martedì 28 aprile 2009

Lo stupro

TRE
Francesco si avvicinò all’armadietto dei medicinali. Aprì l’anta e osservò. Ce n’ erano di tutti i tipi, dagli antibiotici agli antinevralgici, alle supposte antireumatiche, ai normali antidolorifici, soprattutto Aspirine. Un po’ più in fondo le gocce per l’ipertensione. Quasi nascosti, finalmente, due piccoli clisteri di glicerina.
Gli occhi spenti per le cataratte ebbero un barlume di luce.
Proverò con questi- si disse speranzoso.
Le fitte addominali divenivano sempre più frequenti e gli impedivano anche i movimenti più semplici; per non parlare dell’ernia inguinale, divenuta un pallone per il timore di sottoporsi all’operazione.
Michela, vieni ad aiutarmi!
Michela, chiusa com’era nella sua demenza e nella sordità che la rendeva assente alla vita del mondo circostante, non udì l’invocazione del marito.
Facendo forza su se stesso Francesco si avvicinò alla cucina. Michela era intenta alla lettura di una rivista femminile. Guardava le immagini, poi scorreva con l’indice destro le righe dell’articolo. Si illudeva di essere ancora giovane e si rispecchiava nelle donnine che venivano rappresentate in abiti alla moda, truccate e spumeggiati nella loro giovinezza.
Francesco la fissò; era lì lì per rimproverarla, come il suo solito, quando una fitta lancinante lo accasciò, seduto, sul pavimento. Gli mancava il fiato, non riusciva ad emettere alcun suono se non un grugnito accompagnato da una smorfia di dolore. Le feci abbondanti, coagulate nell’intestino spingevano sull’ernia procurandogli spasmi lancinanti che risalivano sino alle reni. Si rassegnò ad aspettare che Michela volgesse lo sguardo verso di lui.
Michela sorrideva scorrendo le pagine illustrate e di tanto in tanto si passava una mano tra i capelli.
La bocca priva di dentatura sembrava una voragine scura, con la lingua rosso scuro che guizzava come la coda di un serpente.
Francesco riandò con la mente al giorno del loro primo incontro.
Bruna nei capelli corvini e negli occhi, leggermente scura di carnagione, Michela aveva fatto un inchino tenendo le falde della gonna e si era seduta composta tra il padre e Lucrezia.
Dio, quanto è scura! – aveva pensato Francesco e l’aveva confrontata con Lidia.
Oh Lidia dai capelli biondi, dagli occhi celesti come il cielo, dalla pelle bianca e profumata!
Avrebbe voluto fare un balzo e scomparire, andare lontano, tornare a dieci giorni prima, quando sembrava dovesse sposare la sua Lidia, la donna che aveva corteggiato per due anni, che aveva baciato e tenuto stretta a sé; avrebbe voluto uccidere suo padre che l’aveva costretto ad abbandonare il suo tenero amore per rincorrere una dote di cui non gli importava nulla. Era stato Domenico, infatti, a scrivere quella maledetta lettera. L’aveva mandata con un bidello della scuola. Era indirizzata al cav. Carlo Di Nunno, padre di Lidia, a cui chiedeva in dote un appartamento per i due ragazzi, senza il quale non sarebbe stato possibile stipulare il contratto di matrimonio. L’aveva fatto a sua insaputa, senza chiedergli quanto fosse forte il legame che lo univa a Lidia, quanto desiderasse quella e solo quella donna. Del resto, pensava Francesco, tutta la vita di Domenico Civita era stata improntata al pragmatismo, se non a un cinismo crudele, comprovato da decisioni ignobili portate a termine con determinazione. Aveva costretto la cognata, Annunziata, sua madre, non quella vera, che anche lei era morta in giovane età, a sposarlo nonostante il voto di castità, la rinuncia alla vita mondana, la dedizione al laicato cristiano. Annunziata gliel’aveva raccontato il giorno prima che si recassero a casa di Michela lo stratagemma, l’odioso sotterfugio che aveva utilizzato per farla sua sposa.
Erano i primi del Novecento, il tempo della Belle époque, quando nei teatri si esibivano le sciantose che mostravano le gambe perfette e sensuali in calze nere a rete e giarrettiera rossa. Ma era anche il tempo in cui le donne timorate di Dio ignoravano come si generasse un bambino. Così era Nunziatina. Quando morì sua sorella Ottavia, mettendo al mondo l’ultimo figlio, Giuseppe, si offrì di allevare tutta la nidiata, da zia devota e affezionata. Domenico, invece, aveva un altro progetto, la voleva in moglie per affidarle l’educazione dei cinque figli, per affidarsi anche lui a una compagna che non l’avrebbe mai abbandonato. Un mese dopo la morte di Ottavia ebbe un burrascoso incontro con la cognata che rifiutò energicamente la proposta di matrimonio. Domenico non si dette per vinto; simulò di accettare il diniego per prendersi una rivincita terribile.
Trascorsero così due settimane in cui tutto sembrava scorrere senza scossoni. Poi, un sabato mattina, Domenico rientrò a casa prima del previsto, in compagnia di suo fratello Antonio, arciprete nella cattedrale di Palo del Colle. Finse una fretta del diavolo e chiese a Nunziatina di prepararsi a uscire per recarsi in chiesa dove il fratello avrebbe impartito al piccolo Giuseppe il sacramento del Battesimo. Nunziatina se ne stupì, ma non obiettò. La carrozza attendeva davanti al portone, con, al seguito, un calesse con l’arciprete e una coppia di giovani sposi. Lei pensò che fossero i prossimi padrini del piccolo. Arrrivati in una strada di campagna, a circa dieci km dal paese, la carrozza si fermò. Il vetturino si allontanò dando ad intendere che doveva soddisfare un bisogno personale. Anche i due giovani scesero dal calesse, aprirono la porta della carrozza e strapparono dalle mani di Nunziatina il piccolo Giuseppe. Poi, correndo, rimontarono sulla vettura e partirono a spron battuto, incuranti di Don Antonio che piangeva. Nunziatina urlò con quanto fiato aveva in gola, tra l’indifferenza di Domenico. Solo quando il cognato le si avvicinò capì cosa stava per accaderle. Il disgusto le provocò un conato di vomito. Non oppose resistenza. Domenico la stuprò. Lei chiuse gli occhi e subì silenziosamente la violenza. Le nozze furono celebrate tre mesi più tardi, quando nel grembo le si agitava una nuova vita.
Tratto da "i dolori della nonna" di Natalino Lattanzi

