domenica 2 novembre 2008

Roma o morte

Roma o morte!
Partenza ore 05.00 del mattino. Macché, alle 07.00 eravamo ancora alle prese con valige che non volevano chiudersi. Mia moglie ed io non siamo pesi massimi, perciò decidemmo di unire i nostri kg da scaricare sui trolley. Il primo si arrese, il secondo pure, il terzo si fece a scodella e unì mia moglie e me in un abbraccio di quelli che ci stringevano da fidanzatini. Gambe per aria e nuca sul pavimento, riflettemmo per un attimo se approfittare della situazione estremamente favorevole. La sveglietta del mio orologio da polso ci ricondusse alla realtà. Cristo, che ritardo! Mi rialzai in fretta e mi catapultai per le scale. Lo scantinato è un deposito atipico. Vi è di tutto, dalle provviste alimentari agli abiti disusati, alle scarpe dismesse, ai ferri per le riparazioni domestiche, ai lettini divenuti troppo piccoli per i nostri due bellissimi pastori tedeschi, alle migliaia di diapositive scattate negli anni ’70 e ’80 delle nostre due figlie, ai testi universitari di Lettere e Scienze Biologiche, rispettivamente miei e di mia moglie, agli abiti carnascialeschi di Ciuppi e Toni, ai fumetti di Tex Willer, di cui conservo una vasta collezione. Il tutto in un grande disordine per le frequenti visite che operiamo quasi quotidianamente per ricercare oggetti da utilizzare per le riparazioni domestiche. L’angolo delle valige somiglia alla torre di Pisa, sempre in precario equilibrio, ma stranamente sempre in piedi. La valigia sostitutiva, come il solito, era l’ultima, quella sotto la pila. Non disarmai. Afferrai il manico e tirai con forza. La torre, con un sonoro tonfo si accorciò di qualche cm e resistette nonostante lo smottamento provocato dall’estrazione. Lo schianto svegliò gli acari che soggiornano dormicchiando e rosicchiando un po’ di tutto e starnutii violentemente. La pila questa volta crollò vomitandomi addosso vecchi zaini della mia vita militare, bauletti in fibra di epoca vittoriana, buticase vari e il trapano elettrico che ritenevo perduto. L’alluce valgo lo accolse con malagrazia ed esternò con la mia voce ciò che pensava dei suoi progenitori che poi erano anche i miei. Zoppicando riguadagnai l’uscita dello scantinato,spinsi la porta che non voleva chiudersi per l’ingombro che arrivava sin sulla soglia, chiusi a chiave la serratura che può essere aperta anche con un apriscatole e salii in fretta le sei rampe di scala che portano al mio appartamento. Mia moglie che mi attendeva vicino l’ascensore mi chiese come mai fossi salito a piedi. Le spiegai che dovevo rimettere in moto il mio arto inferiore sinistro fresco di un sinistro. Non capì ma non se ne fece un problema. Finalmente alle 07.55 eravamo in macchina, una bella Stilo del 2003, turbodiesel, 1900 non so che.
Divorammo la circonvallazione a 150 km orari e alle 08.05 ritirammo il biglietto autostradale.
Roma o morte!
Il cielo azzurro, l’aria dolce, il levantino profumato di mare erano indizi che ci aspettava una bella giornata, gioiosa, che dico, felice. A Roma, infatti, ci recavamo per assistere alla seduta di laurea di nostra figlia Toni. La distanza che separa la mia città dal capoluogo non era motivo di preoccupazione, nonostante avessimo accumulato un grave ritardo, per l’abilità che mi contraddistingue alla guida di autovetture potenti. Ben lo sapeva mio padre che mi chiamava Cazio Nuvolari per non confondermi con il grande Tazio.
