domenica 18 maggio 2008

Homosex-Si vive di solo pane

ESTOTE PARATI
La masseria, situata a cinque Km da Rimini sud, troneggiava nel sereno, quasi fosse un presepe nella notte di Natale.
Non vi era, infatti, il solito rumore assordante delle auto che percorrono a velocità sostenuta le vie cittadine, non si udiva il frastuono delle radio a tutto volume, delle sirene della polizia e dei pompieri, ma solo il dolce rumore della risacca, lo sciacquio delle onde sulla scogliera, il verso dei gabbiani che predano il cibo al mare, le urla dei turisti vittime degli scippatori.
Decidemmo di trascorrere quella domenica di primavera sulla spiaggia, a prendere un po’ di sole e di acqua salmastra: non fosse altro che per rinfrancarci delle fatiche del giorno precedente.
La proposta non fu accolta con molto favore dai ragazzi che preferivano girare per Rimini alla caccia di anglosassoni e teutoniche.
Feci valere la mia autorità minacciando la non ammissione agli esami di Stato ai fautori della proposta.
Accompagnato da vari "vaffanculo, stronzo rincoglionito!" vinsi la mia battaglia e spinsi la ciurma sulla costa sabbiosa dell'Adriatico.
Dopo qualche lieve “borbottamento”, cinquanta ragazzi bagnavano le loro chiappe nell'acqua salmastra, inseguendosi, lottando, urlando e pomiciando.
Ad un certo punto sentii una voce strozzata ma ben alta richiedere aiuto. Chi se non Olindo Buonavoglia poteva cacciarsi nei guai in ogni situazione ?
Gettai uno sguardo sull'orizzonte e mi accorsi che il provveditore junior annaspava, agitava le braccia, andava sott'acqua, ricompariva e invocava l'help con quel poco d'aria che gli restava nei polmoni.
Alle urla di Olindo non uno dei suoi compagni mosse un dito; i più chiedevano che si lasciasse affogare quel coglione raccomandato, qualcuno se la rideva, pensando ad uno scherzo.
Non sono un gran nuotatore (infatti, prediligo la sabbia perché mi consente di camminare nell’acqua sin quando si tocca), per questo motivo non ritenni opportuno rischiare la vita e incitai Orsobruni, che per fama è ritenuto l'erede del vecchio Jonny Weismuller, a muovere le chiappe e a ripescare Olindo.
Lo psicologo, invece, aveva assunto una posizione asociale e dopo un cenno di diniego fatto col capo, si eclissò dietro una duna.
Di bagnini neppure l'ombra.
Vincendo il mio timore reverenziale per le profondità marine, mi lanciai di corsa verso il bagnasciuga e, preso lo slancio, mi tuffai verso l'oceano.
La panciata che detti sul bassissimo fondo sabbioso risvegliò tutte le amebe e le tenie che sonnecchiano da sempre nel mio intestino; provai un dolore acutissimo che percorse la mia spina dorsale per fermarsi all'alluce sinistro, già provato da mille piccoli precedenti infortuni.
Imprecando ad alta voce raggiunsi quel disgraziato di Olindo che, ad una profondità di neppure trenta centimetri, si sganasciava dalle risate.
Accecato dal dolore lancinante del mio alluce, afferrai il "bastardo" per i capelli, gli spinsi il capo sott'acqua schiacciandoglielo sulla sabbia e lo tenni giù per buoni trenta secondi; quando mi resi conto che il livello del mare era decresciuto per l'acqua ingoiata dal mio allievo, lo feci riemergere e lo sospinsi, a calci nel sedere, verso la spiaggia.
Olindo era infuriato, giurava che me l'avrebbe fatta pagare raccontando tutto al "paparino" che certamente avrebbe provveduto (altrimenti che razza di provveditore sarebbe stato) al mio immediato trasferimento nell'isola di Ventotene.
Non nascondo che provai un po' di paura alle minacce dello sciagurato, per cui la buttai sullo scherzo dicendogli sorridendo che lo stimavo troppo maturo perché se la fosse presa per un gioco innocente.
Buonavoglia, sulla sabbia, con gli occhi rossi, le labbra livide e i capelli appiccicati sulla fronte, imbronciato, sputando acqua mi rassicurò e per dimostrarmi che era un uomo e non un bambino mi tese la mano.
Come un allocco, abboccai e mi ritrovai per terra, a pancia in giù, soffocato dalla sabbia che mi riempiva la bocca.
La finimmo lì.
Un marocchino travestito da “marocchino” si affacciò timidamente sulla spiaggia, portando sulle braccia e sulle spalle tutto l’occorrente per il mare (una coppia di sdraio, ombrelloni, asciugamani ed accappatoi, borse termiche, tamburelli, bocce, sigarette, accendini vari, sombreros messicani, borracce e un mini hi-fi che vociava a tutto volume) .
