbottando a mia volta in una risata così convincente che avrebbe ingannato anche il più scafato degli psicologi – non dimenticare che provengo da due generazioni di aviatori!… Ero soprappensiero, ho tralasciato alcuni impegni importanti per concedermi questa passeggiata. Spero di non pentirmene”.
Matteo mi guardò fissamente per un attimo, abbozzò un sorriso e… mi affidò la cloche.
Fu come se mi avesse messo tra le mani un uovo sodo appena estratto dall’acqua bollente.
Il volantino s’incollò ai miei palmi e puntò l’aereo verso l’orizzonte, dove cielo e mare sono un tutt’uno, dove non c’è che l’infinito, con tutte le sue incognite, a ricordarci la fragilità della nostra natura, dove un nembo nero diventa il più alto dei monti: il monte Athos.

Mio padre
Mio padre aveva ereditato da nonno Fae i caratteri somatici e la passione per il volo. Si era diplomato senza molta fatica, a diciotto anni, nel liceo classico di Pescara e subito dopo aveva frequentato l’Accademia di Pozzuoli. Con il grado di tenente fu assegnato dapprima alla zona aeroportuale di Siena, poi a Ciampino e, successivamente, al Comando Aeronautico di Pescara, dove aveva conosciuto, amato e sposato mia madre, una giovane liceale di diciassette anni. Quando l’intera civiltà fu sconvolta dal secondo conflitto mondiale partì con la sua squadriglia. Non ancora trentenne, si schiantò, col suo aereo, quel ventisette gennaio del ’43, sul monte Athos, in Grecia, durante una tempesta di neve e fu dichiarato disperso. Il suo corpo non fu ritrovato. A nulla valsero le affannose ricerche della sua squadriglia, mai rassegnata alla scomparsa del comandante, e di mio nonno, che da quel giorno si offrì volontario per tutte le missioni di salvataggio degli aviatori dispersi sul territorio nemico.
Io nacqui esattamente quattro mesi dopo.
Mia nonna rifiutava di rievocare il tormento di quei giorni e, come mio nonno, del resto, per molti anni aveva covato la segreta speranza che un giorno mio padre avrebbe fatto ritorno. Infatti non si era rassegnata alla sua morte e lo aspettò fiduciosa sino al Natale del ‘54, sicura che suo figlio, sarebbe tornato a casa, reduce da una lunga prigionia.
Mia madre, al contrario, era fermamente convinta della tragica fine del marito. Dopo cinque anni, quando mio padre fu dichiarato “deceduto” a tutti gli effetti di legge, scelse di terminare la sua vita in un convento di clausura. Non l’ho più rivista viva ed ho guardato senza lacrime le sue spoglie.
Il giorno in cui mia madre andò via, piangendo disperata, disse che era meglio così, che non sarebbe potuta sopravvivere in quella casa, con quei ricordi ogni giorno sotto gli occhi.
Poi prese la mia manina fra le sue, la strinse, la portò alle labbra, la baciò e corse via per le scale, bianca in volto e scomposta nei lunghi capelli biondi.
Ho ricevuto per molti anni sue notizie da un vecchio contadino, in gioventù al servizio dei mie nonni materni, che forniva il convento di alcuni generi alimentari. Ho saputo, così, che spesso piangeva e aveva le mani sciupate dal duro lavoro del ricamo, lei che aveva mani bellissime, diafane ed affusolate. Sì, le sue mani, con le quali ravviava i miei capelli ribelli, quando tornavo sudato dalle lunghe corse nei cortili dell’Istituto in cui studiavo, all’inseguimento di un pallone di cuoio più grande della mia testolina bruna. E’ morta a sessant’anni: un pallido fantasma avvolto in un lungo saio nero.
A cinque anni fui adottato dai miei nonni che ho amato più che se fossero stati i miei veri genitori.
Io dormivo nella stanza accanto alla loro. Mi facevano compagnia le collane di Alessandro Dumas, Giulio Verne ed Emilio Salgari, gelosamente custodite in una vecchia libreria. Completavano l’arredamento una scrivania stile Liberty, in noce; una sedia in paglia di Vienna e un letto a castello che avrebbe dovuto dividere con me un fratello mai nato.



La scelta

L’aereo entrò in posizione di stallo. Vibrava scotendomi le reni e le tempie.
Guardai Marsini fingendo noncuranza.
Matteo a sua volta mi osservò sperando di cogliere, finalmente inequivocabilmente, i segni del panico sul mio volto.
Io raccolsi tutto me stesso in un autocontrollo che manco Saddam Husseim, quando fu bombardato, la notte fra il 19 e il 20 marzo del 2003, fu capace di ostentare al suo popolo appiccicato alle televisioni.
“Ed ora che fai per riprenderlo?” – chiesi con timbro alla Pavarotti.
“Sei tu ai comandi!” – ribatté il mio amico-nemico, con voce non proprio ferma, afferrando, comunque, il volantino del posto di comando.
Non so ben dire cosa mi accadde in quel momento. Tutt’a un tratto mi sentii il “barone rosso”, il padrone dei cieli, l’incontrastato signore delle nuvole e detti manetta, a sfidare la forza di gravità che mi voleva spiaccicato al suolo.
Il TB9 riprese quota. Guardai l’anemometro, cioè l’indicatore di velocità, e vidi che segnava 80 nodi, circa centocinquanta km orari. Lo sguardo all’orizzonte artificiale mi indicò che ero in assetto. Detti ancora gas: novanta nodi, quasi il massimo per quel monorotore. Tirai a me il volantino e puntai verso le nuvole…
Marsini riprese il controllo dell’aereo.
Con soddisfazione notai le perline di sudore che bagnavano la fronte del mio giovane amico.
Una poderosa pacca sulle mie spalle vendicò l’ansia del mio ex alunno: “Mi hai fatto prendere una strizza! - disse con voce roca- cosa ti ha preso? Potevamo “entrare in vite!”.
Io, al contrario, ero fiero di me stesso: avevo finalmente vinto la paura del volo.
E beh, non posso negarlo: ho sempre avuto il sacro terrore di librarmi in volo. E’ una paura che mi perseguita da quando ho visto nonno Fae precipitare in mare durante un volo di ricognizione. Il T6 Texan che pilotava si piantò durante una virata e cadde a piombo nell’Adriatico. Lo testimoniava la ripresa effettuata dall’istruttore di un aereo scuola in attesa di dare i primi rudimenti del volo a un impaurito allievo che da quel giorno non ha mai più messo piede su una macchina volante.
Mio nonno, per fortuna, ebbe il tempo di lanciarsi fuori dell’aereo e tornò sano e salvo.
Io, quel giorno, decisi il mio futuro: avrei fatto il professore, con i piedi ben piantati per terra, dietro una cattedra.
Mio nonno non ne soffrì.
Nonno Fae era un uomo “tutto d’un pezzo”, sempre pronto a lottare per ciò che gli era a cuore, a non arrendersi di fronte ad alcuna difficoltà e a “mostrare i denti” a chiunque osasse interferire nelle questioni della sua famiglia. Alto un metro e ottantatré, biondo, occhi chiari, fronte spaziosa, forte come un leone, ardimentoso come una tigre, al termine della seconda guerra mondiale, dopo il referendum popolare che istituì la Repubblica Italiana, cinquant’anni appena compiuti, col grado di tenente colonnello, fu nominato comandante dell’aeroporto militare di Bari-Palese, in Puglia.
Io avevo cinque anni, quando, su di un triciclo rosso e blu, per la prima volta, assistetti alle sue evoluzioni nel cielo azzurro. Con tanto d’occhi sgranati e con la boccuccia aperta, guardavo quell’uccello di ferro che, rombando, lasciava una traccia di fumo bianco in quel cielo terso.
Mia nonna osservava il mio viso e rideva divertita dalle espressioni del mio volto.
Era il tredici agosto del cinquantatre quando il vecchio Bernardo scese dai monti d’Abruzzo per incontrare sua figlia Carmela, prossimo, come avvertiva, all’ultimo passo verso l’ignoto.
.Sofferente di cuore, malfermo sulle gambe, ma sempre terribile d’aspetto e d’animo, il mio bisnonno chiese d’incontrare mia nonna da sola.
Nonno Fae acconsentì a condizione che l’incontro si svolgesse nel suo ufficio in aeroporto.
Bernando non mosse obiezioni.
Io tenevo stretta la mano di mia nonna quando padre e figlia s’incontrarono.
Bernardo, alto, grosso, rosso in volto e nei capelli striati di bianco, occhi stranamente neri e lampeggianti, mi guardò, mise una mano sulla mia spalla, mi soppesò con lo sguardo: “Neppure venti kg- disse con disprezzo- è rachitico!”.
Io, per nulla intimorito, guardavo con curiosità quell’omaccione sgarbato, rozzo, dall’aria cattiva.
Mia nonna, di una bellezza eterea, pallida, con gli occhi fieramente nei suoi, sibilò: “Ha solo dieci anni, ma è forte come suo padre e coraggioso come Fae”.
“Non m’importa- si spazientì Bernardo- non lo voglio tra i piedi!”.
“Non so a chi affidarlo- rispose con voce ferma mia nonna- deve restare con me!”
Bernardo le lanciò uno dei suoi terribili sguardi e insisté: “Dallo ad uno dei soldati, all’attendente di tuo marito… ti ripeto … non lo voglio trai piedi!”.
Nonna Carmela, senza parlare, si avviò verso l’uscita. Giunta sull’uscio, si girò, guardò fissamente il padre con aria tra addolorata e rassegnata e gli disse che non era il caso di continuare quella farsa, poiché lui non era cambiato per niente.
“Carmela!” – la richiamò con durezza Bernardo.
Mia nonna finse di non sentire.
Nonno Fae ci venne incontro con il solito sorriso accattivante. Sfiorò i miei capelli con una carezza leggera; rassicurò sua moglie con un lieve bacio sulle labbra e affrontò Bernardo senza dargli il tempo di uscire dall’ufficio.
Bernardo avvertì la stessa sensazione di un leone in gabbia quando la porta fu richiusa: odiava nonno Fae e ne provava timore. Covava un rancore fermo e incrollabile nei confronti del giovane ufficiale che gli aveva portato via sua figlia, verso la quale nutriva un affetto quasi incestuoso.
Il mio bisnonno, infatti, aveva deciso che nonna Carmela avrebbe dovuto sposare un uomo scelto da lui.
Era un po’ la tradizione del tempo, specie nel Sud, che i matrimoni fossero legati alle scelte dei genitori.
Bernardo non era dissimile dai suoi coetanei.
Sua figlia costituiva un buon partito e, tra i tanti pretendenti, aveva scelto un proprietario terriero di vent’anni più grande di nonna Carmela. Con i futuri consuoceri aveva stabilito che il matrimonio si celebrasse di lì ad un mese per evitare eventuali “alzate di testa” . In pochi giorni aveva organizzato tutto con don Alberto, il parroco, e aveva fissato il giorno delle nozze.
Quel mese fu il più terribile e il più dolce per mia nonna .
Nonno Fae era un uomo rapido nelle decisioni, fermo nei principi.
Poche parole sussurrate nel cuore della notte, per evitare che qualcuno assistesse ai loro incontri, furono sufficienti a organizzare la fuga.
Bernardo impazzì di rabbia e cercò di cancellare dalla mente i ricordi legati a nonna Carmela. Il tempo, però, piuttosto che placare il suo animo, lo inasprì ancora più.
Bernardo, infatti, rimuginava vendette terribili. Preso da una furia incontenibile sfogava la sua amarezza infierendo sulla povera Adalgisa, la moglie fedele, unica e vera vittima della pazzia del vecchio contadino, colpevole di aver favorito la relazione tra i due giovani “ribelli”.
Alla fine del conflitto, terminata l’avventura fascista, di cui era stato un tenace oppositore, aveva aderito entusiasticamente alla DC, tanto da ricoprirne la carica di segretario regionale. Ma neppure le gratificazioni che gli provenivano dall’impegno politico erano riuscite a fargli dimenticare l’onta subita e perdonare sua figlia.
Per dimenticare, Bernardo aveva concentrato la sua attenzione sull’azienda che in pochi anni aveva trasformato in un’immensa masseria con stalle per cavalli importati da Spagna, Portogallo e Arabia, destinati alla riproduzione. Insaziabile come un avvoltoio a pancia vuota, aveva investito parte del suo denaro nell’acquisto di beni all’incanto e aveva razziato patrimoni di grande valore con pochi soldi, lasciando nella disperazione intere famiglie di imprenditori sfortunati e di semplici lavoratori. Speculando in borsa, infine, aveva aggiunto al suo già considerevole patrimonio un consistente numero di azioni delle più solide industrie del Paese, ottenendo il rispetto riverenziale della classe politica italiana e dei grandi capitalisti.
Giunto in età avanzata, stanco, aveva affidato la gestione dei suoi beni a un commercialista senza scrupoli che in breve si era impadronito della maggior parte della ricchezza accumulata dal vecchio e aveva fatto ricadere su di lui l’accusa di bancarotta fraudolenta per le enormi somme che i creditori, compreso gli istituti bancari, vantavano nei suoi confronti.
Bernardo aveva smaltito con grande sofferenza il grave colpo inferto al suo patrimonio, ma aveva comunque trovato la forza di reagire. I rapporti confidenziali con gli alti esponenti della DC, e in particolare col ministro delle finanze di uno dei tanti governi democristiani, gli consentirono di farsi rappresentare in tribunale da un’equipe di avvocati tra le più valide del Paese e di essere assolto anche in Cassazione dall’accusa mossagli contro. Neppure la condanna del malfido commercialista, purtroppo, aveva apportato alcun beneficio al mio bisnonno, perché, frattanto, il furfante era fuggito in una regione non identificata dell’Africa, portando con sé i proventi delle sue malefatte.
In tanto dissesto, solo la masseria, la “Melina”, restava a ricordo dei vecchi fasti.
Colpito da infarto, Bernardo si era finalmente rassegnato a morire, ma la sua fibra, forte e caparbia quanto lui lo aiutò a superare la malattia..
La gioia per lo scampato pericolo fu di breve durata: un avvenimento terribile sconvolse la sua vita.
La fida Adalgisa, sua compagna da oltre cinquant’anni, fu stroncata da un cancro fulminante.
Sul letto di morte, la mia povera bisnonna gli fece promettere di ricercare la figlia, di rappacificarsi con Fae e di dedicare i suoi ultimi anni a ricostruire quegli affetti familiari che aveva distrutto con la sua malvagità.
Bernardo aveva promesso già sapendo in cuor suo che mai si sarebbe umiliato di fronte ai miei nonni e che il suo giuramento, primo e ultimo omaggio alla moglie in mezzo secolo di matrimonio, sarebbe rimasto inadempiuto, tanto era il rancore che provava.
Poi la solitudine, il disinteresse dei parenti, il malinconico svolgersi dei giorni nella monotonia della campagna lo avevano spinto a riflettere sulla sua condizione di vecchio solo e malato, conducendolo alla decisione di tentare di rispettare l’impegno preso con Adalgisa.

