domenica 26 dicembre 2010

i miei libri











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venerdì 23 luglio 2010

LA SINDROME DEL PENSIONATO

LA SINDROME DEL PENSIONATO

LA SINDROME DEL PENSIONATO

Ormai ne sono certo: esiste la sindrome del pensionato.
Il guaio è che io ne sia stato colpito prima di essere collocato a riposo.
Per la verità mi è giunta una comunicazione dall’Ufficio Scolastico Provinciale che recita: Collocamento in quiescenza per limiti d’età dal 1° settembre 2010.
Cazzo, per limiti d’età! Mi danno già per un vecchio rincoglionito.
E dire che sino a qualche giorno fa per lo Stato ero estremamente efficiente, anzi, dovevo essere estremamente efficiente. Dovevo alzarmi presto, correre a scuola in tempo per il caffè, picchiare gli alunni recalcitranti, anche se alti il doppio di me, trascorrere un’intera giornata senza pausa pranzo per le incombenze varie di fine anno, essere disponibile a presiedere agli esami di Stato a Mola sottomettendo alla mia la volontà ben otto agguerritissimi docenti e altro ancora.
Manco il tempo di tirare un respiro di sollievo ed ecco la sindrome subdola, traditrice, infame, dolorosa. A dire il vero, non è stata poi così improvvisa.
Un giorno sedevo sul water… vi vedo sorridere, ma non lo fate anche voi? O siete stitici di natura e via a ingozzarsi di marmellata tamarine, prugne della California, Guttalax e lassativi vari? Ebbene, io non ne ho bisogno. Puntuale come un orologio, di quelli moderni, in eterno collegamento con le stazioni satellitari, ogni mattina lascio la parte peggiore di me alle fogne cittadine.
Come dicevo, appunto, ero lì sul wc e leggevo un libro, uno di quelli noir, di quelli scritti da Lucarelli, Macchiavelli e Camilleri, che sono i miei preferiti.
Lo sguardo mi andava sempre alle lancette perché, come sapete, per le 08.00 bisogna essere a scuola.
La vicenda, però, era avvincente, perciò dalli a leggere. Poi la sveglia mi dà segno non della festa che viene, ma del dovere che chiama. Cosa faccio a quel punto? Infilo un bel segnalibro alla pagina che non ho ancora finito e passo all’operazione successiva: la carta igienica.
A quel punto è successo. Un movimento maldestro, veloce e vroom, un lampo al fianco che mi lascia senza respiro.
Porca Eva! - grido così forte che mia moglie da dietro la porta mi chiede cosa sia accaduto.
Niente - sibilo a mezza voce.
Altro che niente, mi sono fregato.
Dal rotolone che non finisce mai attingo a piene mani, opero le pulizie d’obbligo e mi trascino sul bidet. Le abluzioni riesco a farle per forza di volontà, per abitudine inveterata, non come gli inglesi che si portano un certo odorino addosso. Stoicamente cerco di andare sotto la doccia, ma è un’impresa ardua e rinuncio.
Mia moglie bussa ancora: Che ti è successo? Apri!
Magari potessi - dico fra me.
Do uno scatto imperioso, la schiena fa crak e mi tiro su.
Il colpo della strega - e guardo mia moglie.
Che intendi dire? - mi chiede offesa.
Ho il colpo della strega, mi fa male il fianco, non riuscivo ad alzarmi.
Mia moglie non parla, va nell’armadietto dei medicinali, prende una siringa, una fiala di voltaren e una di muscoril.
Scopri il sedere! - mi intima.
E il disinfettante? - chiedo io.
Lo prendo.
E il cotone idrofilo? - Insisto cercando di allontanare il più possibile il momento del buco.
E sì, perché io ho le natiche suscettibili. Sin da ragazzino, non è un fatto di mo’, volevo dire recente.
Le infermiere si rifiutavano di infilarmi l’ago nel boffice perché puntualmente l’ago si deformava. Qualche volta s’è pure spezzato. Per questo tento di evitare le punture.
Ma che vuoi fare, quando mia moglie assume l’aria della signora Rottermaier bisogna obbedire.
Io, che ho faticato tanto a tirar su i boxer della mia nereria intima, ora debbo nuovamente abbassarli.
Mia moglie capisce il dramma che sto vivendo e mi aiuta.
Le mie natiche fanno il ballo di San Vito.
Stai fermo, per favore - mi sgrida la mia dolce metà - non posso infilarti se continui a muovere i muscoli in quel modo!
E che, sono io? - le rispondo - quelli fanno tutto da soli!
Come Dio vuole, l’alcool addormenta un po’ la parte e zac… l’ago si torce.
Te l’avevo detto - digrigno io - meglio una pillola.
Mia moglie non demorde. Quasi stesse facendo una gara contro il tempo, cambia ago e zaaacccc.