Alle 09.30 eravamo a 36 km da Napoli. Il cielo, frattanto, si era fatto nuvoloso. Nuvole nere, cariche di pioggia incombevano sull’Appennino schiaffeggiato da un vento gelido foriero di bufera. No problem. Noi procedevamo sicuri discutendo del più e del meno accompagnati dal rombo del motore e… da un puzzo terribile di ferodo bruciato. Detti uno sguardo allo specchietto retrovisore e scorsi una cortina di fumo bianco. Inchiodai. La macchina sembrava in preda alle fiamme. Per fortuna avevo scelto la piazzola giusta per sostare: eravamo proprio su un punto SOS. Mia moglie, terrorizzata, mi pregò di uscire per accertarmi che non fossimo sul punto di divenire tizzoni ardenti. Sorrisi, mio malgrado, per darle coraggio. Goccioloni di pioggia, in attesa che il mio corpo fosse allo scoperto, cominciarono a rimbalzarmi allegramente sul capo. Imprecai sottovoce. Mia moglie è per l’ortodossia dottrinale. Aprii il portellone del cofano motore e tossii per il fumo e il puzzo. Pigiai il pulsante del SOS. Mi rispose una voce metallica in inglese, spagnolo e tededesco, in italiano no, sovrastata dal traffico dell’Avellino- Napoli. Non capii un cazzo ma ebbi fiducia che il mio appello fosse stato raccolto. Cominciò l’attesa. Azionai i lampeggiatori d’emergenza e scrutai l’orizzonte. Vetture della polizia, dei carabinieri e delle guardie carcerarie transitavano di continuo a forte andatura, ma nessuna di queste sembrava essere guidata da umani, perché non una ci si avvicinò per chiederci se avessimo bisogno d’aiuto com’era lapalissiano. Dopo mezz’ora mi riattaccai al pulsante del SOS.
In spagnolo una voce mi disse di non rompere le palle perché il soccorso era prossimo. La pioggia cadeva a catinelle. Il freddo si fece pungente per i nostri abiti dannunzianamente leggeri. L’oscurità piombò con una nuvolaglia color melanina che non lasciava presagire nulla di buono. Del soccorso nessuna traccia. Alle 10.45 ricontattai l’SOS. Ancora una volta in spagnolo o portoghese. Il soccorso non poteva venire perché anche lui aveva bisogno di soccorso. Cazzo! Mia moglie era sull’orlo di una crisi di panico. Che fare? La mia mente vulcanica cercò e trovò la soluzione. Ricordai di aver memorizzato nel mo cellulare il numero ACI e telefonai. Mi rispose, questa volta, un italiano in napoletano. Mezz’ora dopo eravamo scomodamente seduti nel carrattrezzi in compagnia di un avellinese che, bontà sua, ci reputava degni di dividere con lui la cabina di guida. Da buon campano l’autista s’interessò ai casi nostri e ci propose la sua autofficina per la riparazione della Stilo e una vettura sostitutiva per raggiungere Roma in tempo utile per assistere alla seduta di laurea che avrebbe impegnato nostra figlia Toni nel pomeriggio, alle 15.00. Accettammo. Per raggiungere il punto ACI dovemmo tornare indietro, sino a Atripalda, uno sperduto paesino dell’avellinese. Lì fummo accolti dal capofficina che ci prospettò, dopo un’oretta, una riparazione costosissima, circa 1300 €, se fossimo sfortunati, altrimenti una bazzecola, solo 650 €, se fossimo fortunati. Chiaramente infoltimmo la schiera degli sfigati. Se avessi avuto bisogno di un digestivo non sarebbe stato necessario fare una puntatina al bar o in farmacia: avevo un pozzo amaro in bocca. Trasferimmo i bagagli dalla Stilo alla nuova, si fa per dire, macchina, una Xara della Citroen, SW. Mi sedetti alla guida. Alle 13.00 eravamo nuovamente in cammino. La distanza che ci separava da Roma era aumentata, grazie alla visita atripaldese. Il tempo era diventato indecentemente brutto per la pioggia violenta e costante e il vento a non so quanti nodi. Non mi persi d’animo. Sono o non sono Cazio?- pensai.