Bernardo

Il TB9 rollò sulla sinistra impegnandosi in una sfogata veloce e repentina.
Ebbi l’impressione che lo stomaco mi fosse giunto in gola, mentre una sensazione di perdita di peso invadeva il mio corpo.
La risata fragorosa di Matteo mi riscosse: “Cagato sotto, eh?”.
Ancora una volta l’orgoglio mi spinse a negare: “Col cacchio!- gli urlai nell’orecchio destro col fiato che mi rimaneva in gola- mi stavo addormentando!… Piloti questo giocattolo come fosse un carretto! Cosa ti hanno insegnato a Firenze, alla scuola di guerra, che gli aerei vanno incitati come i cavalli?”.
Marsini mi guardò stupito: “Ma che dici… mi sto controllando per non causarti un infarto e tu mi paragoni a un carrettiere?”.
Lo consolai dandogli un buffetto sulla guancia rasposa: “Non pensarci, è che non sono in giornata, che mi piacerebbe una guida più sportiva per allontanare i cattivi pensieri”- gli risposi facendo forza su me stesso per non dargli ad intendere quanto mi avesse colto di sorpresa l’evoluzione di poco prima.
Non dette molto credito alle mie parole.
“Se proprio vuoi provare la vera ebbrezza del volo ti accontento subito”- ghignò il mio capitano ancora un po’ risentito.
“Lascia perdere… non è necessario che mi mostri quanto sei bravo… scherzavo… forse è meglio tornare”- e ostentai una tranquillità che non avevo, mentre imprecavo contro me stesso per aver sparato una panzana di quelle dimensioni.
Matteo, purtroppo per me, era già su un altro pianeta.
Il TB9 sussultò, ruggì, sputacchiò i fumi di scarico e s’impennò nel cielo che d’un tratto si era fatto ancora più buio.
Un lampo illuminò la cabina di pilotaggio ed io rimasi folgorato come Paolo sulla via di Damasco.
Una vocina tutta interna, intima, amica, mi diceva di raccomandare l’anima a San Teodoro, il primo che mi venne in mente, mentre l’altra, orgogliosa, impavida mi consigliava di riprendere i comandi del velivolo e di dare una lezione al giovane imprudente.
La riflessione, invece, mi invitava a non aprire più bocca nella speranza che il capitano sfogasse la sua indignazione in pochi secondi e mi riportasse a terra.
Non ne azzeccai una.
Matteo, invasato, effettuò un Tonneau.
Il Tonneau è una manovra proibita ai TB9 e simili. Consiste in una rotazione completa sull’asse longitudinale, quello che va dall’ogiva alla coda dell’aeromobile.
Durante la rotazione, per non avere un’eccessiva perdita di quota, è necessario eseguire il Tonneau a “botte”, così chiamato in quanto l’aereo ne disegna la figura nel cielo.
Sin qui, tutto bene, diciamo; ma il guaio consiste nel fatto che per ottenere il risultato desiderato, è necessario acquistare una velocità di 120, 130 nodi e cabrare. Dopo aver atteso circa tre secondi con il muso dell’aereo ben alto nel cielo, inizia la rotazione che deve essere effettuata il più velocemente possibile per non ritrovarsi, poi, in una picchiata senza fine. Durante la fase di volo rovescio, inoltre, se si diminuisce la velocità di rotazione, si tenta di mantenere l’aeromobile in volo livellato, cioè senza perdita o acquisto di quota spingendo il volantino, altrimenti insorgono problemi di alimentazione.
Beh, che debbo dirvi, è come se decidessimo, tutt’a un tratto di non rifocillarci, di non assumere calorie mentre stiamo dando il massimo di noi stessi.
Il motore è come noi: inizialmente tende a perdere giri e poi si spegne se non si pone fine allo sforzo.
Forse a questo punto avrete capito cosa provai in quei pochissimi, ma lunghissimi secondi in cui il mio “nemico” compì la manovra.
Ad un certo punto vidi la terra così vicino che fui sicuro di spiaccicarmi al suolo.
Con i capelli ritti per la posizione innaturale, ma soprattutto per la “fifa”, urlai a Matteo di rimettersi in quota.
A testa in giù mi rispose che era ciò che stava tentando di fare.
Quando la capottina sfiorò il terreno per alzarsi in un altro volo rovesciato con un’audacissima cabrata, seguita da un ulteriore Tonneau, sacramentai come un turco e mi dichiarai vinto.
Matteo fece riacquistare al TB9 la posizione orizzontale ed io mi lasciai andare sul sedile, rilassato, felice quasi…
La porta dell’ufficio si chiuse alle spalle di nonno Fae quasi senza rumore.
Bernardo si fermò con la mano sulla maniglia, pronto ad andare via se la discussione fosse andata diversamente dai suoi intenti.
Mio nonno gli indicò una poltrona e lo pregò di accomodarsi.
“Non ho nulla da dirti - pronunciò a denti stretti il mio bisnonno – mi attendono, debbo andare”.
Ad aspettarlo, in verità, c’era Alfredo, il vecchio autista di casa Fanelli, fedele come un cane, lungo e con gli occhi arrossati dal fumo delle innumerevoli sigarette che consumava una dietro l’altra. Alto e magro, bianco di capelli, ma scuro di carnagione, era figlio di un soldato italiano e di una donna libica che il padre aveva conosciuto durante la Campagna d’Africa.
Nonno Fae insisté: “Siediti, è giusto chiarirsi una volta per tutte”.
Bernardo, vincendo il timore che lo aveva pervaso, si lasciò andare sulla poltrona.
Fae lo guardò fissamente negli occhi: “Il passato è la storia che ciascuno di noi porta nel suo cuore…-fece una pausa – non è possibile cancellarlo… è possibile, però, guardarlo con occhi nuovi, con mente serena, libera dalle passioni che ci hanno condotto a certe azioni, a certi atteggiamenti…”
“Il passato- lo interruppe Bernardo in un empito d’orgoglio- è la storia del nostro presente, della nostra situazione attuale. Se io avessi avuto mia figlia con me, oggi non sarei qui a mendicare compagnia, amore, solidarietà. Mia figlia sarebbe una “signora”, non la moglie di un militare, guiderebbe la nostra azienda, sarebbe circondata da servitori e da spasimanti, avidi del suo denaro, non avrebbe un orfanello per nipote e godrebbe dei sacrifici di suo padre…”.
“Non sei cambiato per nulla- lo interruppe nonno Fae- con un sorriso amaro. – sei sempre il solito egoista, egocentrico e cinico…”
La porta si aprì all’improvviso e mia nonna ed io varcammo la soglia della stanza.
Nonna Carmela aveva gli occhi lucidi, non so se per il furore, la pietà o il disprezzo.
Io, invece, tremavo aggrappato alla sua mano piccola e vellutata.
“Papà- disse con voce decisa- non so perché sei qui. Se sei qui, non a mendicare, ma a chiedere amore, compagnia, solidarietà, ti riconosco come padre, ma se sei venuto per insultare, per confermare il tuo disprezzo per Fae e mio nipote, ebbene, questa è l’ultima volta che incontri tua figlia. Sai- gli disse- mentre mi spingeva verso l’uscio- il guaio è che tu non sai chiedere, pretendi! L’orgoglio ti divora da sempre e ti peggiora!”.
La virata mi colse impreparato.
Non so se avete mai assistito ad una “virata sfogata”.
Io si.
Mentre ero assorto nei miei pensieri mi sentii risucchiare per l’ennesima volta lo stomaco in gola: l’aereo virò di 180° e “sfogò” la sua velocità salendo con grande “angolo di assetto” in cabrata per poi invertire la rotta.
Rividi avvicinarsi paurosamente il suolo e pensai nuovamente che vi ci saremmo spiaccicati.
Il clacson di un automobilista impaurito dal rombo e dal raccostarsi del TB9 mi spinse istintivamente ad afferrare il volantino che, per fortuna, Matteo teneva ben stretto fra le mani. Ciononostante l’aeromobile “sculettò” e per un istante sembrò andarsene per i cavoli suoi.
Matteo mi gridò di starmene al mio posto, minacciando di lanciarmi fuori se avessi ancora tentato di intervenire.
I militari, si sa, hanno un linguaggio molto colorito ed efficace, per cui mi scusai e ripresi l’atteggiamento disinvolto che aveva caratterizzato sino a quel momento la mia passeggiata nei cieli mediterranei: in altre parole mi maledicevo per aver deciso di imbarcarmi in quella avventura.
Marsini cominciò a fischiettare una canzone del ventennio, sapete, quella che fa: “Allarmi, allarmi, allarmi siam fascisti…”: Non so se lo facesse per irridermi o per manifestare un nostalgico sentimento; ma se il suo scopo era quello di allarmarmi vi riuscì ampiamente.
Fatto riprendere quota e velocità al TB9, cabrando alla massima velocità consentita da quel giocattolino, non so come, Matteo effettuò un “frullino”, cioè un tonneau a ritmo velocissimo.
Io, ormai, ero rassegnato: mi aspettavo di tutto, per cui non emisi un gemito, un sospiro che potesse gratificare il mio amico per l’imprudenza e la spericolatezza delle sue manovre.
Col capo semi abbandonato sullo schienale del mio seggiolino, assistevo apatico allo spettacolo rappresentato a mio esclusivo maleficio.
Il capitano, invece, sicuro di scatenare in me altre sconsiderate reazioni, mi guardava sottecchi, abbozzando di tanto in tanto un sorrisino malizioso; quando, però, si rese conto che avevo assunto una dimensione catartica, che mi liberava da tutto ciò che era reale per spingermi a immedesimarmi nel nulla eterno, deluso, placò i suoi bollenti spiriti.
Il matrimonio, sia dal punto di vista religioso che civile è, istituzionalmente, il “remedium passionis”, cioè il mezzo per consentire la soddisfazione del piacere dei sensi.
Ebbene, Bernardo, cattolico osservante, aveva sposato la dolce Adalgisa esclusivamente per non essere costretto a frequentare postriboli, data l’enorme carica erotica di cui la natura l’aveva provvisto.
Mai nel suo cuore aveva albergato un sentimento diverso dalla passione, dal desiderio di possedere sia fisicamente che psicologicamente la sua donna; mai avrebbe pensato che sarebbe giunto ad aver voglia di Adalgisa solo come presenza affettiva, come conforto alla sua disperata solitudine.
L’orgoglio pazzo e vano, solo l’orgoglio impediva al mio bisnonno di accettare la nuova realtà che avvertiva prepotente nel suo subconscio e che l’aveva spinto a ricercare la dolcezza, la mansuetudine di Adalgisa in sua figlia Carmela.
Ma mia nonna aveva nel suo patrimonio genetico una determinazione irriducibile, ereditata dalla caparbietà del padre e perciò impossibile a piegarsi, specie se toccata negli affetti più cari.
Io per lei ero il figlio ritrovato, bisognoso di amore e di cure, di conforto e difesa; mentre nonno Fae rappresentava tutta la sua vita, il suo mondo; e ciò la trasformava in una leonessa pronta a difendere i suoi cuccioli da qualsiasi pericolo, da qualsiasi attacco, anche se portato da una persona ugualmente cara.
Remedium passionis, aveva detto don Alberto a Bernardo, fissandolo con severità, quando questi, circa mezzo secolo prima, aveva condotto all’altare Adalgisa.
Don Alberto conosceva Bernardo da sempre: era stato il suo padrino, il suo padre spirituale, il confessore a cui non è possibile nascondere nulla, il giudice silenzioso per ministero pronto ad assolvere o a condannare gli eccessi dell’animo del suo figlioccio.
In punto di morte il sacerdote aveva chiamato a sé Bernardo e gli aveva fatto promettere di tenere sempre una condotta consona alla sua fede, di rispettare e amare la moglie come dono di Dio e non come soddisfazione del piacere.
Bernardo, come suo solito, aveva promesso e non mantenuto, anzi era divenuto sempre più esigente e spietato nei confronti di Adalgisa.
Adalgisa, invece, rassegnata e innamorata di quell’uomo rozzo nel corpo e nei sentimenti, nei primi anni di matrimonio aveva tentato di smussarne il carattere dandogli subito una figlia, certa che il tenero esserino sarebbe stato capace di far emergere quella tenerezza che lei era sicura fosse racchiusa in angolo del cuore di suo marito.
La nascita di nonna Carmela, però, aveva accentuato in Bernardo il senso di potere, di possesso che aveva esteso anche a sua figlia, trasformando la casa in un’oscura prigione, dove carceriere e carcerati divenivano un tutt’uno, fusi dall’emarginazione dei vicini non disponibili ad instaurare un qualsiasi rapporto di relazione con lo scontroso massaro.
E così gli anni erano trascorsi grigi e solitari sin quando non era comparso nonno Fae, l’angelo azzurro che si librava nel cielo.
Bernardo non appena si accorse della simpatia che legava i due giovani, impedì a nonna Carmela di frequentare il giovane ufficiale e di uscire, se non in compagnia di sua madre, pensando che Adalgisa, come al solito, avrebbe assecondato i suoi voleri.
Donna Adalgisa, così come la chiamavano i fornitori della masseria per mantenerne le distanze, invece, aveva deciso che almeno Carmela, sua figlia, si sarebbe liberata di quel cilicio rappresentato da Bernardo.
Alle prime luci dell’alba la mia bisnonna, quando il marito, con i lavoranti, era nei campi, era solita recarsi nella stanza di sua figlia. Lì, da sole, le due donne parlavano di progetti e si confidavano segreti. Quando Adalgisa seppe di nonno Fae fu dapprima presa da sconforto e paura, poi, facendo forza su se stessa, cominciò a favorire gli incontri tra i due giovani e a esortarli a non lasciarsi condizionare da Bernardo e a fuggire.
Nonna Carmela, confortata dal sostegno della madre, colse l’occasione il 13 maggio del 1919.
La Tempesta