Questa volta l’ago ha quasi raggiunto l’osso. Soffoco per orgoglio maschile l’urlo di dolore che manco Carlo Alberto e mi arrendo. Il liquido che impregna il gluteo, quello dx, sembra non finire mai.
Ancora? - Chiedo.
Che vuoi, è lunga - mi risponde - sono due fiale in una!
Un leggero tremito percorre la gamba sin quando non termina l’operazione.
Mettiti a letto!- intima mia moglie.
Non posso, oggi c’è consiglio di classe e poi ricevimento dei genitori.
Tu sei pazzo.
Ci salutiamo così: lei alla sua e io alla mia scuola.
Di lì in poi le cose sono andate in modo accettabile: mi svegliavo un po’ rigido, iniezione tragicomica, poi camminavo e sembrava che tutto fosse passato. Dico sembrava perché, il mattino successivo, punto e daccapo, sino a che la goccia non ha fatto traboccare il vaso.
L’esame di maturità.
In segreteria mi avvisano: che culo, sei presidente a Mola!
E beh’- m’informo.
Come e beh, non devi fare un cazzo e sei pagato!
Tutta invidia, fossero venuti a Mola con me!
La scuola è bella, è un edificio antico, vicino al lungomare, ma dal lungomare non si può andare perché ci sono lavori in corso. Allungo e mi trovo in una via a solo accesso pedonale. In fondo c’è l’istituto.
Parcheggio non in zona blu sennò devo pagare un frego di soldi e mi avvio.
Svraang, una vettura quasi mi arrota. Cazzo, com’è possibile, di qui le macchine non devono passare!
E invece no, cavolo se ci passano!
Ci scommetto che se lo faccio io subito un vigile mi eleva una multa stratosferica.
Riprendo il cammino.
Minchia, com’è sconnessa questa strada! Non demordo e raggiungo la sede d’esame.
L’ausiliaria mi viene incontro nell’androne. Mi presento. Mi fa del lecchinaggio e mi invita a recarmi al primo piano dove mi aspetta la vicaria della preside.
Chiedo dell’ascensore. Non c’è.
Minchia! Le scale sono costituite da gradini di circa trenta cm ciascuno e sono tante. Ci vorrebbe la teleferica.
Chiedo alla mia sciatica di fare la brava. Manco per il cazzo.
L’anca comincia a pregarmi di non fare lo stronzo, di far mettere in moto il seggiolino per handicappati, che quello c’è.
L’orgoglio mi dice fanculo. E salgo.
Mi accoglie, quando sono in un bagno di sudore, una ragazza tutta pimpante: sono Maria - mi dice.
Piacere – annaspo - Natalino.
Non do a vedere la mia sofferenza, sennò che cazzo d’uomo sarei!
Per dieci giorni si ripete la manfrina.
I colleghi sono tutti giovani e pieni di salute, eccetto una, la docente di Educazione Fisica che ha una broncopolmonite. Almeno così dice.
La libero il più presto possibile e la mando a casa.
Raccolgo simpatie per questo gesto magnanimo.
Aboliamo il presidente - dico in assemblea plenaria - siamo colleghi.
Che cazzata, ciascuno comincia a fare i fatti suoi.
M’incazzo e nomino due vice presidenti.
Le cose cominciano a filare.
Faccio presente che non voglio rotture, perciò sono intenzionato a promuovere tutti a meno che qualcuno dei candidati non si affossi da solo. Tutti d’accordo? Ok? Ok.
I giorni corrono, io un po’ meno.
Chi non corre è il tecnico di laboratorio, uno sfalzino di prim’ordine.
Per agevolare il lavoro dei segretari di commissione e il mio, chiedo a Franco, il tecnico, di scaricare il programma Conchiglia.
Cacchio, questo non sa manco che esistono le ostriche, figurati le conchiglie!
Gli dico di rivolgersi alla segreteria della sede centrale che lì, certamente, saranno in grado di indirizzarlo.
Lui nicchia. Io ammicco. Telefona.
All’apparecchio, dall’altro capo, c’è una testa di quiz. Dice che manderà un fax.
‘Sto fax non arriva e io decido per il tradizionale.
I segretari scrivono e si lamentano: quello non capisce niente.
Condivido, ma non posso che constatare.
Scriviamo tonnellate di pagine che non leggerà mai nessuno.
Il tecnico se la gode con la 104 per madre inferma, perciò si deve assentare.
Come se fosse stato mai presente!
Lo mando a quel paese.
Poi cominciano e finiscono gli esami.
Finalmente consegno il plico in presidenza e sono libero.
Libero un cazzo, dal giorno dopo cominciano le dolenti note.
Cavolo, tutt’a un tratto non gliela facevo più a stare in piedi: il nervo sciatico e le due ernie che sono solo mie avevano deciso di ricordarmi che ero in odore di pensione di vecchiaia.