Il sole picchiava maledettamente e il sudore gli scivolava dappertutto, in modo particolare negli occhi, facendoli bruciare come se li avesse sfregati con un peperoncino calabrese.
Avanzava sulla sabbia bollente barcollando per il peso e per le scottature, suscitando l’ilarità di alcuni alunni che cominciarono a seguirlo, lanciandogli contro palle di sabbia bagnata.
Ad un certo punto fu colpito fra le scapole e con un urlo disperato precipitò per terra, distribuendo il suo bagaglio su una superficie di circa tre metri quadri.
Mentre la sabbia gli riempiva i vari orifizi, alcuni bagnanti tedeschi a gesti gli indicarono un “luogo anatomico” dove andare, invitandolo, immediatamente dopo, con voce hitleriana ad alzare le chiappe e a tornarsene nella sua Africa.
Quando finalmente riuscì ad alzarsi, privo della copertura delle sue cianfrusaglie, ammutolimmo: era un sosia dei bronzi di Riace. I suoi muscoli fremevano potenti sotto l'abbronzatura naturale concessagli da Allah; la dentatura mandava lampi accecanti, colpita dai raggi solari, le mani, chiuse a pugno, sembravano due martelli pneumatici in cerca di lavoro, le gambe due Baobab dal fusto enorme e le spalle una portaerei.
Immediatamente comparve la simpatia sui volti impalliditi dei miei compagni di mare che, "magnanimamente", raccattarono tutto l'armamentario sparso sulla sabbia e chiesero umilmente scusa al gigante nero.
Un bagnante, sottovoce, osò lamentarsi dello scompiglio che aveva causato, ma di fronte. al grugnito del watusso, che cercava digrignando i denti i responsabili della sua caduta, si nascose dietro il grasso strabordante di Otto Merdhammer, un caseario di Berlino.
I miei alunni decisero per la fuga e scomparvero nelle acque dell'Adriatico.
I teutonici, invece, entusiasti delle cianfrusaglie ancora sparse sulla sabbia, se lo ingraziarono con l'acquisto di orribili maschere papuasiane, profilattici africani fatti di buccia di banana (di qui l'aumento demografico registrato nel Continente Nero), feticci contro il malocchio, collane ricavate dalle zampe della mosca tse-tse e braccialetti di corallo industriale.
Tutti felici, dopo aver speso un patrimonio, gli alemanni alzarono le chiappe e noi e "Riace ter" restammo padroni del territorio.
L'esotico, non contento della razzia operata ai danni dei nostri fratelli europei, mi si avvicinò per tentarmi con un calendario porno, stampato in oro su seta del pleistocene (diceva lui), ritrovato in una grotta keniota.
Dopo una lunga trattativa fatta con gesti della "morra cinese" e grugniti da plantigradi, mi assicurai il "reperto" per cinque "euro" che mi erano stati dati da un amico bancario in cambio di un fanale di una vecchia cinquecento.
Andato via l'extracomunitario, la Quinta C sorse dalle acque, così come fece Venere nell'isola di Zante, e si lasciò cadere sulla sabbia, pancia all'aria, per farsi dorare la pelle dai cancerogeni raggi ultravioletti del sole.
Vedere i cinquanta corpi distesi e immobili, di ambedue i sessi, quasi nudi ed efebici dei miei alunni imbelli, risvegliò in me l'istinto omicida e se non fosse giunta la Bonelli, avrei brancolato su quelle spoglie come il dantesco conte Ugolino.
Ofelia, in "due pezzi" nero, che mostrava alla natura la riconoscenza per l'impegno che aveva profuso nel confezionare quel bel pezzo di femmina, si sedette accanto a me e commentò gli ultimi avvenimenti, così come fa lei, con un fervore fervente, mediterraneo e forte, fatto di gesti "onomatopeici", con involontarie sfiorate della mia pelle, che mi eccitarono.
Debbo confessare che fra Ofelia e me non è mai corso “buon sangue”; infatti, da quando sono addetto alla costruzione dell’orario scolastico, le ho costantemente raffazzonato un orario pieno di buchi che la costringe a scuola, quotidianamente, dalla prima all’ultima ora. Ciò non vuol dire che lo faccia di proposito, anzi...
Politicamente giacobina, la Bonelli è sempre fra i miei più accesi oppositori e, ogni volta, dopo l’accettazione passiva collegiale del “dictat” curricolare, mi lancia sguardi da assassina, mi toglie il saluto e dichiara ad alta voce volgarissimi propositi di vendetta che poi, per fortuna, non mette in atto.
Pur sentendomi terribilmente di “fottere” per il suo atteggiamento ostile, fingo di stare al gioco e le invio i miei ghigni delle grandi occasioni.
Rimasti soli, dopo aver preso a calci l'intera Quinta C, con la minaccia di relegarla in masseria, senza libera uscita serale, mi concentrai su Ofelia.