Il rombo di un aereo mi scosse dai ricordi.
Immediatamente il nostro TB9 cominciò a volteggiare nel cielo senza guida.
Matteo imprecò contro il disgraziato pilota dell’aeromobile militare, un Tornado, che a velocità supersonica, si era avvicinato paurosamente alla nostra rotta, quasi in formazione, senza rispettare i corridoi previsti dal piano di volo.
Il TB9 sembrava una piuma lasciata in balia del vento, come quella di Forrest Gamp, solo che noi non avevamo cioccolatini da offrire, ma solo preghiere da dedicare ai nostri santi protettori, affinché ci consentissero di riprendere il normale assetto di volo.
L’onda d’urto sembrava non esaurire mai la sua forza e ci trovammo, in breve, in un nembo spaventosamente nero, dove né bravura, né esperienza ci avrebbero aiutati a venirne fuori.
Il distacco dei “filetti fluidi” ci aveva posto in una condizione permanente di stallo. L’aereo tremava come un fuscello, sbattuto dalle correnti che circolavano impetuose sopra e sotto di noi.
Marsini, sudato come non mai, si sforzava di venir fuori da quel vicolo cieco facendo ricorso a tutti i trucchi del mestiere.
Io, invece, inebetito dalla situazione, avevo perso la cognizione del tempo e dell’orientamento, per cui non sapevo neppure se ci trovassimo a testa in su o in giu.
Uno squarcio di cielo azzurro apparve improvvisamente dinanzi ai nostri occhi.
Senza frapporre indugi, Matteo raccolse le sue forze e tirò a sé il volantino in un tentativo di cabrata veloce.
Il TB9 rispose all’appello e si tuffò nell’azzurro alla velocità di novanta nodi. Il sole ferì le nostre pupille (l’ho letto in molti romanzi) e tirammo un sospiro di sollievo: eravamo fuori!
Ma i guai, purtroppo, non erano finiti.
Il TB9 volava come un uccello ferito ad un’ala: pendeva paurosamente a sinistra.
Matteo tentò più volte di mettersi in contatto con la torre di controllo, ma la radio di bordo aveva dato forfait.
I turbini ci avevano condotto chissà dove e solo l’ago della bussola ci dava qualche speranza indicandoci il nord.
Sotto di noi si stendeva una coltre di nuvole minacciose che c’impediva di scorgere il paesaggio sottostante.
Dall’aereo riuscivamo a vedere l’inferno che si stava scatenando sotto di noi: lampi velocissimi e infuocati attraversavano lo spazio sottostante, accompagnati dal brontolio e dall’esplosione di tuoni che percuotevano le nostre orecchie fino quasi a renderci sordi.
Il mio capitano scosse il capo pensieroso e guardò le carte aeronautiche che aveva nella sua borsa di volo.
Io gli chiesi se potessi essergli in qualche modo d’aiuto, ben sapendo che nulla avrei potuto fare per rendere meno arduo il suo compito.
Matteo mi rivolse uno sguardo preoccupato che tentò di mascherare con uno stanco sorriso, poi, dimentico che in un TB9 non si dovrebbe fumare, accese nervosamente una sigaretta, immediatamente imitato dal sottoscritto.
Nella calma quasi irreale che si era creata mentre sorvolavamo lo strato nemboso, detti uno sguardo all’indicatore di carburante: l’ago era sinistramente vicino allo zero.
Matteo mi consolò: l’indicatore era sfasato.
L’aereo barcollava come un ubriaco; il motore sputacchiava fumo nero; noi fumo bianco.
“Mi day… mi day” – diceva vanamente al microfono della radio di bordo il mio amico.
Le nuvole erano certamente basse, ma non per questo meno pericolose.
Matteo decise che l’unica speranza di salvezza consisteva nel tuffarsi nuovamente nei nembi e tentare un atterraggio sulla terra ferma o in mare.
Non potei che essere d’accordo con lui.
Il TB9 virò a sinistra compiendo una sfogata a bassa velocità per non danneggiare ulteriormente l’ala ferita.
Non appena entrammo nel grigio piombo delle nuvole, ci accolse la luce accecante di un lampo e l’aereo entrò nuovamente in stallo.
I turbini che ci avvolsero ci furono compagni sino allo sfondamento completo del tappeto di nubi.
Marsini fu costretto ancora una volta a far ricorso a tutta la sua esperienza per domare i venti contrari smanettando, rallentando, prendendo velocità nei momenti che gli parvero più opportuni e imprecando contro se stesso per aver voluto prolungare il volo.
Come Dio volle “uscimmo a riveder…” il mare.
Di terra ferma manco l’ombra!
Chiusi gli occhi e, caparbiamente, mi rituffai nei ricordi…
“Fae mi attendeva nei pressi della stalla.
Il cuore gli batteva all’impazzata quando mi vide attraversare di corsa l’impiantito e precipitarmi verso di lui: avevo con me solo una valigetta di fibra. Ci abbracciammo senza pronunciare alcuna parola e mano nella mano corremmo sotto il platano. Ci guardammo negli occhi, sorridemmo e ci abbracciammo ancora, con passione.
Fae mi accarezzò le guance infuocate per l’emozione e la corsa e mi baciò teneramente.
La notte era stellata, come può esserlo solo in una campagna incontaminata, riscaldata dai versi dei grilli e magica nella sua complicità.
Il nitrito di Risippo, il baio, risuonò come un saluto d’addio.
Io volsi lo sguardo verso la stalla, agitai la mano mentre due lacrimoni mi scendevano lungo le gote.
Sai -mi diceva mia nonna- è difficile dire addio, dimenticare, abbandonare la casa paterna, la madre, le cose care, i luoghi familiari e sicuri per cominciare una nuova vita in una città estranea, senza legami, sconosciuta…”
Poi riprendeva:
“ Repressi un singhiozzo e il braccio forte di Fae mi cinse la vita.
Il nitrito risuonò ancora una volta, poi fu silenzio.
Un lumicino si accese nella stanza da letto dei miei genitori; una finestra fu spalancata e il volto non ben delineato di mio padre si affacciò a spiare nel buio…
Poi silenzio ancora… a luce spenta.
Ebbi tanta paura che ci scoprisse.
Attendemmo ancora un po’, nascosti sotto il platano.
I grilli ripresero a frinire.
C’incamminammo…”.
Il racconto di mia nonna terminava sempre così: c’incamminammo...


Addio nonno Fae
L’aereo volteggiava con Marsini, che incacchiatissimo, sudato come fosse in una sauna, cercava di recuperarne l’assetto.
Sul mio volto aleggiava un sorriso ebete, non conforme al drammatico momento che stavamo attraversando.
Matteo non ne poté più: “Ma che hai da sorridere, qui ci rimettiamo la pelle!”.
“Non mi distrarre- ribattei tutto convinto- sto rivivendo la mia vita”.
“La tua vita? La tua morte vuoi dire! Io non so più cosa fare!…”.
Aveva ragione.
Il TB9, ormai senza controllo, sembrava un uccello impazzito, senza rotta, disperatamente solo nell’immensità di un cielo nero, tempestoso, implacabile nella sua furia contro noi miseri che avevamo osato sfidare la sua rabbia.
Accesi distrattamente una sigaretta: “Ci salveremo- dissi con voce piatta- ci salverà nonno Fae”: “Chi?- ruggì Matteo- Tu stai impazzendo, amico mio…”
Mi resi conto di aver detto una cretinata, ma la mia fede in nonno Fae era così ferma da farmi sragionare
Il suoT6 Texan si era piantato durante una virata.
Io, quel giorno, come il solito in Aeroporto, scrutavo il cielo incosciente del dramma che si stava svolgendo.
Mia nonna, invece, aveva capito immediatamente che suo marito era nei guai.
“Dio mio!”- esclamò atterrita.
L’ombrello di un paracadute si aprì nel cielo, mentre l’aeromobile si avvitava col muso puntato verso il basso.
Il boato dell’esplosione fu avvertito a qualche Km di distanza.
Le fiamme si levarono alte, mentre il vento sembrava spingere il paracadute proprio verso l’epicentro del fuoco.
L’urlo degli spettatori si confuse con quelle delle sirene dell’autoambulanza e dei pompieri.
Furono ore terribili quelle dell’attesa.
Una Jeep, finalmente, fece ritorno agli uffici aeroportuali. Mio nonno era a bordo, fradicio d’acqua, ma sano e salvo.
Ci stringemmo tutti tre in un umido abbraccio”.
Il TB9 scricchiolava come una noce dalla scorza durissima attaccata da uno schiaccianoci caparbiamente volenteroso.
Matteo, quasi per dovere, ripeteva alla malandata radio di bordo il messaggio di soccorso.
Infastidito dalla sua inutile insistenza, gli ricordai in malo modo che il ricetrasmettitore era rotto.
“Non proprio- mi annunciò il mio amico- riesco ancora a captare alcune frequenze”.
“Sintonizzati con gli annunci mortuari, allora… così sapremo almeno a chi faremo compagnia nel lungo viaggio”.
“Ho capito, ora è il tuo turno di fare il disfattista”- mi disse Matteo con un mezzo sorriso.
In verità era proprio così! In quell’atmosfera sospesa tra la vita e la morte, ciascuno di noi due si lasciava andare alle sue emozioni, alle sensazioni.
Io fidavo molto nelle abilità del mio compagno di viaggio, ma, a volte, mi lasciavo sopraffare dal fatalismo, consapevole di non poter essergli di alcun aiuto.
“Che autonomia abbiamo ancora?” –chiesi a Marsini quasi per sostenerlo con la mia partecipazione.
“Trenta, quaranta minuti al massimo… siamo in volo da più di mezz’ora”.
Apaticamente mi chiesi se saremmo sopravvissuti.
Nonno Fae era sopravvissuto di soli tre anni a nonna Carmela.
Gli ultimi mesi della sua vita furono condizionati da disturbi cardiaci, senza che questi ne modificassero il carattere gioviale.
Ma ciò che non avevano potuto i malanni fisici potettero la malinconia e l’abbattimento per la morte della moglie.
La sognava puntualmente ogni notte ed io lo sentivo mormorare parole dolcissime o di disperazione.
Un giorno mi chiese di dormire nella sua stanza, che non sopportava la solitudine, lui che era abituato a fare con mia nonna, a fine di giornata, il resoconto degli avvenimenti più importanti.
Quel giorno non fu che il primo di tanti.
Trascorsi, così, le notti più tristi e più intense della mia vita.
Si addormentava raccontando della sua partecipazione alle due guerre, della tragicità della morte dei compagni, visti agonizzare per ore senza poterli soccorrere in alcun modo, senza poter alleviare le loro sofferenze. Raccontava, ancora, della dolcezza del ritorno, fra le braccia di nonna Carmela, l’unica donna della sua vita.
Mi diceva di suo padre, notaio nella città di Aquila, in Abruzzo; di sua madre, di cui aveva solo sentito narrare, ma che non aveva mai conosciuto.
Riandava confusamente da un ricordo all’altro, interrompendosi, di tanto in tanto, per riposare il suo cuore affannato.
Io ascoltavo in silenzio e non sapevo trovare parole adatte a risollevare quell’animo disperato, desideroso soltanto di raggiungere la sua compagna.
L’ultima notte fu semplicemente magica.
Eravamo andati a letto dopo aver assistito ad un film, “Forte Alamo”, trasmesso per televisione e interpretato da Jhon Weine, il suo attore preferito.
A lui piaceva commentare le vicende trattate nelle pellicole: quella sera, come suo solito, ne discusse con me.
A un tratto smise di parlare e fece cenno anche a me di fare silenzio; si sollevò con difficoltà dal letto e mi chiese di tirar fuori dall’armadio l’alta uniforme, quella che indossava, quando era in servizio, nelle grandi occasioni.
Stupito gliene chiesi il motivo.
Non mi rispose, infilò le pantofole e indossò la veste da camera.
Nonostante il volto stanco, sembrava ringiovanito. Si rimirò nello specchio, ravviò con le mani forti i capelli ormai bianchi e con passo lento ma fermo si diresse verso il bagno.
Lo sentii mormorare, tra lo scrosciare dell’acqua, un lento motivo dei primi del novecento napoletano, “Carmenella è una bella guagliona”, che lui era solito dedicare a mia nonna.
Sempre più stupito, non osai contraddirlo e, non dall’armadio, ma dal vecchio baule militare, trassi fuori l’alta uniforme, ricca delle decorazioni guadagnate nelle campagne di guerra..
Con sorriso malizioso sulle labbra, nonno Fae si affacciò sulla soglia della camera da bagno e mi pregò di avvisare nonna Carmela che in pochi minuti l’avrebbe raggiunta giù per strada.
Allora non capii.
Il rumore del rasoio da barba, uno dei primi Philips, il taglia erba, la falciatrice elettrica, come dicevamo noi scherzando, copriva il motivetto che mio nonno ripeteva senza posa.
Non sapevo cosa fare.
Nonno Fae mi comparve d’improvviso alle spalle, facendomi sobbalzare per la sorpresa.
L’odore del suo dopo barba, Adams, si diffuse per la camera da letto.
Con un’energia insospettata indossò frettolosamente la divisa.
Al momento di fare il nodo alla cravatta, mi pregò di aiutarlo. A lui piaceva lo “scappino”, ma non sapeva farlo: quello era sempre stato compito di nonna Carmela.
Mi sembrava di essere su di un palcoscenico a rappresentare una commedia di Eduardo.
Noi abitavamo a Bari, in una via centralissima, Corso Italia, nei pressi di Piazza Roma, al numero 19.
Il traffico, anche di notte, era abbastanza sostenuto: vi passava di tutto, dalla ferrotranviaria alle ultime carrozzelle adibite alla visita turistica della città.
Nonno Fae si affacciò al balcone e si rivolse al nulla: “Sono pronto, Carmela, scendo!”.
Un landò scoperto si era fermato vicino il portone della nostra abitazione.
Non era inusuale che una carrozza si fermasse sotto il nostro balcone in attesa dei viaggiatori che desideravano visitare la città. La stazione ferroviaria, infatti, distava pochi metri dalla nostra abitazione.
In qualsiasi altro momento non vi avrei fatto caso, ma non in quella occasione.
Nonno Fae mi salutò in fretta, mentre io in trance assistevo alla scena surreale, e chiuse la porta dell’ascensore.
Inebetito corsi al balcone e, quasi fossi un automa, osservai senza emozioni.
Nonno Fae, a passo lento, si avvicinò al cocchiere e gli sussurrò qualcosa, poi inforcò il predellino ed entrò nella carrozza.
Lo vidi accomodarsi sul sedile, guardare alla sua destra, reclinare il capo e accasciarsi.
Il vetturino, un vecchietto ultra settantenne non si rese conto di nulla e avviò il cavallo con l’usuale segnale: ihia!.
Mi riscossi.
Mi precipitai per le scale e con una corsa affannosa raggiunsi la carrozza.
Con il fiatone feci cenno al postiglione di fermarsi.
Mio nonno giaceva riverso sul sedile, senza vita.