Ma come, da un giorno all’altro? Ieri giovane, forte, sicuro, ben piantato sulle tre gambe e oggi, acciaccato, accasciato, infermo, schiacciato dal peso degli anni anagrafici che si sono accumulati sulle mie spalle.
Non è giusto!
Io sostengo che sia una grande carognata! Immagino i volti di Brunetta e Berlusconi, senza dimenticare Sacconi. Chissà quante risate si farebbero a vedermi immobilizzato proprio nei miei ultimi giorni di servizio.
Ma torno a me e lascio perdere quei cialtroni. Come dicevo, sono azzoppato.
Per fortuna non sono un cavallo, altrimenti mi avrebbero già tirato un colpo di pistola in testa per farmi finire il più velocemente possibile in un ragù del macellaio.
Sarà, ma io penso che questa sia la sindrome del pensionato.

lunedì 21 giugno 2010

UN GIORNO IN ISTITUTO

UN GIORNO IN ISTITUTO
Panthalassa mi abborda: Nat, vieni a firmare, c’è un Consiglio straordinario.
Sobbalzo: ancora e che diamine!
Consolati, c’è anche per il corso M.
E sì, mal comune mezzo gaudio.
Arraffo il foglio che mi porge la nostra collaboratrice e leggo:
andamento didattico-disciplinare;
valutazione per il pagellino di metà quadrimestre;
visite d’istruzione;
varie ed eventuali.
Ore 16.30 VC; 17.30 IVC; 18.30 IIIC.
M’infervoro: ma che c’è di straordinario?
Forse è straordinario che lo facciate.
Taccio e dolorosamente rifletto.
Mi rassegno e varco la porta dell’Inferno.
Dopo una giornata di merda come quella che mi aspetta è la ciliegina sulla torta.
Manco il tempo di una pennichella e di nuovo scuola. Roba da matti!
Al mattino alle 08.20, proprio quando io, dopo aver sorbito il caffè con gli amici, mi accingo a fumare la mia Ligt, arriva il preside. Mi guarda con espressione di rimprovero e mi ricorda che il fumo fa male. Io mi tocco e lo seguo al bar.
La mia consumazione l’ho già fatta, quindi lo osservo mentre beve la sua bibita che Maria, la nostra barista, gli serve immediatamente ignorando la clientela in attesa da una decina di minuti. Poi svicolo: lo lascio a discutere con Livia e Severo e m’imbosco nel cortile d’accesso al corso Programmatori. Con Lisa e Angela mi ossigeno di buon tabacco taroccato dalla nostra manifattura, pieno di sterpetti e catrame di ottima qualità e poi recupero la borsa che ho lasciato in segreteria.
Non ci siamo salutati?- mi chiede il dirigente.
Io gli rispondo di sì, ricordando la grattatina di prammatica, ma gli do nuovamente la mano, in segno di pace.
Gli dico ci vediamo dopo e affronto le scale con una smorfia di dolore per la lombo-sciatalgia che mi affligge da un mese e più.
La borsa è pesante, contiene tutti i compiti, dal primo del primo quadrimestre all’ultimo che ho ritirato ieri e il registro intonso, senza manco i nomi degli studenti. Ho tutto lì perché non mi fido a conservarli nel mio loculo in dotazione, visto che non ne ho corretto manco uno e che metto i voti a cazzo durante gli scrutini. Ma questo non è un problema. A fine d’anno risulteranno tutti corretti, con tanto di giudizio e voto.
Le scale sono un calvario. Mi domando per che cazzo non ho preso l’ascensore. Poi ricordo: mi aspetta la IV C, una classe di merda.
Perdo tempo, rallento il passo. Sul pianerottolo mi fermo a parlare con Clelia, la bidella del corridoio di destra. Soliti convenevoli. Clelia è una brava donna, ma soprattutto una brava cuoca. Mi consiglia un piatto semplice, ma gustoso: costolette d’agnello alla brace con pepe e sale e contorno di funghi cardoncelli al forno. Mi viene l’acquolina in bocca, poi penso a mia moglie che non mangia l’agnello che le procura coliche epatiche, renali, gastrite e colite acuta. Roba da pronto soccorso. Saluto la mia consigliera e giro a sinistra. Nel corridoio di sinistra c’è Marisa. E’ una donna di una simpatia unica. Alta, robusta, di mezza età. Ha un difetto alla vista: non ti vede se non sei a due cm da lei. Mi saluta con entusiasmo quando le sono proprio addosso e comincia a raccontarmi episodi di vita quotidiana col padre e la cagnetta che continua a far pipì in casa anche ora che ha undici anni. Le spiego che forse ha un problema ai reni per l’età avanzata.
E mio padre?- mi chiede.
Perché, anche lui?
Sì, ha ottanta anni.
Beh, allora è certamente un problema di reni.
No, mia madre mi diceva che lo faceva tutte le volte che lo rimproverava per essere andato in cantina con gli amici.
Allora è un timido- le dico dando una sguardo alla porta della penultima aula, quella della IV C.
