sabato 31 maggio 2008

Si Vive di Solo Pane

MELIUS ABUNDARE QUAM DEFICERE
L’aria profumava di spaghetti alle vongole, di dentice arrosto, gamberoni al vapore e crostata di mele, ma il desco “de la salle à manger” si presentava terribilmente spoglio, con un'insalata di finocchi e frutta di stagione. Briciole di pane erano sparse per terra; avanzi di lische di pesce giacevano nei pressi della cuccia improvvisata di Knut.
Sonnecchiava sulla sua brandina, quando noi ci affacciammo nella sala da pranzo. Purtroppo non avevo avvisato la Bonelli della sua enorme affettuosità: sentimmo tutto ad un tratto un abbaiare furioso, una corsa disperata, un ringhio terribile e vedemmo una massa di oltre quaranta chilogrammi precipitarsi sulla mia collega.
Ero già pronto a prendere al volo l’energico bestione quando, senza meravigliarmi più di tanto, il cane frenò, slittando sul pavimento, e cominciò, latrando, il suo rituale di corteggiamento: si buttò per terra con le orecchie basse, rimase immobile e languido per alcuni secondi, poi agitò la coda e il suo pisellone e... a quel punto lo tirai per il collare punzonato e gli sussurrai qualche parolina all’orecchio.
Knut è un bravo cane, socievole, intelligente e servizievole, mi capisce a volo: rinfoderò la daga, mise la coda tra le zampe e a testa bassa, brontolando, si riaccucciò sulla brandina.
La Bonelli, pallida in volto e con un lieve tremito alle mani, ricompose l'abito già sgualcito dalle nostre precedenti effusioni e mi si strinse languidamente.
Il ciabattare di Cassandra ci sorprese abbracciati.
Lo stupore che mostrò la nostra collega fu accompagnato da un "ullalà" di Orsobruni che la seguiva a pochi passi di distanza.
In meno che non si dica la stanza fu invasa da una miriade di alunni che ci circondarono e, con parole più oscene di quelle pronunciate da un potente uomo di Stato americano mentre si faceva succhiare il pisello da una giovane fan, mostrarono di approvare la scelta di Ofelia e di condividere i miei gusti.
Gianni Estroverso, su una sedia a rotelle elettrica, sgommando raggiunse la folla ululante e si unì, tra una grattata e un lamento, al casino generale.
I soliti cori goliardici accompagnarono i furiosi battimani e i fischi modulati intonati a nostro beneficio, frenati soltanto dall'urgenza di raggiungere la discoteca per dare sfogo all'esuberanza dell'età giovanile.
Impartitaci, quindi, la loro benedizione, con pacche sulle spalle e strizzare d'occhi, i ragazzi svanirono nel buio della notte, accompagnati dallo scettico Orsobruni.
Ci sedemmo a tavola, Ofelia ed io, affamatissimi.
Cassandra, di turno quella sera e tutte le altre sere come cuoca e vivandiera, scomparve in cucina seguita dal famelico Knut.
Tornò dopo poco con della bruschetta fredda, quasi del tutto scondita, appassita, morta. Si scusò dicendo che i nostri "affidati" e un non meglio specificato Ulrico avevano divorato ogni cosa, fregandosene degli assenti.
Stanco e affamato per le lunghe ore di ginnastica, imitato dalla Bonelli, che stranamente non aveva aperto bocca, ingurgitai quella sbobba. Mentre mi dissetavo con un dolcissimo grappolo d’uva israeliana, preso dalla curiosità, sbottai all’improvviso: “Ma si può sapere chi cacchio è quest’Ulrico?”.
Cassandra mosse il braccio destro come fanno gli americani per significare “roba da poco conto” o “che quiz te ne frega? Son cacchi miei !” e si sedette accanto a me, accendendo una sigaretta. Accavallò le gambe, sistemò il pareo che le scivolava dalle spalle e, ignorando la mia domanda, si rivolse ad Ofelia. Con aria complice le chiese: “Che cosa è successo sulla spiaggia? Mi hanno detto che c’è stato un incidente”.
La Bonelli non si lasciò cogliere di sorpresa e accavallando a sua volta le gambe, tirò la gonna sulle ginocchia e accese una sigaretta: “Oh, niente di grave; - rispose- pare che una ragazza si sia sentita poco bene e che sia stata soccorsa da un suo ammiratore che poi l’ha portata via… nient'altro!" -e lanciò una boccata di fumo verso di me. “Piuttosto- continuò Ofelia strizzando un occhio- a te com'è andata? Sei stata vista allontanarti in compagnia di un “fico” d'importazione… e poi...?”