Foto d’Autore


La paura, perfida, subdola, cattiva consigliera aveva pervaso la mia mente.
L’orgoglio, forte e presuntuoso, rifiutava di manifestare il mio stato d’animo.
Dovevo assolutamente cercare un motivo, qualcosa che mi allontanasse dallo stato d’angoscia.
Mi ricordai, all’improvviso, di avere con me la mia macchina fotografica digitale, una Canon Power Shot A10.
Rovistai nella sacca da viaggio e la tirai fuori.
“Ma ti sembra il momento di scattare fotografie?” –mi apostrofò severamente Matteo.
Finsi di non aver sentito e puntai l’obiettivo verso il cielo.
“Che cacchio fotografi, le nubi?”.
“Tu pensa a pilotare l’aereo e riportarmi a casa sano e salvo e non rompermi i cabasisi, come dice Camilleri”- dissi simulando calma e padronanza che, chiaramente, non avevo.
Matteo mi guardò pensando se mandarmi a quel paese o prenderla con filosofia. Optò per la seconda e, con sforzo, sorrise: “Sei sempre il solito… sembra che te la stia facendo addosso e poi mostri un fegato insospettato.
“Guarda!- gli dissi all’improvviso puntando il dito verso sinistra- quello è un aereo militare!”.
Era comparso, infatti, alla nostra sinistra un Tornado, probabilmente quello stesso che ci aveva cacciato in quella situazione. Il pilota, questa volta, non si allineò in formazione, ma cercò di restare a distanza di sicurezza per non creare ulteriori turbolenze.
Matteo non ne sembrò sorpreso e armeggiò con la radio.
Il fruscio delle onde in bassa frequenza si mescolò al gracchiare della radio malandata.
Marsini non si dette per vinto ed insistette.
Finalmente il suono di una voce pressoché umana invase la cabina di pilotaggio: “Qui Muse Due; siamo in ascolto”.
“Qui Alloween, parla il comandante Marsini… siamo in panne… l’ala sinistra non risponde ai comandi… il carburante è quasi in riserva… dateci la posizione… ci siamo persi!”.
“Comandante, la ricerchiamo da quando è scomparso sul radar…”
“Non me ne sbatte una minchia, datemi la posizione e ditemi come potete aiutarci!”.
“L’ala sinistra sembra solo lievemente danneggiata; è probabile, piuttosto, che in fase d’atterraggio abbiate qualche problema col carrello… ha perso una ruota!”.
“Cavolo… anche questo!!!”.
“Purtroppo sì… a meno che non vogliate ammarare… vi lanceremmo un canotto…”
“Ok, ci penso…datemi la posizione!”
“ La vostra posizione è latitudine quindici… “.
“Non dica cazzate- lo bloccò Matteo- mi dica quanto distiamo dall’aeroporto di Bari!”.
La voce imbarazzata del pilota del Tornado riprese immediatamente: “Cinque miglia nord-ovest da Bari-Palese”.
“Pensavo peggio!- poi - Quasi dieci Km di acqua tra noi e la pista d’atterraggio”-m’informò.
Matteo dette fugacemente uno sguardo all’indicatore del carburante: “Lasciatemi pensare… ho ancora del tempo! Restate in ascolto!” -e batté con il pugno sul quadrante del fuel.
“Mi hai detto che è sfasato”- gli ricordai.
Marsini sorrise: “Per te che sei un pivello, non per me!”.
Il mare ribolliva sotto di noi:
“Col cacchio il canotto- pensò poi a voce alta - ci ripescherebbero gonfi d’acqua”.
Io tacevo per consentire al mio amico di riflettere.
“Sai nuotare?”.
“Non molto bene… me la cavo nel morto…”
“Saresti perfetto con questa tempesta…”.
“Lo so bene!”.
“Se tentiamo l’atterraggio il carrello potrebbe saltare: l’aereo s’alzerebbe di coda, molto probabilmente capotterebbe e… prenderebbe fuoco. Te la senti di tentare?”.
“C’è un’alternativa?”.
“Non credo, ma abbiamo ancora un po’ di tempo per pensarci”.
“Aspetto i tuoi ordini”- conclusi rassegnato.
Improvvisamente il vento diminuì d’intensità.
Il cielo era ancora compattamente nuvoloso, ma non più minaccioso come poco prima.
Una pioggia sottile, a brevi raffiche, ticchettò sulla capottina.
“Sembra che il tempo migliori” –disse con entusiasmo il mio capitano.
Il vento di tramontana era ormai poco più che un soffio leggero proveniente da Nord-Est e le nubi cominciavano a scivolare aprendo di tanto in tanto dei varchi di cielo sereno.
I raggi del sole cominciarono a far capolino, a nascondersi e a riapparire per fermarsi, poi, stabilente, in un ampio squarcio d’azzurro.
Il TB9 non oscillava più come prima e sembrava poter riprendere il suo assetto naturale.
Matteo si rilassò.
Anch’io.
Il flash della fotocamera lampeggiò nei miei occhi per qualche istante. Prima lo sfarfallio del bagliore luminescente, poi varie sfumature di viola, il rosso e il giallo scissi in tanti pallini iridescenti, infine la figura sfocata e sorridente di Marsini.
“Cacchio, mi hai accecato!”- sibilai.
“Non dire sciocchezze! Ho immortalato il tuo battesimo dell’aria!”- tenendo con una mano il volantino e con l’altra la macchina fotografica.
“La foto sarà buia perché l’hai scattata contro sole”.
Una nube si frappose fra noi e la stella.
Se proprio devi ,fammene una mentre ho il volantino fra le mani!”.
Matteo, ubbidiente, operò.
La nube scivolò verso l’infinito.
Il mio ex alunno osservò l’orizzonte, valutò le correnti, gettò uno sguardo fugace all’interno dell’aeromobile e si decise: “Prof, non ci resta che tentare l’atterraggio…non sarà facile!”.
“E’ confortante!”.
“Vedremo se il carrello ce la farà. Ti ho spiegato prima come potrebbero andare le cose”.
“E l’ammaraggio?”.
“A che serve? L’aereo affonderà prima che mettiamo fuori il naso dalla cabina!”.
“Ma il pilota del Tornado ha detto che …”:
“Quello dice solo cazzate! Secondo te la latitudine di Bari è di quindici gradi ecc… ecc…?”.
“Sei sicuro che volesse dire quindici gradi ecc…”
“Cavolo, non lo hai sentito anche tu?”
“Dai, non gli hai dato il tempo di terminare la frase!”
“Ma va?”.
“Oh, se lo dici tu! Bella testa di quiz il tuo collega!”.
“Proviamo!”- tagliò corto Matteo.
“Che Dio ce la mandi buona!”.
L’aereo s’impennò in una cabrata da mozzarmi il fiato, si mise poi in posizione orizzontale e gradatamente sfogò verso sinistra in direzione Nord-Ovest.
Il paesaggio sottostante era unicamente marino.
Le onde si rincorrevano, s’increspavano e davano luogo al fenomeno delle monachine.
La spuma bianca s’ingrossava non appena due onde s’incontravano e si alzavano verso il cielo in una cascata di stille dorate dal sole.
Lo spettacolo non sarebbe stato male se fosse stato osservato in una situazione diversa dalla nostra. Avrebbe potuto, persino, spingere un animo poetico a ricamarvi qualche rima edulcorata, di quelle che ti fanno chiudere gli occhi e sognare una passeggiata sul bagnasciuga in compagnia della tua ragazza, pronta a tuffarsi con te nelle acque spumeggianti.
Ma Matteo non era la mia ragazza; oltretutto non vi era alcun bagnasciuga in vista su cui posare saldamente i nostri piedi: mare, solo mare…








Coda di Cavallo


Eravamo a Porto Corsini, la marina di Ravenna.
L’estate si presentava caldissima e umida, tanto da far respirare a fatica.
Le notizie che provenivano dal resto d’Europa non erano confortanti. In Francia, poi, i decessi degli anziani per insufficienza respiratoria si contavano a migliaia.
L’unico refrigerio consisteva nel restare a mollo nell’acqua, meglio se di mare.
Noi trascorrevamo la maggior parte del tempo in spiaggia, sotto un ombrellone, quando non eravamo immersi nella salsedine dell’Adriatico.
Avevo da poco compiuto vent’anni e mi godevo le vacanze in attesa di discutere i due esami più duri del mio corso di laurea.
Il colpo d’occhio era piacevole: una lunga distesa di sabbia punteggiata da ombrelloni e sedie sdraio multicolori. Ragazze di tutti i tipi: belle, brutte, simpatiche, antipatiche e abbronzantissime.
La mia carnagione chiara spiccava tremendamente in quel brulichio di latte-cioccolato: me ne vergognavo un po’, ma facevo finta di niente.
Nonno Fae, esperto nuotatore, spesso ci lasciava sulla battigia e si spingeva in alto mare per fare pesca subacquea. Quando tornava la sua sacca era ricolma di frutti mare, alcuni dei quali assaporavamo sotto lo sguardo curioso e a volte disgustato di alcuni vacanzieri, per lo più settentrionali.
La lunga permanenza a Bari, infatti, ci aveva reso grandi consumatori di pesci e molluschi di ogni genere.
Nonna Carmela sferruzzava con gomitoli di lana variopinta, intenta a confezionare maglioni per l’inverno per me e mio nonno.
Fu in quell’estate che mia nonna avvertì il primo sintomo del male che l’anno seguente l’avrebbe portata via: da qualche tempo, infatti, provava, senza avercene reso partecipi, una certa difficoltà nella deglutizione. Quando si decise a parlarcene, nonno Fae, sicuro che si trattasse di cosa di poco conto, interpellò il medico di turno sulla spiaggia.
Il dottore, probabilmente un neo-laureato, diagnosticò una tonsillite e consigliò gli antibiotici di rito per via orale.
In pochi giorni, però, sulla gola le si evidenziò una leggera tumefazione che acuì il disagio.
Interrompemmo le vacanze e facemmo rotta immediatamente per Bari.
Il nostro medico di famiglia, Romano Salvadori, un vecchio amico di mio nonno, ci rassicurò e parlò di una lieve forma di ipertiroidismo che, curata con un medicinale a base di calcio, sarebbe scomparsa in pochi mesi.
Due giorni dopo eravamo nuovamente sulla spiaggia di Ravenna.
Il resto della nostra vacanza trascorse serenamente: mia nonna, infatti, lentamente, migliorava.
Ciò c’indusse a credere nello scampato pericolo e a godere delle ultime ferie.
Io vanamente tentai di migliorare la mia condizione di inesperto nuotatore, anche se fu proprio un tuffo in mare a fare da Cupido tra me e la ragazza che poi sarebbe divenuta mia moglie.
Sotto un ombrellone non molto distante dal nostro, infatti, solitamente si riparava dal sole una ragazza dai lineamenti bellissimi: capelli color pece legati a “coda di cavallo”, occhi marrone scuro, esile e di media statura.
Quel giorno di fine agosto leggeva un libro di favole a un ragazzino riccioluto di circa otto anni che l’ascoltava distrattamente, tutto intento ad osservare alcuni coetanei che tiravano calci ad un pallone a scacchi bianchi e neri.
Io ero fortemente attratto dal suo corpo dalla femminilità ancora acerba, appena accennata dal seno piccolo e sodo, dalle anche sinuose che facevano da perno a due gambe perfette e slanciate, tipiche di una ginnasta in piena forma, come mostravano chiaramente le cosce compatte, dure e abbronzate.
In posizione strategica l’avevo spiata più volte tuffarsi e allontanarsi senza alcun timore a bracciate ritmiche verso il mare alto, per liberare l’energia che i suoi anni giovani emanavano.
Mia nonna mi osservava e sorrideva.
Ad un tratto il pallone, calciato con violenza da un bagnante estraneo al gioco, cadde in acqua, distante dalla riva.
In un attimo il bagnasciuga fu invaso da una frotta di preadolescenti che invitavano i più grandi a recuperare la palla. Ma quella, sospinta dal vento, sembrava avesse come suo unico scopo l’approdo sulle coste dalmate.
Anche il bimbo riccioluto era fra loro.
“Coda di cavallo”, invece, sotto l’ombrellone, guardava divertita le rimostranze dei piccoli calciatori.
Impietosito dalle preghiere dei ragazzini, fidando che il fondale sabbioso mi sorreggesse per qualche centinaio di metri, mi tuffai in acqua.
Nuotando goffamente, raggiunsi la sfera di gomma, ma quando feci per afferrarla, una mano sbucata da sott’acqua mi anticipò.
Mi girai per vedere di chi si trattasse.
“Coda di cavallo” mi rivolse un sorriso e prese a nuotare con vigore verso la riva.
“Ricciuto” e i giocatorini l’attendevano esultanti sulla riva.
Immediatamente il gioco riprese e vi partecipò anche il fratello della “salvatrice”.
Sul bagnasciuga restammo soltanto “Coda di cavallo” ed io.
Negli anni sessanta non era molto facile “farsi” la ragazza: c’era tutto un rituale di corteggiamento.
La si doveva seguire con discrezione per vari giorni all’uscita della scuola, avvicinarsi cautamente dopo aver “sbavato” sulle sue tracce chiedendole di poter fare il tragitto insieme, dichiararle la propria simpatia con un mazzetto di fiori di campo, offrirle un gelato e parlare di se stessi “aumentando le dosi”.
Quando la ragazza ti porgeva i suoi libri tenuti dalla “molla”, solo allora potevi pensare di aver suscitato il suo interesse.
Impacciati, ci salutammo con un “ciao” e tornammo verso i nostri ombrelloni.
Nonna Carmela smise per un attimo di sferruzzare e ci sorrise.
“Coda di cavallo” si accoccolò sulla sabbia e chiese a mia nonna cosa stesse confezionando.
“Un maglione per Nicola”- rispose accennando a me.
Mi guardò.
“Ti chiami Nicola? Io Angela” – e mi porse la mano.
Gliela strinsi con parsimonia poiché la natura mi ha dotato di un paio di mani grandi e forti.
Angela sorrise e avviò una conversazione tutta fitta con nonna Carmela, parlando di sé e dei suoi progetti.
Frequentava il liceo classico e, come me, amava la letteratura e la musica. Le piaceva leggere di tutto, specie poesie, quelle del Leopardi in particolare. Amava lo sport ed era una componente della squadra di atletica del suo Istituto per i “Giochi della gioventù”.
La sua grande aspirazione era di dedicarsi al lavoro di ricerca, una volta in possesso della laurea in Scienze Biologiche.
Mia nonna l’ascoltava attentamente e di tanto in tanto mi lanciava un’occhiata complice, quasi a dirmi che, come me, provava simpatia per quella ragazzina spigliata e socievole.
Io, invece, ero a disagio, perché non sapevo se partecipare alla conversazione o lasciarle sole, libere di raccontarsi senza il condizionamento della mia presenza.