domenica 26 aprile 2009

La proposta di matrimonio

DUE
Siamo temporaneamente assenti- vociò la segreteria telefonica- se credete lasciate un messaggio. Vi richiameremo.
Francesco ascoltò con espressione indurita. I denti malfermi scricchiolarono per la tensione dei muscoli facciali. Chiuse il telefono.
Sii stramaledetta- disse fra sé. Poi si lasciò andare sulla poltrona di vimini.
Riandò con la mente agli anni della sua giovinezza, quando bastava un suo sguardo per far tremare Michela e i quattro figli, per metterli sugli attenti, come diceva ridendo ai suoi colleghi durante le pause di servizio. Era fiero del potere che oltretutto aveva conquistato senza fatica, anzi gli era giunto per eredità dalla seconda moglie di Lorenzo, la matrigna di Michela, che aveva tirato un sospiro di sollievo il giorno delle nozze.
Si era presentato in divisa, accompagnato dal padre, preside di liceo, a quel tempo tra i personaggi più in vista della città.
Lorenzo vedeva di buon occhio quel partito che introduceva lui, più contadino che proprietario terriero, nell’alta società e che lo liberava dall’essere ossessionato da Lucrezia, la moglie di secondo letto, che gli aveva dato tre figli, due femmine e un maschio, a cui indendeva andasse l’intero asse ereditario. Michela, in fondo, aveva di che vivere. Tutto il patrimonio di Rosaria, morta in giovane età, sarebbe stato suo. Non che Lorenzo non amasse Michela, ma il suo amore paterno veniva soffocato da Lucrezia che lo ricattava cacciandolo dal letto ogni qual volta mostrava interesse per la sua primogenita. Era giunto persino a disinteressarsi del patrimonio della sua prima moglie, tanto da lasciare che Agata, la sorella, s’impossessasse senza colpo ferire di una ampia e lussuosa villa al mare che altrimenti sarebbe toccata in eredità a sua figlia. Francesco gli aveva tolto le castagne dal fuoco, oltretutto gli era sembrato la persona giusta: serio, di ottima famiglia, ufficiale dell’Esercito Italiano, in ottima salute fisica, figlio di uno dei cittadini più illustri. Cos’altro poteva pretendere lui, ma anche sua fglia. Mica la dava in moglie a un carrettiere, un bifolco, a un uomo di rango inferiore.
Michela, invece, non desiderava quel matrimonio. Era stata affidata, piccina, a una sorella di suo nonno, Amalia, donna pia e devota ai santi Medici, ai quali aveva innalzato vari altarini, illuminati da grandi ceri che contribuivano a rendere luminosa una casa che non conosceva ancora la luce elettrica. Ma non se ne lamentava. Lei era per una vita allegra, spensierata, forte dei suoi venticinque anni, della sua vita universitaria trascorsa tra Napoli e Roma, senza il controllo di alcuno, in compagnia della “baronessa”, Adriana, amica d’infanzia, di giochi, di piccoli e ingenui flert amorosi, quando guardare una foto significava dedicare tutto se stessi a quell’immagine bianco e nera. In fondo lei sì, l’aveva un amore. Era quel giovane aviatore che le faceva il filo già da due anni, che le piaceva tanto da sognarlo di notte, sotto le coltri, con le mani che le correvano su per le gambe, sin tra le cosce con quella sensazione di caldo umido che le faceva arrossire il volto. Rino si chiamava, Rino vattelappesca cos’altro, perché mai avevano avuto modo di restare soli, d’incontrarsi nel buio di un vicolo, nella sala di un cinema, nella platea di un teatro affollato. Eppure gli sguardi erano corsi dall’uno all’altro e i sorrisi soffocati dallo sguardo severo della prozia, responsabile del mandato ricevuto, della preservazione della verginità della nipote messa a repentaglio dalla sua ingenuità e dalla facilità con cui si lasciava coinvolgere in rapporti d’amicizia.