All’imbocco dell’autostrada spinsi il pulsante elettrico per abbassare il vetro del finestrino di guida onde ritirare il biglietto: Macché, non funzionava! Mia moglie scese dall’auto e ritirò il tagliando del pedaggio tra lo strombazzare delle auto che seguivano. Ripartii sgommando. Spinsi a fondo l’accelleratore. La lancetta del tachimetro in pochi secondi segnò 170 km orari. Me ne fregai e guidai a tavoletta. Mia moglie, di solito pallida, alternò, per tutto il tragitto, il pallore al rossore, passando da ondate di caldo a sudore freddo. A volte metteva le sue mani sugli occhi non so se per paura o perché preferiva non vedere. Il tergicristallo andava come un forsennato sul parabrezza nel tentativo di scrollare lo tsunami che impediva la piena visibilità, ma io ero ormai come invasato e ironizzavo sui tratti controllati dal tutor che ammoniva di ridurre la velocità. Alle 15.00 in punto eravamo nella caput mundi, cioè sul suo raccordo anulare. Tra le imprecazioni dei piloti delle altre autovetture mi avventurai in sorpassi a destra e a sinistra impipandomene dei gesti onomatopeici che mi si rivolgeva costantemente. Finalmente, con gli occhi rivolti un po’ al cielo, un po’al manto stradale, lessi a caratteri cubitali Uscita San Giovanni. Il cuore mi si allargò in petto, più di quanto sia già largo, grande se volete, per la lunga attività sportiva consumata in gioventù. I battiti cardiaci da 60 piccarono a 120. La meta era vicina! Entrammo, così, nella Circonvallazione Tiburtina. La mappa stradale procuratami da mia figlia raccontava che poco dopo avrei trovato l’uscita Scalo San Lorenzo. Pregustavo i momenti di relax che mi aspettavano e spinsi sull’acceleratore. La Xara rispose come un cavallo imbizzarrito alla mia sollecitazione. Sorpassammo a velocità della luce di una lampada da 1000 Watt un mini autobus giallo con una inserzione pubblicitaria che diceva Trinity College. Nello specchietto retrovisore il giallo si confuse presto con l’antracite della carreggiata. Macinammo km zigzagando in una gimcana da Go-Kart senza che vedessimo il cartello liberatore. Pensai, a un certo punto, di aver sbagliato strada. Invece no! Ero quasi per invertire il senso di marcia (ma non sapevo come avrei potuto farlo), quando incrociai con lo sguardo un cartello che indicava l’uscita per lo Scalo San Lorenzo, il quartiere sede della Sapienza, dell’Università, intendo dire. Il sole fece capolino giusto in tempo per indicarmi il largo Settimio Passamonti e dopo una breve deviazione a destra il Viale dello Scalo omonimo dello stanco eroe manzoniano. Fermai l’autovettura in prossimità di un sovrappasso. Mia moglie ed io ci facemmo occhiolino. Era fatta. Almeno così sembrava. Marco, fidanzato di mia figlia, ci raggiunse dopo qualche minuto. Dopo un saluto forzatamente frettoloso ci indicò dove posteggiare la macchina e ci guidò, a piedi, a grandi falcate, verso l’abitazione in cui risiede con Toni. Mia moglie sembrò tornare la giovane studentessa che correva i 400 metri; io arrancavo. Entrati in un portone che neppure vidi, attraversato l’androne, una porta si spalancò dinanzi ai nostri occhi. La varcai come un automa, con i polpacci che mi dolevano e l’alluce valgo che cantava. Borbottando sacramentavo contro il meccanico della mia città che aveva revisionato la Stilo prima della partenza. Quel boia mi aveva assicurato che ci avrei potuto fare il giro del mondo. Giunse così il momento della vestizione. In piedi, con la gamba destra del mio pantalone che negava l’ingresso alla mia, tanto da farmi precipitare per terra, indossammo velocemente gli abiti pronti per la cerimonia e poi di nuovo di corsa per raggiungere l’Università. Il sole, che sembrava aver vinto il duello con le nuvole, si arrese. Una pioggia scrosciante ci accolse non appena varcammo l’uscio del portone. Marco riprese la sua sfida con il tempo; mia moglie quasi lo precedeva; io arrancavo più di prima. Alle 15.40, stanchi, bagnati, ma felici, abbracciammo nostra figlia che, poverina, come Cenerentola, era sulle spine per noi.

laurea e fiori











Mura e tetti di Roma