La porta è chiusa, mentre dovrebbe essere aperta in attesa del docente.
Mi preoccupo.
Saluto Maria e mi avvicino con passo felpato. Poggio l’orecchio sullo stipite: silenzio assoluto.
Busso, per dare a intendere che si tratti della vicepreside.
Nessuna risposta.
Con violenza spalanco la porta: non c’è anima viva.
Per poco non mi scoppia il cuore per la gioia.
Torno indietro e chiedo a Marisa.
Lei si dà una pacca sulla fronte: professò, mi ero dimenticata di dirti che sono alla Ragioneria di Stato col prof. Mazzone. Lo metto a fuoco, sì è quello che io chiamo Incazzone. perché entra in classe già incazzato. Ci giuro, anche al Catasto sarà incazzato. La colpa è della moglie che lo manda in bianco a ripetizione.
Il cuore mi batte a cento all’ora: non è possibile che non essendoci la mia classe io non vada a supplire in qualche altra.
Mi faccio dare da Marisa la fotocopia del foglio delle supplenze.
Impallidisco. Cazzo, nella II F, in quel cesso di classe!
Torno lentamente nel corridoio di destra. Clelia mi viene incontro. Anche lei aveva dimenticato di avvertirmi della sostituzione.
Il chiasso è irraccontabile. C’è Farfuglia, che io chiamo Fanculla, un ragazzone di diciotto anni, plurirespinto, faccia di culo, che sodomizza quasi Antoracci, per me Antocazzi, per avere un pezzo della sua focaccia, cotta con olio rigenerato della Shell, venduta a caro prezzo da Leonzio, il gestore del bar dell’istituto, che io chiamo il Gobbo di Notre Dame.
Li separo, batto con tutta la forza il palmo della mano sulla cattedra, cosa che fa quasi venire un infarto a Cotronelli, Cotoletta, con quell’odore di fritto di uova marce e carne in decomposizione che si porta appresso.
E’ una bomba- si affaccia il prof Gassi che io chiamo Nervino. Poi vede che ci sono io e capisce.
Urlo da pazzi e risistemo gli alunni ai loro posti distribuendo calci e pugni a quelli che si attardano.
Finalmente un po’ di pace!
Faccio l’appello: mancano i migliori, quelli che dormono e non scassano gli zebedei.
Liberatorio, il suono della campanella avvisa che la prima ora è trascorsa.
Vago per i corridoi.
Cazzo, io ho fatto l’orario e non mi ricordo dove devo andare. Sarà la III C.
Ragù, Pelati, cioè, alunno della III, mi viene incontro dicendomi che va in bagno.
Che me ne frega-gli rispondo.
Siccome sta da noi, volevo avvisarla.
Fingo di essere consapevole.
Ma ti ho dato il permesso?
No.
Allora torna in classe e chiedimelo.
Ma…
Torna in classe se non vuoi che trasformi il tuo cranio in un teorema di Pitagora!
Torna in classe e sbuffa.
Mi fermo sulla soglia.
Gli alunni parlottano tra loro, scherzano, si scambiano pacche seminoffensive e mi ignorano.
Resto sulla soglia.
Dinnella mi vede.
Ehi, il professore!
Silenzio.
Beh, che fate lì, sollevatelo!
Intendo sollevare il sedere dalla sedia per alzarsi.
Recalcitrano, ma si alzano.
Muovo i miei passi verso la cattedra.
Ragù mi chiede se può uscire.
Ti ho detto che puoi parlare? Resta in piedi.
Mi scappa.
Fattela addosso, tanto gli odori dell’aula non sono diversi dalla tua prossima elargizione. Aprite la finestra, che non si respira! Ma vi fate la doccia la mattina?
Seee , la doccia…
Dinobruttis (Dinobellis per l’anagrafe), testa di quiz, era una domanda retorica!
Ragù mi fa il ballo della pioggia caro agli Arapahos, i pellerossa con i Pampers.
Lo mando in bagno prima che innaffi il lombrico che staziona vicino al suo piede destro.
Lo schiaccia e il puzzo copre quello della sporcizia.
Marisa bussa alla porta: prof il preside ti vuole giù.
Vengo subito- felicito.
Questa volta prendo l’ascensore.
Il pulsante è rosso. Aspetto.
Finalmente la macchina si ferma al piano.
Le porte si aprono: è Stan senza Ollio.
Cacchio fai qui, questo è il piano dei ragionieri.
Lo so, mi ha mandato il preside a tenere la tua classe.
Perché è lungo il fatto?
E che ne so, mi ha detto vai.
Lo saluto e entro nell’ascensore.
Mi fermo a piano terra.
L’odore dei cornetti mi assale, ma so bene che l’olfatto inganna il palato.
Desisto.
Mi trascino verso la presidenza; sulla soglia accentuo la mia sofferenza.
Il preside mi invita a entrare.