Nikita



Il Tornado tornò (ovviamente) a far sentire il rombo dei suoi motori.
Poco dopo la voce del pilota perforò i nostri timpani (tratto da un best seller) con il gracchiare delle onde radio: “Comante (è un modo tipico d’esprimersi del rude militare) sono in contatto con la torre di controllo! Dicono che hanno coperto la pista di spuma. Può atterrare!”
“Cavolo! Perché non ci ho pensato prima?”- si grattò la fronte Marsini.
“Sei il solito scapocchione!- gli ricordai con fare faceto- Con quella tempesta cosa volevi schiumare se non sapevamo manco dove fossimo?”.
“Già!”- concluse laconico Matteo.
Il Tornado cabrò a sinistra e scomparve.
Il mare sotto di noi non ribolliva più; i raggi solari inondavano la cabina di pilotaggio costringendoci a inforcare gli occhiali da sole; la radio, per magia, riprese a vomitare messaggi della torre di controllo, quasi tutti inneggianti al grande cu… alla fortuna che ci aveva assistito sino a quel momento.
Un pari grado del mio amico, amico a sua volta del mio amico, prese a sciorinare litanie condite di feroce sfottò circa la perizia di Matteo nella guida del TB9.
Matteo ridacchiò, si schiarì la gola, cercò invano una risposta di adeguato tenore all’impietoso infierire del collega, poi, fingendosi distrutto, si lasciò andare sul sedile abbandonando i comandi.
“E’ il mio momento!”- pensai.
Come un invasato colsi a volo l’occasione: impugnai i comandi ed effettuai una sfogata con volo involontariamente rovesciato.
Il TB9 entrò immediatamente in stallo e cominciò a precipitare , dopo un paio di volteggi, a muso in giù.
Matteo, colto di sorpresa, aveva battuto violentemente il capo contro il soffitto della cabina di pilotaggio ed era in stato confusionale.
Io non gli ero da meno.
Quando mi accorsi che eravamo ad un centinaio di metri dal suolo, lo spirito di nonno Fae venne in mio soccorso.
Non so come riuscii a rimettere in assetto di volo parallelo l’aeromobile tirando con forza il volantino contro lo sterno.
Le mani, a ventosa, erano incollate sulla pilotina e sulla manetta mentre abbondanti gocce di sudore mi scivolavano negli occhi. La pista dell’aeroporto apparve per incanto, bianca come il Monte Bianco, lunga come l’autostrada che collega Palermo a Messina (?).
La vista mi si annebbiò mentre una ruota del carrello faceva la barba al tetto di un’ambulanza e precipitava nel vuoto.
Matteo tornò in sé appena in tempo.
Con mestiere consumato impennò l’aereo nel cielo e puntò verso l’infinito.
Giù, frattanto, regnava il caos.
Gli automezzi dei vigili del fuoco e le ambulanze, che avrebbero dovuto sostare ai bordi della pista in attesa che noi ci decidessimo ad atterrare, si erano, infatti, allontanati precipitosamente dall’area di probabile impatto per fermarsi a distanza di sicurezza, mentre il personale di terra, accorso per le operazioni di rito in caso di atterraggio forzato, disordinatamente aveva cercato vie di fuga per non essere coinvolto nel disastro.
Il paesaggio che apparve, quindi, a me che navigavo nell’aria da così poco tempo, era la somma dell’irreale, la fusione del sogno e di un videogame il cui inconsapevole protagonista ero proprio io.
“Il buio della strada era rotto, di tanto in tanto, dai fari di qualche auto di passaggio.
Cercare un bar aperto alle undici di sera, nei primi degli anni settanta, a Bari, non era cosa facile.
La crisi energetica la faceva da padrona e rendeva le vie cittadine mesti viali illuminati dalle fioche luci dei lampioni che oscillavano sospinti dal vento.
Un’ombra, all’improvviso, si materializzò; un’ombra lunga, esile, avvolta in un saio: camminò al mio fianco.
Un brivido, la sensazione di una mano leggera che mi sfiorava il capo: una carezza.
E il nome sussurrato nella notte: il mio.
Spesso, da ragazzino mi era accaduto di sentire pronunciare in sordina il mio nome per le vie della città, in casa, ovunque.
Col tempo quella sensazione era svanita. A volte ne avvertivo la mancanza, come se una persona amica mi avesse lasciato, come se un compagno di viaggio fosse sceso dal treno qualche stazione prima della mia.
“Nicola- risuonò ancora il mio nome- Nicola…”.
Presi il coraggio a due mani e volsi il capo verso di lei.
Era una donna pallidissima in volto, coi lunghi biondi capelli sin sulle spalle, appena coperti dal cappuccio del saio.
La luce di un lampione la illuminò per un istante scoprendo due occhi azzurri come il mare e un sorriso dolce, appena accennato.
Il vento di levante portò via alcune foglie accartocciate.
“Chi sei? “-chiesi con un filo di voce.
Una mano affusolata, lunga, diafana si posò sul mio capo e carezzò lievemente i miei capelli.
“Sempre ribelli, sempre col ciuffo sugli occhi…”.
“Mamma, sei tu?”.
Il vento soffiò ancora più forte.

Marsini cominciò a fare giri di prova per equilibrare l’aeromobile ferito: “figlio di …- bisciò (da bisciare,verso tipico della biscia, equivalente di sibilò p.r. di sibilare)-ci stavi ammazzando!”.
“Ammazzando…”- ripensai tra me.
Mio padre sì, lui era stato ammazzato da una manovra azzardata. Almeno così pensava mia madre che ne era morta di dolore.
Invece no! Era tornato a Natale, nel ’54, con un carico di figli russi e una moglie tipo bambola da collezione, una matrioska.
Mia nonna l’aveva guardato disgustata, senza ascoltare le sue ragioni; mio nonno, invece, l’aveva accolto nel suo studio per un lunghissimo colloquio.
Mio padre, col colbacco tra le mani, aveva tremato come un bambino alle parole di nonno Fae.
Non aveva saputo giustificare il suo lungo silenzio, l’assenza di una qualsiasi informazione che avrebbe reso meno dolorosa l’inutile attesa, più gioioso il ritorno, il ricomporsi di una famiglia.
Aveva ascoltato a fronte bassa, rigirando tra le mani il suo cappellaccio ed era sparito definitivamente dalla nostra vita.
Ancora oggi io preferisco pensare che mio padre sia morto quel ventisette gennaio del ’43, sul monte Athos, in Grecia, durante una tempesta di neve.
Sono tornato spesso sulla tomba di mia madre a pregarla di perdonarmi, a pregarla di venire nei miei sogni a ravviarmi i capelli ingrigiti dal tempo, ma ancora ribelli, a sussurrarmi le nenie di quando ero bambino.
Uno psicologo, qualche mese fa, in analisi, ha spiegato il motivo di quella mia manovra spericolata: “un tentativo di suicidio - ha decretato- il bisogno di rifugiarsi nel seno della madre, di cancellare una vita”.
La mia vita?
Quizzate! Si trattò solo di una bravata!
“Una stupida bravata che poteva costarci la vita. -ripeteva Matteo con voce sommessa- Cosa volessi fare non l’ho ancora capito! Sei stanco di vivere? Suicidati, ma, per carità, non coinvolgermi! Sei indiscutibilmente pazzo!”.
Io ascoltavo il giusto rimprovero in silenzio e mi chiedevo se veramente non fossi impazzito. Poi, stanco dei suoi lamenti, sdrammatizzai con una lunga risata che contagiò, suo malgrado, anche il mio amico: “ Ma non dire cavolate… l’ho fatto per te! Sai quanto avrai da raccontare ai tuoi colleghi che vedranno in te un asso dell’aviazione, alla tua bella che ti crederà un eroe e ti venererà come un dio? Dovresti ringraziarmi e invece sei qui a brontolare come una vecchia zitella!- La spuma a che serve se hai anche il carrello? Ora sì che ha senso!”.
“Tu sei pazzo, irrimediabilmente pazzo! Una vocina stamattina me lo diceva che ne avrei visto delle belle! Va be’, non pensiamoci più!”.
Così aveva detto mio nonno:”Beh, non pensiamoci più”- e aveva chiuso una lunga e dolorosa parentesi di vita.
Ma non per nonna Carmela che da quel giorno cancellò il Natale dal suo calendario e non parlò mai più di mio padre.
Io, invece, ho ricevuto sue notizie, sino al 1981, anno in cui si è spento, dai miei fratellastri.
Ho saputo della sua morte, del suo dolore per non avermi potuto avere accanto nei momenti più significativi della sua carriera, della sua vita familiare, della nostalgia per mia madre, che aveva amato tanto, e per i suoi genitori che, pure, non avevano voluto comprendere le motivazioni delle sue scelte …
Il sole, frattanto, diveniva sempre più caldo.
L’iniziale spaccato d’azzurro era divenuto grande come un oceano e piccole nuvole bianche luccicavano come cristalli incrinati, dando l’idea delle monachine.
Matteo si destreggiava nel cielo, tenendo per mano l’aereo ferito, quasi fosse un fanciullo bisognoso di conforto.
Così mia nonna aveva tenuto me quando nonno Fae mi disse di mio padre. Il dolore che provai non fu acerbo, né dolce. In fondo mio padre era per me uno sconosciuto, un uomo che aveva distrutto mia madre, che aveva rinunciato alla sua vera famiglia per costruirne un’altra in terra straniera, scegliendo così l’esilio dal mio cuore.
A distanza di venti anni, quando era ormai scomparso, capii che avrei dovuto concedergli una chance.
Decisi d’incontrare i miei fratellastri. Dopo varie ricerche rintracciai Nikita, il più giovane.
Nikita, in divisa di capitano d’aviazione, era il ritratto sputato di mio padre.
Stessa corporatura, stessa altezza, occhi verdi, capelli biondi e carnagione chiara.
Ci salutammo freddamente, tendendoci la mano, come fossimo due estranei.
L’imbarazzo della prima conoscenza era leggibile sui nostri volti, nelle nostre azioni meccaniche.
Il sorriso appena accennato sulle labbra, Nikita mi salutò con voce piana: “Ciao Nicola, come va?”.
Il timbro della sua voce mi sconvolse: mi parve di ascoltare nonno Fae.
Il ghiaccio si sciolse e, facendolo restare di stucco, lo abbracciai.
Nikita ricambiò il mio abbraccio con la stessa affettuosità.
Il nostro fu l’incontro tra due uomini desiderosi di trovarsi, di raccontarsi per le radici comuni, di costruire un rapporto affettivo, incolpevoli com’erano, degli avvenimenti passati.
Ci sedemmo a un tavolino del bar “Riviera”, sul lungomare della mia città e all’unisono chiedemmo due granite di caffé con panna.
Ci fu spontaneo brindare quando ci portarono le due coppe.
Parlammo di noi, delle nostre vite, senza mostrare rimpianti.
La conversazione, però, a un tratto si bloccò e Nikita, dopo una lunga pausa, col capo chino mi chiese: “Vuoi sapere di papà?”.
Non potei che asserire.
Nikita aveva tempo.
Cominciò dalla prigionia: cinque lunghi anni di sofferenza e privazioni. Poi l’integrazione quasi spontanea con il popolo russo e l’incontro con il generale Egoyan del KGB.
Gli fu fatto credere che la sua famiglia era stata annientata durante uno dei famigerati bombardamenti a tappeto operati dalle forze aeree anglo-americane e che vani erano stati i tentativi di recuperarne le spoglie.
Da quel momento non desiderò che la vendetta.
Usufruì, poco dopo, di un atto di clemenza del governo sovietico che donava la libertà e la possibilità d’inserirsi nella vita della società ai prigionieri che rinnegassero la propria nazionalità e si arruolassero nell’armata sovietica.
Il generale Egoyan caldeggiò la sua domanda.
L’aviazione l’accolse a braccia aperte.
Nel 1945, allo scoppio della crisi coreana, sfociata in un conflitto senza esclusione di colpi per la conquista del trentottesimo parallelo, mio padre era in prima linea, sul ”mig 17”, a dare man forte alla Corea del Nord, contro il gigante americano.
Autore di missioni pericolosissime,fu insignito della “croce” di eroe di guerra e i gradi di capitano pilota.
Al termine della guerra entrò nel servizio attivo dell’aviazione sovietica.
Due anni dopo sposò Karina Alexieva Egoyan, figlia del suo amico generale, Alexiey, il gigante armeno che l’aveva accolto come un figlio.
Nacquero, così, uno dopo l’altro, i miei quattro fratellastri, a cui furono attribuiti altrettanti nomi russi: Ivan, Fiodor, Taras e Nikita.
Durante i primi anni della guerra fredda partecipò a varie missioni di spionaggio aereo su territori del blocco occidentale.
Incautamente gli fu anche affidata una missione nel centro-sud italiano col compito di fotografarne gli aeroporti militari e di raccogliere informazioni sui rispettivi comandanti.
Fu così che seppe di nonno Fae.
Fu un colpo tremendo, misto di gioia e di rabbia, di desiderio di vendetta per l’inumano raggiro di cui era stato vittima.
Da quel momento non pensò che alla fuga.
Simulando grande dedizione alla causa sovietica, riuscì, con il favore del suocero, ad arruolarsi nel KGB.
I successi nelle azioni di spionaggio in breve fecero di mio padre una pedina inamovibile nella rete spionistica sovietica.
Purtroppo per riuscire nel suo scopo dovette fornire informazioni di grande importanza strategica che misero più volte in difficoltà le potenze occidentali.
Quando fu sicuro di godere della più ampia fiducia dei suoi superiori, pensò che fosse giunto il momento di mettere in atto il suo piano.
L’unico ostacolo era costituito da Karina.
La donna aveva reagito coraggiosamente alla notizia, che pure le spezzava il cuore, ma lo spinse a svolgere ricerche più accurate per giungere alla verità.
Apprese, così, con disperato sollievo, della morte di mia madre
Karina, allora, cercò, vanamente, di farlo recedere dalla sua decisione.
Lo stesso generale Egoyan, messo al corrente della situazione, a cui non era pienamente estraneo, gli aveva assicurato che non l’avrebbe denunciato a patto che rinunciasse al suo progetto di fuga.
Promise.
La spaventosa crisi russo-americana, per i missili che Nikita Kruscev aveva installato sul territorio cubano, puntati contro gli USA, offrì l’occasione della fuga.
Nel mese di settembre del 1962 quando ricevette l’ordine di trasferirsi all’Avana, il piano era già pronto.
La copertura di ufficiale di collegamento gli consentiva, infatti, di condurre con sé la sua famiglia…
A me sembrava di ascoltare uno dei racconti di spionaggio di Jan Fleming, tanto in voga a quei tempi, il cui protagonista era mio padre nelle vesti dell'alter ego di James Bond, l’agente segreto con licenza di uccidere.
Eh sì! Lui aveva ucciso l’immagine di figlio affezionato e devoto di cui avevano mantenuto vivo il ricordo i miei nonni.
Nessuno dei due, infatti, aveva accettato che il loro figlio si fosse rassegnato così presto alla notizia della scomparsa dei suoi familiari; nessuno dei due gli aveva perdonato di aver fatto morire di disperazione mia madre e di non avermi mai cercato, pur essendo a conoscenza della mia esistenza.
Nonno Fae, ancora, non gli perdonava di aver fornito segreti militari al nemico, che erano costati, per giunta, la vita di molti agenti al servizio della Nato.
Lo avevano perdonato, invece, le potenze occidentali, che a loro volta avevano tratto beneficio dalle informazioni in possesso di mio padre, tanto da reintegrarlo col grado di colonnello nell’arma dell’Aeronautica Militare.
Il suo ultimo incarico, infatti, fu di addetto militare presso l’Ambasciata italiana ad Ottawa, in Canada.
Nikita si rischiarò la gola, tirò una lunga boccata alla Camel che si stava consumando tra le dita e riprese il racconto…
Il 14 ottobre del ’62, allo scoppio della crisi russo-americana, nostro padre era già pronto per la sua avventura.
Aveva saputo, infatti, di un battello clandestino in procinto di prendere il largo verso le coste statunitensi.
Con un bliz notturno, seguito da altri due ufficiali russi dissidenti, dai quattro figli e dalla recalcitrante Karina, s’impadronì del cargo e abbandonò l’isola.
A Miami furono presi in consegna dai militari americani, trasportati in una caserma, interrogati, minacciati, sottoposti al siero della verità, infine presi in custodia dall’intelligence.
Le informazioni che fornirono lui e i suoi due compagni si rivelarono così utili al servizio segreto americano, da far cadere ogni sospetto circa la loro buona fede.
Nei giorni successivi il mondo intero fu messo in subbuglio: il rischio di uno scontro tra le due superpotenze fu altissimo.
La crisi terminò con il ritiro dei missili sovietici e la rinuncia americana a invadere Cuba.
Sei mesi dopo, mio padre tornò in patria…
La pista, sotto di noi, era imbiancata come un abete abbattuto da una tempesta di neve, la cui punta estrema era il punto d’arrivo, la salvezza.
Matteo ridusse la velocità e si mise in piano, scivolando lentamente verso il suolo
Mia madre mi ravviava i capelli, con lo sguardo nel vuoto. Spesso mi diceva che somigliavo tanto a mio padre, non tanto per i colori, bruni i miei, quanto per l’aria sbarazzina, i capelli come fili di cotone, difficili da pettinare, sempre cadenti sugli occhi.
Posò le mani sulle mie spallucce di bimbo e: “non crescere mai… resta bambino…” – mi disse con la sua voce dolcissima.
Poi accostò una sedia al tavolo della cucina, si sedette, inforcò i suoi occhiali da miope e prese la lettera che giaceva aperta sul piano della credenza.
Mia madre la lesse ancora una volta e la ripiegò con cura, stirandola con la mano.
Gli occhi celesti, color del mare in un primo mattino d’estate riflettevano il suo stato d’animo, la sua nostalgia per l’amore lontano, sperduto nell’inferno della guerra chissà dove, sui monti della Grecia o prigioniero in un gulag sovietico. Non era per nulla rassegnata alla morte di mio padre.
Io non sapevo ancora leggere, ma capivo che le parole vergate su quel foglio alimentavano la speranza del ritorno.
Un giorno, spinto dalla curiosità di scoprire cosa vi era scritto, chiesi a nonna Carmela di leggermene almeno alcune righe.
Mia nonna, mi prese sulle ginocchia: “è una lettera d’amore – mi disse- racconta il bene che tuo padre vuole a tua madre”.
Ho ritrovato la lettera nel baule che le Orsoline rispedirono a casa con tutti gli effetti di mia madre. L’ho riconosciuta immediatamente e… l’ho letta.
“Mia cara Lina – diceva- è troppo tempo che non ascolto la tua voce, che non ti stringo forte a me.
Qui le giornate non trascorrono veloci. Tra una sirena e l’altra, siamo costretti più volte ad alzarci in volo per difenderci dagli attacchi nemici, gente che vuole ucciderci e che dobbiamo uccidere per sopravvivere.
L’altra notte sognavo di te quando la voce dell’altoparlante ci ha chiamato a raccolta per l’ennesima missione.
Eravamo a scuola e attendevamo, tu sulla soglia della tua classe, io sulla mia, il suono della campanella.
Onofrio, il bidello- quello zoppo- ricordi?- ci vedeva e ci rispediva in classe minacciando di chiamare il preside.
Noi, però, riuscivamo ad eludere la sorveglianza e correvamo l’uno verso l’altra. Ad un tratto compariva il preside, un ufficiale sovietico, arcigno e violento.
Col calcio della sua pistola colpiva te sul capo e a me intimava di seguirlo in presidenza.
La presidenza era una stanza buia con sbarre di ferro alle finestre, da cui entravano raffiche di neve portate da un vento forte e gelido.
Mi sono svegliato coperto di sudore, agitato, sicuro che non fosse un incubo.
Il sorriso del tenente Frisini, mio compagno di stanza, mi ha riportato alla realtà: “Alzati, pigrone! Si va a buttare giù qualche altro muso rosso!”.
Ho paura, amore mio, ho paura che un giorno possa realmente accadere ciò che ho sognato, ho paura di non rivederti mai più.
Se ciò dovesse accadere, parla di me al nostro bambino…
Sono così certo che sarà un maschietto che non riesco ad immaginarlo in modo diverso.
Raccontagli di suo padre, di come sia morto per una stupida guerra, insegnagli a odiare la violenza, ma fagli amare l’aviazione, gli aerei, il cielo azzurro o tempestoso che sia, fagli amare la libertà.
C’è un nuovo allarme… devo andare…
Non chiudo la lettera per scaramanzia; la concluderò al ritorno dalla missione.
Ti amo.”.
Quella lettera a noi fu spedita dal Ministero della guerra che ci annunciava che il capitano Vito Lattanzi, risultava disperso durante un’azione di guerra.