Poi quel giorno era comparso Francesco, ingessato nella sua divisa, con quegli occhi di ghiaccio, con quella carnagione così bianca da sembrare essere stata smacchiata in varechina. Il capo coperto dai corti capelli biondi, rapati quasi a zero, come per consuetudine militare, impettito nel grigioverde con la stelletta di tenente, la prima volta che le aveva rivolto la parola l’aveva rimproverata per aver messo una gonna che aveva una balza appena scucita. Né lei, né sua zia, né Serafina, la vecchia nutrice, si erano accorte di quel l’impercettibile difetto; Francesco, lui sì, l’aveva notato forse per l’abitudine a passare in rivista, prima della libera uscita, i soldati, quel popolo spaurito e inebetito dal bromuro sorbito ogni mattina, a colazione, frammisto al latte e al caffè della naja.
Era venuto con suo padre, il preside Domenico Civita, severo nel severo abito nero. L’incontro era avvenuto a Bitonto, nella casa paterna di Michela, non presente, come di consuetudine, ma che origliava dietro le porte chiuse. Lorenzo e Amalia avevano indossato gli abiti della festa. Un completo marrone bruciato il padrone di casa, una lunga veste nera a fiorellini gialli la moglie. Dopo le presentazioni e le cortesie di rito, come obbligava il cerimoniale del tempo, Lorenzo aveva chiesto il motivo della gradita visita. Domenico giocherellava con la pipa che gli sbucava dal taschino esterno della giacca quando Lucrezia lo aveva invitato a fumare se ne avesse avuto voglia. Con gesti lenti e misurati l’anziano preside aveva preso la pipa in radica, ne aveva caricato il fornello dalla tabacchiera d’argento che portava sempre con sé, e aveva avvicinato il volto alla mano del padre di Michela che gli tendeva il lungo fiammifero acceso.
Sono qui per i nostri figli.-aveva detto con calma
Una voluta di fumo, liberata nell’aria, aveva mandato il suo profumo sin dietro la porta che nascondeva Michela.
Lorenzo, frattanto, aveva acceso il suo toscano.
Parlo ovviamente- aveva detto con voce grave, dopo una pausa, - di Francesco e Michela- . Mio figlio è un ufficiale. Ha un futuro prestigioso dinanzi a sé. Per la giovane età raggiungerà senza dubbio i più alti gradi, per la sua intelligenza sarà chiamato a ricoprire incarichi gravidi di responsabilità, come già preannuncia il suo ottimo stato di servizio. Ecco, il mio desiderio è che sposi una ragazza degna di lui, sana come lui, ricca di doti etiche e di un discreto patrimonio, come impone il regolamento militare. Dalle informazioni assunte per obbligo, sua figlia Michela corrisponde al modello di donna che prevede la pratica matrimoniale. Io sono qui, con mio figlio, per richiederne la mano, se a voi questa unione arreca l’egual piacere che avverto io.
Lucrezia era rimasta impassibile, ma il cuore le era di certo sobbalzato in petto per la felicità.
Lorenzo con un sorriso compiaciuto aveva chiesto se Il tenente conoscesse sua figlia.
L’ha intravista l’altra domenica in chiesa.
E che dice?
Sono qui per questo- aveva risposto Francesco.
Bene, bene. Chiamo Michela.
Tratto da "I dolori della nonna" di natalino lattanzi