Cassandra, divenuta improvvisamente rossa, dopo un attimo d'indecisione, sbottò in una risata squillante: “Ulrico...- disse dopo essersi ricomposta- si chiama Ulrico il mio poi… ma voi come l'avete saputo?”.
Il breve e sottile duello fra le due donne mi lasciò indifferente, intento com'ero a cercare qualcos'altro da mandare nel mio stomaco; mi chiedevo soltanto come cacchio avesse fatto Ofelia a sapere del fantomatico Ulrico: un colpo di "culo"- pensai, e mandai giù un tocco di salame piccante trovato nell'enorme dispensa.
Con la bocca che mandava lame di fuoco, corsi in cucina e mi "attaccai” ad una bottiglia di acqua minerale ultra ghiacciata.
Mentre tiravo un sospiro di sollievo, udii Cassandra raccontare:
"Ero sul materassino, al largo, quando mi son vista accanto questo tipo dai capelli dorati, occhi verde mare, spallacce enormi, collo taurino e splendida dentatura color avorio, sapete, di quelle che al sole mandano luce. Con accento tedesco, mi ha chiesto se poteva farmi compagnia e, senza attendere la mia risposta si è messo a vogare con le mani. Mani? due spatole mi sembravano. Ti chiamano "polipo"- disse volgendosi verso di me – e quello cos’è?… ma faceva tutto con molta dolcezza. Mi chiamava “zirena del mare del nord, mag-nifica fichinga, coio del nain equinen (sarà un complimento tedesco), zimpaticissima belfa, stallona of Berlin (questo mi ha lasciato in dubbio), main emmental suisserland, main ice cream, petite cartoffen”.
Accortosi che non reagivo ai suoi complimenti, ha preso una mia mano e se l’è portata sul cuore prima, man mano scendeva e lì l’ho fermato perché i ragazzi hanno cominciato ad ululare, a sfotticchiarmi, a… ricordarmi che sono vergine.
Si chiama Ulrich von Peethoven, discende dall’antica aristocrazia tedesca, è un industriale pieno di soldi. Dice che gli ricordo Bonn e mi vuole con sé in Germania. Mi ha accompagnato sino a casa e non ho potuto fare a meno di invitarlo a cena. Vi abbiamo aspettato sino a mezzanotte, poi abbiamo cenato. Gli è piaciuto tanto il pranzo, che non smetteva di dirmi maine cuoche, maine fantastichen petite faten, maine tutten. E’ andato via alle tre sbronzo di birra e deluso di non avervi incontrato; ma ha promesso che stamattina vi cercherà sulla spiaggia.”
A questo punto del racconto comparve Leonardo Orsobruni, con una bottiglia di birra tra le mani e l'alito puzzolente. Un tremito fortissimo gli scuoteva le spalle e parole senza senso gli venivano fuori dalla bocca assieme a rivoli di birra.
Cassandra lo guardò con commiserazione, si concesse una pausa di riflessione e, dopo qualche secondo, cacciando fumo dal naso e dalla bocca: “Non so che fare- confessò – forse farò una capatina in Germania…”
"Fare una capatina in Germania?" -pensai strabuzzando gli occhi.
Cassandra, la mia segretaria dei Consigli di classe, colei che inventa tutto ciò che dovrei dire, che mi sostituisce nei momenti di bisogno, che mi compra la focaccia e le sigarette quando sono affamato o in crisi d'astinenza…lei fare una capatina in Germania? Manco a parlarne!…"
Distrutto da questi pensieri mi lasciai prendere dalla commozione e imprecai contro Ulrico.
Ofelia, accortasi del mio smarrimento, cerava di consolarmi carezzandomi il viso, le mani e tirando piccoli morsi alle mie orecchie. Le sue manovre mi distrassero dal tormento che mi affliggeva e mi fecero riflettere sul futuro: guardai la Bonelli e sogghignai.
Leonardo, invece, abbandonò tristemente la stanza dicendo che i ragazzi lo avevano seminato e che non intendeva cercarli: "che si fottano!"- concluse.
Lo sentimmo singhiozzare mentre si allontanava, probabilmente per l'eccessiva libagione.


NON CI RESTA CHE PIANGERE
Fui svegliato dalla radio ad altissimo volume che blaterava di future rappresaglie contro terroristi vari, colpevoli di attentati vari e appartenenti a varie estrazioni etniche, tra cui, gettonatissima, una afro-asiatica.