Nonna Carmela
La coda dell’aereo picchiò violentemente sull’asfalto e si spezzò.
La fusoliera si coricò sul fianco destro e cominciò a strisciare lasciando una scia di scintille che si fondevano, man mano, col bianco della spuma.
Il TB9 girò su se stesso non so quante volte, forse solo due, ma a me parvero tante.
Battei il capo contro l’interno della portella e persi la cognizione del tempo…
Era ai piedi del letto, accosciata sul pavimento gelido.
Le corsi subito incontro e la sollevai.
“Nonna, che succede?”:
Lei mi guardò.
La luce fiera dei suoi occhi sembrò appannarsi per un attimo.
“Nicola, non riesco ad alzarmi, non sento più le gambe”- sussurrò.
La posai sul letto disfatto dai tentativi che nonna Carmela aveva compiuto aggrappandosi alle coperte.
“Nonno Fae, dove sei?”- pensai.
La rassicurai spiegandole che senz’altro si trattava di un abbassamento di pressione e corsi al telefono.
“Dottore, sono Nicola, mia nonna sta male, venga subito!”.
Il dottor Salvadori non si fece attendere.
“C’era d’aspettarsela”- mi disse non appena gli aprii la porta.
La visitò accuratamente, col martelletto ne saggiò i riflessi; infine le misurò la pressione.
“Bisogna ricoverarla immediatamente – mi disse sottovoce.- Dov’è tuo nonno?”.
“E’ quello che vorrei sapere anch’io… so solo che è a Napoli”.
“Ma un recapito non ce l’hai?”.
“E’ in missione.”
“Diamine, un numero telefonico?”
“Niente, non ho niente” – ripetei disperato.
L’ospedale era alle porte di Bari.
L’ambulanza aveva percorso a velocità sostenuta il percorso cittadino per raggiungere la periferia.
Io ero seduto accanto a mia nonna; le tenevo la mano e tentavo di rincuorarla.
Lei mi guardava con i suoi dolci occhi celesti e rincuorava me che sembravo più di lei bisognoso di cure.
“Sta’ tranquillo, passerà- mi diceva con voce fioca – passerà non appena ci raggiungerà nonno Fae”.
Era la vigilia di Natale del 1964.
La sala operatoria era bianca di luce artificiale quando la barella ne varcò la soglia.
Poi le porte si chiusero e cominciò l’attesa.
Fumai una sigaretta dopo l’altra per tutta la durata dell’intervento: circa nove ore.
Di tanto in tanto la porta si apriva per lasciar passare un medico dal volto serio e professionale, che la rivarcava dopo pochi minuti, senza che trasparisse alcuna emozione dal suo sguardo.
Finalmente la barella ricomparve nel lungo corridoio.
Mia nonna era cosciente.
Il volto era disfatto, i biondi capelli intrisi di sudore, le labbra esangui.
Sfiorai la sua mano e lei mi sorrise malinconicamente.
Mi dissero che avrei potuto rivederla solo il giorno dopo.
Il grande ascensore ingoiò i chirurghi e il loro fardello. Sostai per due ore in corridoio nel timore che mia nonna avesse bisogno di me.
Scesi lentamente le scale cercando di convincermi che il peggio era passato.
La notte era piena di stelle, fredda e silenziosa.
La neve che era caduta sino a poche ore prima era una bianca coperta di piume d’oca su cui affondavo i miei passi.
Un uomo, un ufficiale, forse, con il bavero dell’impermeabile alzato sino a coprirgli il volto, col berretto coperto di neve, a capo chino mi dette una involontaria spallata.
“Le chiedo scusa” –mi disse frettolosamente- e varcò la soglia del Padiglione di Chirurgia Generale.
“Nonno!”- esclamai pensando che fosse lui tanto gli somigliava per corporatura.
Un turbine di vento, rapido e ghiacciato ruppe la mia voce.
“Le chiedo scusa!” si girò l’ufficiale calcando la mano sul berretto.
Ebbi appena il tempo di rendermi conto dell’equivoco che già era stato ingoiato dalla forte luce al neon della portineria.
Un taxi solitario mi si fermò accanto.
Senza pronunciare alcuna parola ne aprii la portiera posteriore e mi lasciai cadere sul sedile.
L’autista mosse dolcemente il veicolo verso il centro abitato.
Giunti nei pressi del teatro Petruzzelli gli chiesi di accostare la vettura al marciapiedi.
Spense il motore.
Un po’ seccato tirò fuori da una tasca del pesante giubbotto invernale un pacchetto di Nazionali Esportazione. Dopo una breve esitazione me ne offrì una.
Lo guardai soprappensiero, poi gli feci cenno di riprendere la marcia.
Il tassista rimise in moto la vettura.
L’appartamento mi sembrò vuoto senza il calore di nonna Carmela.
Nonno Fae, ancora per pochi mesi in servizio attivo, era a Napoli per un corso d’addestramento su un nuovo velivolo militare. Avevo tentato in ogni modo di mettermi in contatto con lui, ma risultava irraggiungibile anche attraverso il telefono.
Mi sentivo impotente, perso nella drammaticità della malattia di mia nonna, solo, senza il conforto di una persona amica, di un parente, un fratello che potesse condividere la mia preoccupazione.
Rimpiansi, allora per la prima volta, di non aver fatto alcun tentativo per rintracciare mio padre.
Il telefono mandò i suoi squilli nella confusione dei miei pensieri e non giunsi in tempo a sollevarne la cornetta.
Dopo pochi minuti squillò nuovamente.
“Ciao, sono il nonno!”
La sua voce era come il solito piacevole e rassicurante.
“Nonno, sei tu?”
“E chi vuoi che sia! Tutto bene? Passami la nonna!”
Controllai la mia emozione e con toni quasi asettici gli raccontai.
“Arrivo subito!” – fu la sua reazione accompagnata dal segnale di occupato che mandò stancamente il telefono.
Due ore dopo era a casa.
“Presto, accompagnami da tua nonna!”- mi disse concitato.
Non potei non obbedire al suo comando, anche se dovetti informarlo che per disposizione dei medici non avremmo potuto esserle accanto.
Ma lui non mi sentiva, con la mente era già da nonna Carmela.
“Sta male”- mi diceva scendendo precipitosamente le scale- lo sento… sta male… ha bisogno di me… ho bisogno di lei!”.
La Renault 8 si fermò nel cortile dell’ospedale, davanti il reparto di Chirurgia.
L’alba spuntava appena mostrando un fascio di nubi bianche che minacciavano una nuova, abbondante nevicata.
Il vento soffiava e faceva svolazzare i lembi dei nostri cappotti.
Mio nonno si teneva con la mano il berretto militare e rispose frettolosamente al saluto di un ufficiale d’aviazione che si apprestava a montare nella sua macchina.
Il portiere ci fermò sull’uscio avvisandoci che non era ora di visita.
Nonno Fae con una delle sue enormi mani lo spinse da un lato e salì per le scale.
L’infermiera capo-sala non osò fermare la sua corsa e gli domandò timidamente chi cercasse.
“E’ in coma…- disse poi con tristezza- mi dispiace…”.
Nonno Fae si arrestò immediatamente.
Come colpito da una pallottola, girò su se stesso e mi cercò con lo sguardo smarrito. Io lo avevo seguito facendo gli scalini a quattro e giunsi in tempo per sostenerlo, mentre si accasciava per terra.
Non avevo mai visto mio nonno sconfitto e quella fu la prima e unica volta.
La stanza in cui era nonna Carmela era illuminata.
Un via vai di medici e di infermieri si alternava al rumore di ampolle di farmaci preparati per la somministrazione.
Un chirurgo col camice verde venne fuori dalla stanza scotendo il capo: “Non c’è più nulla da fare…”- disse sconsolato.
Nonno Fae sollevò il capo e lo guardò fissamente.
Era tornato quello di sempre: forte, risoluto, determinato.
“Come è potuto accadere?”-gli domandò con voce dura.
“Un collasso… un collasso cardio-circolatorio…”
“Cosa si può fare?”- lo interruppe bruscamente mio nonno.
“Purtroppo non è possibile intervenire ancora… bisogna sperare in un miracolo… la medicina non può più nulla…”.
Nonno Fae non ascoltò le ultime parole; varcò la soglia della stanza e si avvicinò al letto in cui giaceva mia nonna.
Il volto di nonna Carmela, di un pallore mortale, ebbe un lieve sussulto, accompagnato dallo sbattere lento e ripetuto delle palpebre: “Fae… sei qui?”- sussurrò.
“Si… sono con te”-le rispose dolcemente mio nonno.
Nonna Carmela sospirò. Poi ricadde nel sonno.
Nonno Fae le prese la mano, la tenne fra le sue carezzandola, mentre grosse lacrime rigavano le sue guance: “Carmela, sono qui- diceva- andrà tutto bene… tra poco torneremo a casa”.
Mia nonna si riscosse, sorrise, mosse la mano in quella del marito: “Ti voglio bene- rantolò- ti voglio tanto bene…”.
Nonna Carmela morì alla mezzanotte del 25 dicembre.
Nonno Fae ed io raccogliemmo il suo ultimo respiro.