Una smorfia di dolore deturpa il mio viso michelangiolesco.
Zoppichi?
Sono sciantalgico.
Sciantalcchè?
Sciantalgico, ho una lombo sciatalgia.
Mi fa Verorchia(Veronesi e Sirchia sintetizzati): quello è il fumo.
Imito Totò: ma mi faccia il piacereee.
Severo, che è all’angolo sinistro della scrivania presidenziale, si lamenta: e io mi sorbisco il fumo passivo.
Tu di passivo hai solo che sei passivo.
Dirò a Livia di sospendervi: sorride il dirigente
Magari!- all’unisono il gatto e la volpe.
Vi ho chiamato per Filingrato.
E chi è?
Un privatista.
E a noi?
Verrà a sostenere gli esami di idoneità al V.
E beh?
Non sa un cacchio.
Normale. E allora?
Dev’essere promosso.
Normale.
Facciamo per andare, ma il deus ex machina ci ferma.
Dove andate?
In classe, preside!
Uhh, siete ligi al dovere!
Lex, dura lex, sed lex.
Severo non traduce, ma capisce.
E mo che c’entra?
Il primus ci dice di accomodarci alle poltrone.
E’ una presa per il culo, quelle la comodità non sanno manco che esiste.
Mi lamento per la lombo; Severo mi fa eco.
Che cacchio sfotti?
No, non ti sfotto, anche io stamattina mi sono alzato col dolore sciantalgico.
A te è per l’attività da amanuense! Non lo capisci che alla tua età devi stare calmo?
Il preside assiste con il mento poggiato sul palmo della mano, poi si scoccia: Ragazzi(bontà sua), non è solo questo, sto pensando all’anno prossimo!
Anche noi…-sospiriamo.
E qui il primus ci dice che l’istituto non sarà più lo stesso, che il caffè della mattina avrà un altro sapore etc etc.
Noi ci scherniamo, facciamo i modesti e siamo quasi sul punto di commuoverci quando capiamo che lui si riferisce al nuovo plesso, ormai pronto, in cui probabilmente sarà costretto a trasferire presidenza, vicepresidenza e bar; al gran casino di spostamenti di classi, alunni e docenti per la riforma della ministroneosposaneomamma Gelmini, della quale conosciamo anche l’ora, il minuto e il secondo in cui, dopo la corsa fratricida degli spermatozoi, ha concepito il figlio,
Ci ricomponiamo, gli diciamo che gli saremo mediaticamente vicini e togliamo il disturbo sorreggendoci vicendevolmente.
Malinconicamente riprendo l’ascensore.
Stan ha i capelli ritti. Non appena metto piede nell’aula, fugge.
Sono tutti tuoi!- mi urla scendendo di corsa le scale.
In classe ci sono tutti. Due, estasiati, all’ultimo banco, col capo poggiato al muro, hanno le orecchie tappate dalle minicuffie e ascoltano, rapiti, canzoni napoletane clonate abusivamente; un gruppetto di cinque gioca a prendersi e muove banchi e sedie con gran casino; due, giovani innamorati, in un angolo si coccolano e si accarezzano pseudo pudicamente,; la vamp della classe con specchietti e trucchi si pasticcia il viso da battona; mentre i tre quasi sull’altra sponda s’ingelano i capelli precedentemente impiastricciati con la storica brillantina Linetti avuta in eredità dai nonni.
I più normali sono i quattro masochisti che si gonfiano le mani a suon di schiaffi sulle palme che sembrano i panzerotti smerciati da Leonzio.
Caccio un urlo: niente; batto formidabilmente sulla cattedra: scende il silenzio, ma sale il preside, spaventato dalla deflagrazione. Anche Nervino si affaccia, mi guarda e dice: te l’avevo detto io.
Cosa cacchio mi avesse detto non lo capisco, ma assumo un’aria mortificata per il pallore di Delia, l’ausiliaria del mio corridoio, accasciata sulla sedia.
Se vuoi battere- mi dice il preside- sai dove andare.
Recepisco.
Prendo il mio duce sottobraccio e con familiarità lo invito a prendere un caffè, con la scusa di mandarne uno su anche per Delia. Ma non è che un modo per allontanarmi dai miei scalmanati.
Scendiamo per le scale e riscoppia il casino. Fingiamo di non accorgercene.
La campanella, ancora una volta, mi toglie le catene.
Nel bar c’è una ressa indicibile:tutti vogliono tutto.
Maria corre da una parte all’altra del bancone, prende soldi, batte cassa, scontrini scambiati, ma non importa.
Sembra che i nostri alunni siano a digiuno da qualche settimana. Si rimpinzano, bevono, qualcuno erutta da su e da giù.
Ci facciamo largo e occupiamo due postazioni privilegiate: caffè maculato e espressivo- dico con voce stentorea per vincere il chiasso.
Caffè che?- chiede Maria.
Maculato- rispondo- con gocce di latte, per capirci.