Ero sul divano, vestito, con a fianco la Bonelli che ancora dormiva saporitamente.
Mi stropicciai gli occhi, stirai le mie membra distrutte da un mollone che mi aveva torturato il fianco per tutta la notte, chiamai Knut e aspettai la mia tazzina di caffè.
Udii i passi della belva avvicinarsi e già pregustavo il piacere della mia bibita preferita, quando mi accorsi che, colui il quale secondo la letteratura di tutti i tempi rappresenta l’esempio massimo di fedeltà verso il padrone, fregandosene della mia persona, con la tazzina di caffè sul cranio, si avvicinava ad Ofelia e con estrema gentilezza, in un equilibrio che sapeva di portentoso, le leccava la guancia per svegliarla. “Delitto e Castigo” (lo porto sempre con me, quando sono con il mio cane) piombò con violenza a mezza altezza tra le zampe posteriori di Knut che latrò disperatamente, s’inginocchiò rumorosamente per terra, facendo volare la tazzina contro la vetrata della finestra e, guaendo e borbottando, sporco di caffè e con cocci di porcellana e di vetri tra le dita unghiate, se ne tornò frettolosamente nella sua cuccia, a leccarsi il basso ventre.
La Bonelli, svegliatasi di soprassalto per tutto quel casotto, dopo un attimo di smarrimento, resasi finalmente conto di dove si trovasse, mi gratificò di un: “cominci a rompere le palle di prima mattina?” poi mi sorrise e mi dette un morso alla guancia.
Anche Cassandra, al rumore della tazzina in frantumi, più scocciata che preoccupata, si affacciò nel tinello e con aria rassegnata, senza degnarmi di uno sguardo, salutò Ofelia e le ricordò l’appuntamento con Ulrico; poi, malinconicamente, se ne tornò in cucina, lamentandosi ad alta voce per i metodi che utilizzo con Knut.
“Il traditore”, consapevole di aver fatto breccia nel cuore della Ognimmorti, non perse l’occasione di farsi coccolare. Le si avvicinò trascinandosi penosamente sul pavimento, ingigantendo le mie colpe, le leccò un piede, uggiolò e si mise pancia all’aria per ricevere carezze e grattatine. Il premio finale fu una gigantesca bistecca che avevo sognato per me: i metodi del dottor Spok colpiscono ancora.
Ignorando il continuo borbottio di Cassandra, andai in bagno per prepararmi in vista dell’impatto con il tedesco.
Ofelia, dopo meno di cinque minuti d’attesa, cominciò a bussare dietro la porta del WC implorando di sbrigarmi, poiché aveva delle urgenze.
Se c’è una cosa che mi disturba è il non essere lasciato in pace nel mio rifugio: la stanza da bagno. E', infatti, per me come la soffitta polverosa in cui rifugiarsi nei momenti di riflessione. Lì leggo, compongo, “cruciverbo”, correggo i compiti, fumo le sigarette più gustose: è un luogo senza tempo, è il luogo delle rimembranze, del piacere della solitudine, della meditazione sull’infinito, della scoperta dell'io.
Seccatissimo dell’ingerenza della Bonelli, risposi, tra una boccata di fumo e l’altra, di lasciarmi in pace, di non rompere le scatole e di cercare un eventuale bagno di servizio.
Udii i passi frettolosi di Ofelia verso la cucina e poi uno scarpinare veloce e la voce di Cassandra: ”Di qua... vieni da qua... dai che ce la fai... No! non gliel'hai fatta!”
Purtroppo il bagno di servizio era la stanza più remota della masseria, cui si accedeva dopo due rampe di ripide scale.
Per fortuna la Bonelli non mi portò rancore per il piccolo incidente, anzi quando la rividi mi sembrò un po’ impacciata, intimidita dalla situazione di cui eravamo stati testimoni. Poi sbottammo tutti in una gran risata e la cosa finì lì anche perché cominciavamo ad aver fretta.
Non è che avessi un gran desiderio di incontrare l’alemanno, ma ero roso dalla curiosità; così, non sapendo a cosa stessi andando incontro tornando sulla spiaggia, alle nove ero già in riva al mare.
Approfittando della manifestazione prevista proprio quel giorno, “spiaggia in maschera”, mi ero travestito da sceicco arabo, con tanto di baffi e barba finti e con la Bonelli nel ruolo di concubina euroafroasiatica.