L’atterraggio

Tossivo maledettamente quando mi risvegliai.
Il fumo aveva invaso la cabina di pilotaggio e quindi tutto l’aereo.
Matteo giaceva riverso su un fianco, ancora in stato d’incoscienza.
Le fiamme avvolgevano il TB9, senza che gli idranti riuscissero a soffocare il fuoco.
Le portiere erano ambedue bloccate, deformate dal rude impatto con la pista.
Attraverso il finestrino vedevo l’inutile affannarsi dei pompieri che cercavano disperatamente di aprire un varco nel fianco dell’aeromobile.
Mi stupii che non ne avessero infranto i vetri.
Preso da un raptus da fotografo cronachista, impugnai la macchina fotografica e cominciai a scattare fotogrammi a raffica di ciò che avveniva all’esterno, con aria distaccata.
La mia incoscienza è proverbiale e gli epiteti che mi si attribuirono in seguito penso di averli ben meritati.
L’aereo si spanciò facendomi perdere l’equilibrio.
Caddi pesantemente sul povero Marsini che dava i primi cenni di risveglio.
Notai che il cristallo del parabrezza era incrinato.
Non persi tempo.
Il mio seggiolino nell’impatto era venuto fuori dai binari.
Raccolsi le forze e lo lanciai violentemente sul lunotto anteriore.
L’infrangersi del cristallo fu seguito dal crepitare del fuoco che invase immediatamente la cabina.
Matteo si rizzò improvvisamente in piedi, mi prese per le ascelle e mi scaraventò fuori quasi fossi un fuscello…
Il mandorlo aveva messo i primi fiori nel mese di marzo.
La primavera si svegliava dal lungo letargo e annunciava che era viva e presente.
Un verdone solitario intonò il suo canto d’amore senza risposta e volò via.
La mia stanza si affacciava su un largo e lungo balcone che dava nell’interno.
Di lì io potevo vedere gratis i film che proiettava nell’estate l’Arena Galleria, uno dei più grandi cinema della mia città.
Le mie pellicole preferite erano i Western, specie quelli interpretati da Jhon Wayne e James Stewart, gli stessi di mio nonno.
Ricordo la prima volta che Bernardo mise piede in casa nostra. Io, affacciato alla ringhiera del balcone, ero in ansia per il mio eroe preferito alle prese coi pellirosse in
“Ombre rosse”.
Lo squillo del campanello fu seguito dall’abbaiare furioso del mio cane, Teddy, un incrocio femmina tra pastore tedesco e pastore scozzese.
Corsi verso la porta per frenare l’impeto della mia “belva” che non ammetteva intrusi in casa.
“Mi volevi far sbranare?”- disse il mio bisnonno quando udì il ringhio poco amichevole del cane.
Nonna Carmela accorse e dopo un attimo di sorpresa, fece cenno al padre di entrare.
Teddy ringhiò ancora ed io le sussurrai che si trattava di un amico.
Bernardo mi guardò stupito, poi abbozzò un sorriso e mi dette un “buffetto” sulla guancia: “ un amico- disse sorridendo ancora- sì sono un amico!”
Teddy ringhiò ancora ed io la rassicurai con una carezza sulla sua bella, enorme testa nerofocata.
Il gelo che aveva caratterizzato il rapporto tra mia nonna e Bernardo scomparve d’incanto. Bernardo abbracciò sua figlia e con gli occhi bassi le chiese perdono.
Nonna Carmela celiò, rispose all’abbraccio felice di aver finalmente “ritrovato” suo padre.
Non fu necessario parlare del passato; padre e figlia sembravano, infatti, non essere mai stati distanti l’uno dall’altra, non solo in senso fisico, ma, addirittura, sul piano affettivo.
Io non capivo, ma ero contento.
Nonno Fae, di ritorno dall’Aeroporto, non sembrò per niente sorpreso alla vista del suocero; lo accolse come si accoglie un vecchio amico non visto da tempo, con una forte stretta di mano e un largo sorriso sulle labbra.
Mise poi un braccio lungo le spalle di mia nonna e, come suo solito, le sfiorò le labbra con un lieve bacio.
Nonna Carmela aveva il viso inondato dal sole, quando con il suo sguardo dolce ringraziò il marito per la sua comprensione.
Unica assente era Adalgisa, la moglie fedele, la mamma generosa che con la sua costanza aveva contribuito al ricongiungimento dei due esseri a lei più cari.
Ma nonna Adalgisa quella sera era certamente tra noi.
Sul grande balcone dell’interno, mentre Jhon Waine combatteva i cattivi “musi rossi”, io mi godevo lo spettacolo di una famiglia ritrovata, seduto sulle ginocchia di nonno Fae, intento a gustare uno dei primi gelati da “passeggio”, il gelato “Lola” che, ahimé, non si produce più da non so quanti lustri.
Bernardo venne spesso a trascorrere intere giornate con noi e spesso noi fummo suoi ospiti alla “Melina”.
Risippo, il cavallo di mia nonna, aveva fatto da stallone per un piccolo allevamento e aveva lasciato ben evidenti le tracce del suo DNA in un cavallo che divenne subito il mio.
Gli anni passarono velocemente e così passò la vita di chi avevo imparato a chiamare nonno Bernardo.
La “Melina” fu ereditata da mia nonna.
Per circa cinque anni rimase la nostra casa di campagna; poi, gli alti costi di gestione costrinsero i miei nonni a cederla.
Qualche anno fa sono tornato in Abruzzo e ho rivisto la vecchia fattoria. Una grande nostalgia del passato ha stretto la mia mente con l’onda dei ricordi e ho sognato di poterla riacquistare per ritrovare la serenità di quei tempi.
Penso che rimarrà l’ultimo sogno, l’ultima illusione della mia vita.






Karina

La sirena del “118” mi perforò le tempie con quel suo canto carico di sofferenza e di attesa.
“Ero nella scia di coda di un velivolo inglese quando vidi passare, a sinistra e a destra dell’abitacolo, altrettante strisce di fuoco. Proiettili traccianti che qualcuno mi sparava da dietro. Istintivamente, tirai la cloche; il Macchi s'impennò e con una specie di looping mi trovai alle spalle dell'aereo nemico. Il monte lo ingoiò in fiamme. Il tempo di tirare un sospiro di sollievo e mi ritrovai nelle stesse condizioni. Un secondo aereo sopraggiunto all’improvviso mi buttò giù come un sasso. Non so come sia riuscito a salvarmi. Quando ripresi coscienza ero in un ospedale da campo diretto da un medico sovietico. Le mie ferite non erano gravi, ma il morale l’avevo nel fondo delle scarpe… ”.
La lettera di mio padre terminava con la richiesta di un incontro per riabbracciare sua madre e suo figlio.
Nikita ripose il foglio sul tavolino del bar Riviera, affondò il cucchiaino nella panna della granita al caffé; una bolla di gelato apparve al centro del bicchiere e piano piano si sgonfiò, Nikita tirò su il pezzo di brioche che vi aveva immerso.
Soprappensiero lo imitai.
Il nostro appuntamento settimanale mi riservava continue notizie sulla vita di mio padre, sul suo modo di pensare, sul continuo tentativo di riscattarsi dalla colpa di essere sopravvissuto.
La sua buona fede traspariva da tutto ciò che mi diceva mio fratello e io provavo rimorso per non averlo mai cercato.
Nikita mandò giù un’altra cucchiaiata di gelato: “è proprio buono- disse con soddisfazione- oggi ti farò assaggiare il dolce di grano che fa mia madre”.
Karina, oramai ultraottantenne, viveva su una sedia a rotelle, resa invalida da una osteoporosi galoppante.
Sia lei che io non avevamo mai avvertito il desiderio d’incontrarci: ciascuno di noi due aveva sentito parlare dell’altro, senza mostrare particolare interesse.
Quel giorno, però, mio fratello mi chiese di andare con lui a farle visita.
La proposta mi colse impreparato e non seppi trovare una motivazione valida a declinare l’invito.
Karina sonnecchiava su una sedia a rotelle e di tanto in tanto si umettava le labbra rese secche dalla febbre.
Non avvertì la nostra presenza e si riscosse solo quando Nikita le toccò con delicatezza un braccio.
“Quoi?”- disse in francese, la lingua che usava correntemente, come la vecchia nobiltà russa.
“C’est moi… Nikita… Nicolas est avec moi!”.
“Nicolas?… Nicolas! Pourquoi? Nik, aide moi, je veux le voir!”
Nikita le si accostò, posizionò la sedia a rotelle in modo che la madre potesse guardarmi in volto.
“Nicolas, quel plèsir! Che piacere conoscerti, Nicola- poi aggiunse in italiano perfetto-. è da tanto che avrei voluto conoscerti …
Io non sapevo cosa dire; ero lì che la guardavo e mi sembrava una bambola di pannolenci consumata dal gioco infinito di una bimba.
“Buongiorno, signora, come va?” -dissi a disagio.
Lei ignorò la mia domanda, mi guardò fissamente e sospirò-. Somigli tanto a tuo padre, ma non quanto Nikita”- aggiunse con orgoglio.
La stanza in cui ero stato accolto sembrava un piccolo santuario. Quattro foto di mio padre erano sui ripiani dei mobili, chiuse in cornici d’argento e ciascuna aveva ai piedi un mazzetto di fiori freschi di campo.
Karina non distoglieva lo sguardo da me, con quell’insistenza tipica dei vecchi, senza reticenze, pudori che potessero scalfirne l’innocenza. Con un cenno della mano m’invitò a sedermi presso di lei, su una poltrona ampia e comoda di cuoio bordò.
“Era la poltrona di tuo padre… di sera vi si appisolava e guai a svegliarlo…”
Sorrisi a quelle parole.
Lei me ne chiese il perché.
“Anch’io, spesso, di sera, mi addormento sul divano… - le risposi- sarà un vizio di famiglia!...”-ipotizzai.
“Eh sì, un vizio di famiglia…-poi guardò Nikita- prendi dal frigo il dolce e tagliane una fetta per Nicola, per favore”.
Nikita mi fece l’ok e mi strizzò l’occhio.
La conversazione languiva: Karina mi guardava e io guardavo lei; di tanto in tanto ci scambiavamo un sorriso, il mio imbarazzato, il suo malizioso.
Accesi una sigaretta per fare qualcosa.
Karina agitò una mano per scacciare il fumo.
Mi resi conto di essere stato scortese e spensi la sigaretta in un enorme posacenere di cristallo posto al bordo del tavolo: “Le chiedo scusa – dissi a disagio- dovevo chiederle se le arrecavo fastidio”.
“Nessun fastidio – dichiarò lei- fumo anch’io”. E a riprova, cavò da una tasca del suo vestito un pacchetto di Golouase senza filtro, ne accese una e mi fece cenno di prenderne anch’io.
Ancora una volta non potei rifiutare.
Spensi la mia cicca nel posacenere giallo e accettai la sua.
La prima boccata fu tremenda: mi mozzò il respiro. Gli occhi mi si riempirono di lacrime e cominciai a tossire in modo furioso.
Karina mi consolò con un colpetto sulle spalle col bastone che stringeva nella mano destra; poi mi rivelò che le Golouases erano le uniche sigarette che riuscisse a fumare.
Poco dopo tornò Nikita con un vassoio su cui erano tre porzioni di dolce.
La torta di grano è una specialità armena, confezionata con farina, uova, chicchi di grano lesso, miele e panna, bagnata con vodka e ricoperta di gelatina ai frutti di bosco.
Il silenzio era rotto solo dal discreto rumore dei cucchiaini nei piatti di porcellana.
Mentre mandavo giù dei bocconi, mandavo anche delle “benedizioni” a Nikita che mi aveva costretto a buttar giù, nello stomaco, una torta così vomitevole. Ma ciò che mi dava ancor più fastidio era che la mangiavo dopo un’ottima una granita di caffé con panna e brioche.
Feci, in ogni modo, “buon viso a cattivo gioco” e trangugiai il tutto sperticandomi in complimenti sulla bontà del “pasticcio”.
Karina me ne fu grata.
“Grazie, Nicola, sei uno dei pochi a gradire il mio dolce, gli altri affermano che è buono solo per farmi piacere, ma io intuisco dalla loro espressione che non è vero”.
Nikita poi mi spiegò che la madre aveva perfettamente capito che anche io non ero nella schiera degli entusiasti, ma che mi aveva sottoposto al test del dolce, secondo gli usi della loro gente, per mettere alla prova la mia cortesia.
Sono strani gli armeni!
Chiacchierammo del più e del meno per più di un’ora, senza fare alcun accenno a mio padre.
Ad un tratto sembrò assopirsi.
Io feci per alzarmi, ma Nikita mi fermò: “Non riposa, riflette”.
Karina sollevò il capo, mi guardò e disse: “Sei un bravo ragazzo”.
Arrossii “come un bravo ragazzo” e la ringraziai del complimento.
Cercai una frase gentile da ricambiare, ma ero a corto di galanterie.
La visita terminò con i soliti convenevoli a cui si sommò un particolare del tutto inaspettato.
Al momento di accomiatarmi Karina volle che mi chinassi per darle un bacio che ricambiò con un morso al lobo dell’orecchio sinistro, quale auspicio di buona fortuna.
Per strada, in macchina, invitai mio fratello a prendere un “amaro” per mandar giù quel dolce che faceva su e giù nello stomaco.
Nikita fu subito d’accordo; poi, con fare sibillino, confessò che faceva parte dei loro usi offrire la torta di grano all’ospite che per la prima volta varcava la soglia di casa di un armeno per ricordargli che la vita non è priva di sofferenza.
Mi stava prendendo per il culo.
Scoppiai in una sonora risata e annuii pienamente convinto.
Mica stupidi gli armeni!
Negli incontri successivi parlammo spesso di mio padre:
Karina l’adorava e ne parlava come se fosse lì, con lei, sulla poltrona di cuoio bordeaux ad ascoltarla.
I suoi racconti tratteggiavano una personalità forte, estroversa, ironica, sagace, ma soprattutto dolce, dolce verso i suoi figli, verso sua moglie, verso la prima moglie, che lui spesso ricordava col nome affettuoso di Lina.
I primi tempi, mi confessò, ne era stata terribilmente gelosa, poi aveva imparato a provare tenerezza per quella donna fragile ed innamorata che era morta per la disperazione di aver perso il suo uomo.
Non so quanto fossero sincere le sue parole, ma certamente contribuirono a rendermela simpatica.
In uno degli ultimi incontri mi parlò della visita che mio padre aveva reso a nonna Carmela.
“Nicola, -mi disse con aria complice- sai che Vito incontrò tua nonna poco prima che lei morisse? –
Rimasi sorpreso a quell’interrogativo implicito.
Senza attendere la mia risposta mi raccontò.
“Tua nonna era giunta in fin di vita in ospedale, ma era pienamente presente a se stessa. Capì immediatamente, dopo l’operazione, che non gliela avrebbe fatta e desiderò rivedere suo figlio.
Quando tu andasti via, pregò il medico di guardia di telefonare a casa, da noi.
Vito aspettava una comunicazione dal Comando, ma non indugiò e corse subito da lei…
“Allora- esclamai- quell’ufficiale che incontrai all’uscita dell’ospedale era mio padre!”
Karina finse di non aver ascoltato le mie parole e riprese a raccontare.
“Tua nonna era assistita dal medico di guardia quando tuo padre la raggiunse.
Il dottore fece cenno a Vito di non affaticarla, poiché l’emozione dell’incontro era di per sé un forte shock.
Vito s’inginocchiò al lato del letto e le sussurrò:
“Mamma, sono Vito…”
Tua nonna, con lo sguardo fisso al soffitto, riconobbe la sua voce. Un sorriso aleggiò sul suo volto. Gli carezzò i capelli e con un flebile sospiro gli chiese di perdonarla.
Vito scoppiò in pianto; le prese la mano e la tenne fra le sue, in un silenzio rotto di tanto in tanto dalla voce soffocata che ripeteva “mamma…mamma…”
Tua nonna entrò in uno strano dormiveglia. Il dottore lo pregò di andar via.
L’attendente lo raggiunse nel corridoio con una comunicazione dello Stato Maggiore.
Tuo padre quella sera stessa partì in missione; al suo ritorno tutto era già finito.