Maria sorride: è abituata al mio sfoggio linguistico, però non memorizza.
Il primus sorbisce l’espressino con aria disgustata: gradisce di più un bel ristretto.
Ma perché non l’ha detto?
La voce di Panthalassa risuona dall’atrio: Nat, c’è la classe scoperta!
Finisco il maculato che mi va quasi di traverso.
Panthalassa è nel bar: Livia si sta arrabbiando- mi dice- la IV C è scoperta!
Ma non è mia- replico.
Sì, ma c’hai supplenza.
E io che ne so.
Beh, ora lo sai.
Il preside lascia a metà l’espressino.
Io insisto: Maria, caffè, un caffè ristretto.
Maria opera.
Panthalassa mi è alle costole: vai- mi suggerisce.
Dì a Livia che sono col preside.
Il preside mi ringrazia del caffè, ma rinuncia, ormai ha la bocca impastata di espressino.
Lo saluto e mi avvio per le scale. Cacchio ho di nuovo dimenticato la mia sciatica.
La gamba mi duole: eroicamente resisto e vado in IV C.
Livia mi aspetta sulla soglia: sai che questa classe non si può lasciare- mi dice spazientita.
Ma non è mia- replico- e poi non sapevo di avere supplenza. In quest’ora ho ricevimento.
Come, hai ricevimento?
Sì- laconico.
Clarinetti, chiamatemi Clarinetti! Quando lo vuoi non c’è, e lo sa che non si deve allontanare.
Raffaele arriva trafelato: che c’è professoressa?
Come che c’è, Cattaneo non ha supplenza!
E che vuole da me?
Come che voglio… tu mi hai detto di mettere Cattaneo.
No, io ho detto Laterizzi.
E perché è venuto Cattaneo?
Intervengo: perché tu mi hai fatto chiamare.
Leggi- mi dice- come sta scritto sulla fotocopia delle supplenze, io non ho gli occhiali.
Leggo: Laterizzi.
Ah! Clarinetti chiama Laterizzi e fammi venire Panthalassa.
L’ascensore si ferma al piano: esce Panthalassa.
Perché hai chiamato Cattaneo?
Perché ha supplenza!
No, ce l’ha Laterizzi.
No, io ho Cattaneo.
Panthalassa, non dire sciocchezze, io ho la fotocopia del registro delle supplenze e qui c’è scritto Laterizzi.
Panthalassa legge: ma chi l’ha scritto, qui si legge Cattaneo!
Raffaele, dammi gli occhiali.
Clarinetti li cava dal taschino.
Ma che occhiali mi dai, i tuoi Io voglio i miei!
Professoressa, è lo stesso, anche io sono presbite.
Ma che presbite, io sono ipermetrope.
Sì, va beh.
Livia legge: sì, non si legge bene, ma è Laterizzi.
Mi guarda a scusarsi.
Clarinetti, Laterizzi dov’è?
E quello se n’è andato…
E mo? dai Nat, fammi il piacere, fattela tu, tanto il ricevimento è finito.
Per fortuna è passata mezz’ora. Altri venti minuti.
Va bene- magnanimo-resto io.
Come Livia va via, la IV C si risveglia: in cinque vogliono andare in bagno, in quattro al bar, in undici in laboratorio.
Sprofondo sulla poltroncina del prof: Ragazzi, non scassate, tutti a posto.
Si alza la protesta: quella non ci ha fatto uscire, non abbiamo fatto colazione, dobbiamo stampare i progetti…
Li interrompo. Basta, cacchio, stavate aspettando me per riempire le caier des lagnances?
Ammutoliscono, quasi li avessi minacciati di morte.
Uno spilungone prende coraggio: e cos’è, professore?
Hanno ragione; ormai il francese non si studia più, siamo diventati tutti anglofoni!
Spiego: le lamentele, i desideri repressi, ciò che vi fa sbavare, l’impossibile, l’irragiungibile…
Cazzate- sorride ‘ndramalonga.
La classe riprende coraggio: la cattedra è assediata, io sono assediato.
Mi alzo, distribuisco pacche e guadagno la soglia. Apro la porta e respiro.
Una ventata: sono tutti fuori e se ne vanno per i cacchi loro.
Li richiamo, ma ormai non ho più voce. Me ne frego.
Compare Livia: Tu li hai mandati fuori?
Mi assumo le mie responsabilità. Sì!
E così che la Scuola va a scatafascio. Non lo fare più.
Livia mi vuole un bene fraterno che io ricambio sinceramente. E’ una donna eccezionale: è l’unica che riesce a far entrare in un’aula cento e più alunni che poi pare stiano anche larghi. Non so, penso che si riducano, rimpiccioliscano, clonazione dei nani di Condom Rosso.
Passeggio con lei mentre i ragazzi si riprecipitano in classe.
La campanella.
Andiamo giù.
Devo fumare- le dico.
Ti accompagno.