Purtroppo era una giornata ventosa e i nostri vestiti lunghi e leggeri si gonfiavano ad ogni soffio che il buon Eolo spingeva verso di noi. Per fortuna sotto le bianche tuniche indossavamo pantaloni di seta, stretti alle caviglie, che in un certo senso riparavano da raffreddori alle basse vie e impedivano rapidi riconoscimenti.
La 5C dormiva ancora saporitamente, dopo la bisboccia della sera precedente.
Un soffio di vento fortissimo seguito da una tromba d’aria, tipo Louis Armstrong, lanciò un acuto tale da far volare i nostri occhiali da sole e strappò la mia pelosità posticcia e i pantaloni di Ofelia.
Dicono che le trombe d’aria facciano paura a tutti, ma evidentemente chi lo asserisce non conosce gli "abituès" dello stabilimento balneare “Chi l’ha dura la vince”.
La spiaggia, deserta sino a qualche attimo prima della tempesta, divenne popolatissima: bimbi in carrozzino, ragazzini con palloncini, giovinetti esili ed emaciati, con gli occhi pesti per tutte le seghe giornaliere, ragazzine dal seno piatto e dal sedere prominente, giovani con la bava alla bocca brancolanti sulle girls in topless, mariti finalmente liberi delle mogli, mandate in villeggiatura con le madri a consumare gli occhi davanti al commesso in costume da bagno che succhia costantemente Coca-Cola, mostrando il petto villoso e i gonfi muscolacci a tutti e cinque (!) gli arti, vecchietti e vecchiette reciprocamente schifati nel vedersi mezzi nudi, con l'evidente decadenza espressa dai seni vuoti e grinzosi delle femmine e dal cavallo scarso e cadente dei maschi. Beh, tutta questa gente, che di solito è indaffarata nei cacchi suoi, interruppe la propria attività per lanciarsi, come un sol uomo, verso me e la mia compagna, al potente grido di Ulrico: “Ekcooofeli!”.
Quando ci svegliammo eravamo ancora una volta su di una sedia sdraio, pestati a sangue, doloranti e scioccati, senza nient’altro addosso che brandelli di slip, attorniati da un mare di gente: chi ci spugnava gli occhi, chi il volto, il torace, le gambe. Molti giovani indugiavano sulle parti medio-basse di Ofelia, trascurando completamente me che in compenso ricevevo le cure amorevoli di Cassandra ed Orsobruni.
Ad un certo punto una voce tuonò: “lasciateli, sono miei!...”
Il pio Enea Priamoide, sbucato da non so dove e non so come, venne in nostro soccorso, armato di pinze, aghi, forbici, filo da sutura, etere e specilli.
“San Lazzaro – esclamò quando poté accostarsi a noi, facendosi largo a gomitate e spintoni- due San Lazzaro mi sembrate! Si rivolse poi alla folla che si mostrava un po’ dispiaciuta, molto intimorita dalle possibili conseguenze del pestaggio e, mentre armeggiava sui nostri corpi disfatti, chiese spiegazione del gigantesco “rituino” (da noi significa una valanga di botte) di cui eravamo stati oggetto.
Tutta la 5C rumoreggiò e indicò il teutone, nascosto dietro un bagnino largo tre metri.
Nessuno osò parlare tranne lo stesso Ulrico, che uscito dal suo rifugio, come un cane bastonato, consapevole di aver scatenato la furia omicida della gente con quel suo “ekcofeli”, in italogermanico dette la spiegazione del drammatico avvenimento.
La gente- disse- suggestionata dai notiziari del mattino a proposito di atti terroristici compiuti dai fondamentalisti arabi, al suo grido ci aveva scambiato per due bombaroli e aveva pensato bene di "farci fuori" a pugni e calci. Solo quando ci furono strappati gli abiti di dosso qualcuno ci aveva riconosciuto, ma ormai era troppo tardi.
“Zono fortizzimamente dizpiaciutizzimo”- concluse guardando Cassandra con occhi supplichevoli e chiedendo il suo perdono.
Mentre noi faticosamente ritornavamo alla vita, quel pezzo di... pensava agli affari suoi!
Cassandra gli lanciò un’occhiata fulminante e gli suggerì di accostarsi alla sedia sdraio su cui giacevamo Ofelia ed io, ben sapendo come lo avrei accolto.
Raccogliendo, infatti, con uno sforzo sovrumano tutte le forze rimaste, non appena mi si accostò gli portai le mie mani alla gola e strinsi, strinsi, strinsi...poi qualcosa mi precipitò sul cranio e persi i sensi, mentre con somma gioia mi giungeva il gorgoglio della voce di Ulrico sempre più flebile: “actung... liebe, liebe... main Goth...”.

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