Le presi affettuosamente una mano tra le mie e le chiesi notizie sulle sue condizioni psico, ma soprattutto fisiche.
Mi raccontò, quasi sussurrando, con voce sensualmente arrochita, e chinando dolcemente il capo verso la spalla destra, mentre una cascata di capelli neri le copriva l'omero, che "se l'era vista brutta", che mai avrebbe pensato di vivere un'esperienza simile e che voleva solo dimenticare.
Ofelia, allorché comincia a raccontare, somiglia allo scioglimento delle nevi del Kilimangiaro (mistero ancora insoluto), getta ettolitri di parole al secondo e si ferma solo quando è in debito d'ossigeno, poi rifiata e parte a ritmo singhiozzante, consentendo all’interlocutore brevi risposte e lapidarie domande.
A metà mattinata conoscevo i suoi primi dieci anni di vita; all’ora di pranzo ero stato messo al corrente di ciò che le era accaduto sino alla sua età attuale. All’imbrunire aveva preconizzato il suo futuro sino all’età di sessantacinque anni; il resto, dice lei, è sulle ginocchia di Giove.
Il sole e il fiume di parole della mia collega mi avevano intontito a tal punto da spingermi a sussurrarle all’orecchio parole dolci, promesse di eterno amore e, per il prossimo anno scolastico, un orario “ad hoc”, simile al mio.
Ofelia ascoltava assorta, stranamente non interrompeva le mie parole, si guardava le dita e giocherellava con un ciondolo che raffigurava un gobbetto dal volto ripugnante che al posto delle gambe aveva un appariscente corno d’avorio rosso, da cui spuntava, biricchinamente, una protuberanza ben definita: lo riconobbi immediatamente. L'amuleto era, infatti, il trofeo da me vinto nel torneo di bocce che annualmente si gioca nel nostro Istituto. Durante una gita scolastica lo avevo regalato ad Ofelia, non per farmi perdonare una delle tante scortesie, ma per veder trasformare i suoi occhioni grigioverde in due tizzoni ardenti.
Lo presi nel boffice perché la Bonelli non aveva fatto una grinza, anzi con un sorriso mi aveva mostrato il lungo dito medio della sua mano sinistra.
Il gobbetto ora era lì, tra le sue mani.
Il cuore mi scese negli slip: mi convinsi di non esserle indifferente.
Guardai le sue tette e mi confortai, guardai le sue gambe e mi eccitai: in un attimo l’abbrancai e le detti un bacio sulle labbra. Ofelia si lasciò andare, rispose al mio bacio con altrettanta passione: le nostre lingue si toccarono, tirarono un po’ di scherma, poi s’intrecciarono, s’incastrarono, si fusero. Sebbene vari tentativi, non riuscimmo poi a liberarci e se non fosse intervenuto il medico del pronto soccorso, probabilmente saremmo ancora un tutt’uno.
Attorniati da una folla di alunni e di curiosi, ci distendemmo su un’unica sdraio, di fianco, uno di fronte all’altra, mentre il taumaturgo, dopo aver anestetizzato le nostre lingue, con pinze e garze sterili, armeggiava “delicatamente”. Finalmente l’operazione terminò con successo: un applauso scrosciante infiammò la spiaggia.
Il cielo era stellato quando la teacher ed io tornammo in masseria. Avevamo tutti due i capelli e gli abiti scomposti e trasudanti sabbia. Il rossetto di Ofelia, in parte scomparso dalle sue labbra, era finito sulle mie, con sbavature che giungevano fin oltre la cintola, dandomi un aspetto equivoco, anche per la lunga camicia che veniva fuori dai calzoni, arrotolati sino al ginocchio: via! una minigonna.
Per strada, approfittando del buio pesto che contraddistingue le vie di campagna, avevamo fatto di tutto, comportandoci come due ragazzini innamorati per i primi dieci passi e, nel resto del percorso, come due assatanati di sesso che avevano mandato a memoria il Kamasutra e sperimentato “arrangiamenti sul tema”.Ofelia, nei pochi momenti di tregua che c'eravamo concessi, mi aveva confessato di aver sempre avuto simpatia per me, per i miei occhi color gianduia, striati di alghe marine, per la mia chioma di quel grigio antracite “Alfa Romeo”, per il profilo michelangiolesco, per le proporzioni del mio fisico, alla David (sempre di Michelangelo), per le grandi mani, cantate nella melodia “Senza fine” da Mina, nota "canorizzante" degli anni sessanta e, soprattutto, per il mio robusto naso, che lasciava intuire cuore generoso e qualità anatomiche portentose. Poi, la disavventura con l'autista e il mio arrivo le avevano ulteriormente chiarito le idee e aveva deciso di diventare la mia donna, dimenticando l’orario strabucato e le furiose litigate durante il Collegio dei docenti.

Ttto da Homosex- Si vive di solo pane di natalino lattanzi

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