Melinda

Le pareti imbiancate di fresco della mia stanza di degenza facevano contrasto con la figura di uomo in divisa blu che mi era di fronte.
“Come va, professore?...- mi sorrise Nikita.
“Oh cavolo, Nik… mi sembra di essere diventato uno spezzatino al forno!”
“Ci sei molto vicino. Sei cotto quasi a puntino”.
“Ti va di sfottermi? Sento dolore dappertutto. Se tento di muovere anche solo un alluce vedo le stelle”.
“Non esagerare! Hai solo un paio di costole fratturate e il residuo di una non lieve commozione celebrale…”
“Dici niente!... E Matteo come sta?”.
“Quello è più forte di un bisonte. E’ stato dimesso due giorni fa.”
“Due giorni faaa? Ma da quanto sono in questo letto?”
“Solo da una settimana, tra un po’ torni a casa.”
“Cavolo!.E a scuola?”.
“Di che ti preoccupi? Sei in malattia!”
“Per Giuda, io che non mi sono mai assentato!”
“Figurati la gioia degli alunni!”
“Sono loro che mi hanno tirato i piedi.”
“Vengono a nugoli… fanno casino nella speranza di svegliarti e poi vanno via delusi. Anche altri sono in pena per te”.
“Chi sareberro questi altri?”.
“Ivan, Fiodor, Taras e …Melinda” – disse Nikita con naturalezza.
La luce bianca del neon illuminava anche gli angoli più nascosti.
Il gatto di Melinda faceva le fusa sul divano rosso e lasciava le impronte delle unghie sul velluto.
Nonna Carmela scoteva il capo scontenta.
Melinda veniva giù da noi ogni estate, nel mese d’agosto e portava con sé il suo gatto Orchidea.
Orchidea era un nome strano per un gatto, ancor più perché era un maschio.
Apparteneva ad una razza coreana, sconosciuta dalle nostre parti, ma non da noi che eravamo costretti a sorbircelo ogni anno per trenta giorni.
Melinda era una bambina bionda, con due occhi che sembravano gocce di oceano, di un blu intenso di giorno, fosforescenti, quasi, di notte, ma capricciosa e scostante.
Era la figlia di un cugino di mia nonna, Diomede Fragrante, un ricco possidente abruzzese, padrone di più di mille acri di terra.
Dopo la terza estate trascorsa da noi, aveva deciso che io sarei divenuto suo marito.
Era un gioco per me, ma non per lei, abituata a ottenere tutto ciò che desiderava.
Man mano che il tempo trascorreva, Melinda diventava sempre più bella.
Aveva un coro di spasimanti che lei non degnava neppure di uno sguardo.
Quando le dissi di “coda di cavallo” girò le spalle e uscì sbattendo la porta.
Dopo qualche ora mio nonno mi telefonò e mi chiese di raggiungerlo in aeroporto.
Mi misi immediatamente al volante della mia “seicento abartizzata” e in pochi minuti fui da lui.
Nella stanza, con mio nonno, vi era un colonnello dell’esercito: il padre di Angela.
Il colonnello fumava nervosamente una sigaretta; io gli tesi la mano.
Lui rifiutò.
Mi guardò freddamente negli occhi e poi pronunciò solo poche parole: “Porto via mia figlia, a Venezia; non tornerà mai più a Bari”.
Lo ignorai.
Guardai mio nonno, invece, e gli dissi che non avevo tempo per stupide battute da melodramma.
La storia fra Angela e me, infatti, non è mai finita, sebbene i continui tentativi di Melinda che, ancora, crede di potermi strappare a mia moglie.

Finsi di non aver ascoltato l’ultimo nome.
“ I tuoi… i miei fratelli sono quiii?”.
“Si, sono venuti per conoscerti pensando che stessi per tirare le cuoia”.
“Ottima motivazione. Falli entrare”.
“Non ora… più tardi! Al momento sono stravaccati in un letto. Dormono.”
“Io, invece sono stanco di dormire. Vorrei alzarmi… mi sento in forma”.
“Cazzate!...Poco fa hai detto di essere a pezzi… e poi, anche ammesso che sia vero, non credo che i medici te lo consentano: ci hanno rotto le scatole raccomandandoci di non affaticarti, nel caso ti fossi deciso a venir fuori dal coma”.
“Già…”-dissi con un sospiro e chiusi gli occhi.
“E di Melinda che ne faccio?”
La porta si aprì di scatto.
Melinda infuriata, più bella del solito, entrò violentemente nella stanza.
“Cercavi di sfuggirmi, eh?”
Tentai di dire qualcosa, ma non riuscii a pronunciare neppure una sillaba.
Melinda mi si avvicinò e con una delle sue belle e affusolate mani sfiorò la mia guancia destra in una carezza leggera.
“Sai che ti amo… che ti aspetto…”- disse con voce roca.
Io tacqui ancora.
Melinda mi dette un lieve bacio sulle labbra e uscì precipitosamente, così come era entrata.
Nikita mi fece ok.
Malindi è una città del Sud-Est kenyota, situata sulla costa orientale dell’Oceano Indiano.
A noi parve una distesa pianeggiante, ricca di vegetazione e campi all’inglese con la savana a un tiro di schioppo.
Mai, infatti, avevo visto così da vicino, se non allo zoo, i simba, i tembo i kiboko e le twiga e non mi erano sembrati così selvaggi e feroci come nei film della mia infanzia.
Passeggiavamo, mia nonna ed io, nella strada principale, Lamu Road, ricca di duka, negozi di ogni genere, quasi un bazar di fattura elegante con gioiellerie, bancarelle di frutta e verdura e atelier d’alta moda. Eravamo circondati da ragazzi, i beach-boys, che ci offrivano aragoste e granchi vivi, noci di cocco e ananas per pochi scellini, quando il violento rumore di un colpo di arma da fuoco, seguito dal sibilare di un proiettile, infranse le vetrine di un negozio di abiti da sposa. Le grida di terrore della gente diffusero il panico, mentre un gran numero di poliziotti in motocicletta affluivano sul grande viale.
Immediatamente spinsi mia nonna sul selciato e la protessi col mio corpo.
Seguì un violento scambio di colpi tra due auto che sfrecciarono a forte velocità travolgendo tutto ciò che si parava loro dinanzi.
Il corpo esanime di un uomo fu sbattuto da una raffica di colpi, accanto a noi.
Una vecchia Colt 45, pienamente efficiente, era ai suoi piedi.
Istintivamente raccolsi l’arma, la impugnai e la strinsi forte nella mano destra con l’indice sul grilletto.
Il colpo partì senza che me ne rendessi conto e perforò il serbatoio del carburante della macchina inseguitrice.
Seguirono una sbandata e il fragoroso schiantarsi dell’auto contro un albero secolare.
Il boato dell’esplosione mi paralizzò.
I resti della macchina in fiamme si sparsero lungo la strada, lasciando un acre odore di gomma bruciata.
Un nugolo di poliziotti avanzò verso di noi, mentre mia nonna si stringeva a me.
Avevano tutti l’aria feroce, resa ancora più truce dal colore della pelle.
Quello che sembrava essere il comandante tese la mano destra e indicando la pistola che ancora avevo stringevo nervosamente mi fece cenno di consegnargliela.
“Ok- mi disse con voce ferma- ok, let’s go!…
Avevo quindici anni ed ero scosso da un forte tremito.
Il braccio mi scivolò inerte lungo il fianco e l’arma cadde per terra.
Immediatamente fui afferrato e costretto a salire su un’auto della polizia. Mia nonna insistette per venire con me. Dopo uno scambio di battute fra il comandante e il sottoposto, le fu concesso di prendere posto sul sedile posteriore.
L’auto partì a sirena spiegata.
In breve tempo ci lasciammo alle spalle le strade polverose di Majengo e imboccammo la Jamuri Road, la strada che porta all’aeroporto.
Le sospensioni della macchina cigolavano pietosamente a ogni sobbalzo causato dai dossi che numerosi si susseguono.
Mia nonna, di tanto in tanto, mi prendeva la mano per rincuorarmi e mi sussurrava che presto sarebbe tutto finito, che ci avrebbe pensato nonno Fae. Io deglutivo faticosamente e facevo cenno di sì con il capo, impedito com’ero di articolare pur una sola sillaba.
Nella caserma dell’aeroporto fecero cenno a nonna Carmela di fermarsi nella sala d’attesa e mi portarono in un ufficio dalle grandi vetrate illuminate dai raggi del sole.
Il mio inglese imperfetto m’impediva di farmi capire dall’ispettore che mi interrogava, quando, con sollievo, notai la figura di mio nonno.
Lui mi si avvicinò senza che alcuno tentasse di fermarlo, mi posò una mano sulla spalla e mi portò via.
Avevo una gran voglia di chiedergli cosa stesse accadendo, ma, mio nonno mi fece cenno di non parlare e mi spinse in una vecchia Ford Taunus, dove ci attendeva nonna Carmela.
Rimasi inebetito: non capivo se fosse un sogno, un incubo o tragica realtà.
Per tutto il tragitto sino all’albergo che ci ospitava, in macchina i miei nonni parlarono del prossimo ritorno a Bari e dei preparativi per la partenza; di tanto in tanto mi guardavano e sorridevano sornioni.
Io morivo dalla curiosità.
Giunti nella nostra camera, finalmente nonno Fae mi spiegò.
Eravamo capitati, nonna Carmela e io, in Lamu Road, mentre si stavano svolgendo le riprese di un film. Il regista ci aveva scambiato per comparse. La scena violenta cui avevamo partecipato non prevedeva la mia reazione e la polizia, quella vera, era intervenuta per sottrarmi alle ire del produttore che aveva perso un bel mucchio di sterline per quel mio intervento alla Jhon Wayne.
Io tremavo ancora e loro ridevano spudoratamente, anzi si congratularono con me per l’ottima interpretazione.
Me li sarei mangiati!

Il dottor De Rossi entrò nella stanza col suo camice immacolato: “Bene, bene! Si è svegliato finalmente!”.
Io ero lì lì per riaddormentarmi, invece.
La sonorità della voce del medico mi riportò alla realtà:
“Come si sente?”
Accennai ad una risposta.
“No, No. Non parli…
Le faccio male se tocco qui?”
Non condivisi l’ipotetica: mi stava già saggiando in tutto il corpo.
“No, non parli! Faccia un cenno con le palpebre, se le duole Va bene così!”
“Devo dire trentatrè?”
“Nooo… Non si usa più!”
Ero infuriato perché sentivo di aver bisogno più di riposare che ascoltare le solite frasi fatte che i medici recitano ogni volta in visita a un ammalato, perciò la misi sullo sfottò.
“E che si usa ora?”.
Il dottor De Rossi era un uomo di spirito e non se la prese.
“Ma, che so… se vuole, però, può dire trentatrè”.
“Non è che ci tenga…”.
“Ora stia zitto e mi faccia controllare le ferite- disse tra il serio e il faceto.
“Bene! La metto in uscita per la settimana prossima”.
Fece per andare via, poi si dette indietro: “a proposito, le… le… tonsille stanno bene.”- mi disse sorridendo.
E uscì dalla stanza.
Ne approfittai per chiudere gli occhi.