Fuori è tutt’un’altra cosa. L’aria è frizzante, si sta bene. Le maccchine passano davanti il nostro Istituto sfrecciando verso la circonvallazione. Io penso alla passeggiata a Torre a Mare, al gelato al caffè, al pensionamento che fra poco lo Stato mi concederà e sto male.
Come cacchio farò senza tutto questo casino, come sopravvivrò?
Livia condivide i miei pensieri; fuma con me senza fumare e tossisce.
Ci raggiunge Maria Teresa Manetta.
L’odore della sigaretta la inebria: è la duecentesima volta che ha smesso di fumare.
Quasi si scusa: è il medico che mi dice di smettere. La pressione mi sale alle stelle, il cuore batte all’impazzata, la nicotina mi fa male. Ma il cuore le batte anche ora, quasi ne avverto il battito scandito, per il desiderio di tirare due boccate. Alla fine si decide.
Mi dai una sigaretta?
Io nicchio. Non vorrei passare per il persuasore occulto, lo spacciatore di tabacco, il bos del traffico di bionde, ma mi compenetro e offro la prima mela, pardon, l’ennesima sigaretta.
Maria Teresa aspira voluttuosamente sotto lo sguardo di rimprovero di Livia. Poi si pente e getta via la mia non ti Merit più.
Brava!- le dice Livia.
Maria Teresa si asciuga le lacrime e resta a guardare le volute di fumo che emetto dal naso e dalla bocca. Poi rientra nell’atrio.
Ti vogliono al secondo piano- dice Panthalassa a Livia.
La vice fa un gesto di sconforto: ti lascio in buona compagnia.
Sì, è vero, siamo stati raggiunti da Lisa e Angela.
Delia e Angela insegnano rispettivamente Matematica e Scienze Finanziarie, che io dico InRosso, discipline per me da altro pianeta, visti i meno due che prendevo dai miei insegnanti quando ero studente.
Poco dopo l’aria davanti l’Istituto diviene irrespirabile per Magda Gallomaresca che attua una campagna serrata contro il fumo, coinvolgendo la maggior parte dei nostri alunni.
Ora anche i non fumatori sono fumatori.
Magda è sconsolate e accusa me e le mie socie di aver traviato col nostro esempio i suoi giovani corsisti.
Noi ce ne freghiamo perché crediamo fortemente nel libero arbitrio.
La vetrata sbatte. È Nicola Mazzone, docente di Ragioneria. Non so perché ma ogni volta debbo contare sino a dieci prima di pronunciare il suo cognome.
Per non parlare poi di Pomponio. Qui conto sino a venti.
Nicola è tornato dalla Ragioneria di Stato. Si avvicina furtivo, pensando di non essere visto, e mi abborda. Come gesto di affetto, mi uncina una guancia che stritola nella mano a pagnottella: Chi sarà il prossimo vicepreside?-mi chiede con aria interessata. Io, come Scalfaro, non ci sto e restituisco il gesto affettuoso.
Nicola si sconcerta, poi si ricompone e richiede: Chi sarà il prossimo vicepreside?
Tutti sappiamo che vorrebbe essere lui il prescelto, ma sappiamo anche che il preside manco per il …per idea lo eleverebbe al rango di feudatario, però non glielo diciamo.
Io nicchio, anche se penso che sarà la Santagata a raccogliere l’eredità di Livia.
Siccome sono sadico gli dico che il caput sta seriamente prendendo in considerazione la sua candidatura, così che lo prenderà nel boffice quando si vedrà scalzato.
Non solo, penso anche che la stessa Santagata poi si prenderà le sue vendette, perché anche lei è spesso oggetto degli uncinamenti del computaio.
Nicola sfodera un sorriso a tre chiostre. Fa il modesto, dice che non è possibile, ma che non appena avrà l’incarico cambierà molte cose nell’Istituto.
Beato lui, crede ancora nella teoria dei due soli!
Delia e Angela, per fortuna, non parlano di teoremi, equazioni, funzioni di primo e secondo grado, né di primogenitura ma, più umanamente, discutono di primi e secondi piatti. Anche io posso dire la mia. E giù l’encomio solenne alle ostriche, alle noci bianche, ai datteri di mare cercati da chi l’ha visto, alla spaghettata con vongole e gamberetti, al ragù del macellaio, all’impepata di cozze, ai ricci profumati da mangiare, a seconda dei gusti, col cucchiaino o con il pane appena sfornato.
L’acquolina sta per scivolare dalle labbra quando suona ancora una volta la campanella.
Mazzonevorrebbe salutarmi con un altro pizzicotto, quando individua Milena Santagata che viene a ossigenarsi. Le piomba addosso come un falco e le strappa mezza guancia. E’ pazzo!
Milena lo manda a quel paese sorridendo, ma penso che in cuor suo gli stia facendo una fattura.
Vado in classe. Due ore in V C.
Cazzo faccio-penso- per due ore? Ho terminato il programma, l’ho dettato, ho verificato e corretto i percorsi, ho… mi batto un palmo sulla fronte: e le interrogazioni, i voti di fine quadrimestre, le assenze?.
Beh, scriverò il registro, almeno non starò con le mani in mano.
Entro in classe. La scena si ripete: nessuno che si alzi.
Sono tutti impegnati con i computer portatili.
Almeno stanno studiando- penso io.
Mi dispiace quasi interromperli.
Passo tra i banchi: scene di puro erotismo: Paperino e Paperina che pomiciano tra lo stupore dei nipotini, l’uomo ragno che fa il ragno con la sua bella, Berlusconi che s’intrattiene con le escort seminude, Marrazzo a letto con due trans. I più ingenui giocano mediaticamente a calcetto o si esercitano virtualmente in sport estremi tuffandosi da duecento metri in una piscina che sembra il bicchiere di plastica dell’espressino freddo. Ciò che li accomuna è un ooooh di soddisfazione allorché ciascuno degli eroi digitali porta a termine il proprio compito.
M’incazzo come un toro davanti alla rossa muleta.
Alzatevi- urlo- quando entra il docente!
Si spaventano: presi dai loro giochi non si erano neppure accorti che ero in classe.
Si alzano e restano a fronte bassa non per la vergogna ma per seguire le scene che mandano i cervelli elettronici. In pratica se ne fottono.
Io faccio il solito pistolotto e ricordo loro che sono prossimi agli esami, che la scuola non è un asilo nido, che non si viene a scuola solo per mangiare le porcherie che propone il bar dell’istituto, che i loro genitori si sacrificano per consentire che non sfigurino di fronte agli altri alunni, che ecc ecc.
Sentono ma non ascoltano, hanno sempre gli occhi bassi, poi all’unisono esplodono in un ooooh che mi manda in bestia.
Per non compromettermi esco dall’aula e passeggio per il corridoio.
Più di cento alunni mi vengono incontro affinché firmi i permessi d’uscita. I genitori sono tutti nell’atrio ad attenderli.
Fuori il traffico è fermo per le Maserati, le Ferrari, i Suv e le Jeep di ultima generazione con a bordo mamme, nonni, bambini, zii e zie pronte ad accogliere gli studenti per la gita fuori porta che hanno programmato per il ponte del 2 Giugno.
Mi passo le mani tra i capelli, mi sistemo la vita dei pantaloni che tendono a scendere per le decine di volte che ho scalato i piani dell’istituto, mi accendo una sigaretta e compongo il numero di casa al telefonino: Non aspettarmi-dico a mia moglie-vado in vacanza e fanculo la scuola!
Respiro l’aria pura brezzata dal mare e mi avvio seguito dalla schiera di genitori. Mi sento tanto il pifferaio magico. Il preside s’affaccia e mi dice: dove vai, firma i permessi!
Io mostro il medio e l’indice tra cui stringo la mia ligt.
Fumerai dopo, non sai che il fumo uccide?
Mi ritocco e lento pede torno nell’atrio.
I registri di classe formano una pila di alcuni metri sulla mensola della portineria. La voce di Panthalassa sembra giungere dall’oltre tomba: c’è anche un permesso d’ingresso1
Che, a quest’ora, e che è venuto a fare?
E’ stato accompagnato dalla madre, dice che ha perso il pulman.
Uno solo?- dico io, ma non replico più, sono rassegnato.
Consumo due biro a firmare permessi vari, mentre suona la penultima campanella.
Finalmente mi rilasso., seduto alla poltroncina dell’aula della mia Quinta.
I ragazzi hanno il viso e le orecchie rosse per l’impegno nei giochi, sono stanchi e si rilassano anche loro. Tra poco cominceranno i consigli di classe e so già cosa dire:.facciano cazzo vogliono, io me ne sbatto le palle!
Mia moglie ha preparato piselli con poca cipolla: non sanno di niente. Ingollo quattro cucchiaiate e poi mi do alla frutta. Le fragole sono verdi e i Kiwi quasi rossi per lo stadio di maturazione.
Accendo la TV che mi fa vedere ancora Berlusconi e lo immagino palpeggiare le escort mentre parla dei sacrifici che solo il Pubblico Impiego deve fare, che parlamentari e ministri sono tanto indigenti da aver bisogno che altri paghino per loro case e droghe e che solo per orgoglio non chiedono il nome del benefattore.
Un conato di vomito mi “arrivugghia” lo stomaco.
Per fortuna il lettore passa alle notizie di cronaca ed è quasi con sollievo che ascolto di uno che ha ammazzato padre, madre e fratelli, li ha ridotti a spezzatino, li ha infornati ma non li ha mangiati perché è vegetariano.
Finalmente- ho pensato- una persona coerente.
Le lancette dell’orologio scorrono veloci e il pendolo che ho in testa mi avvisa che l’ora è vicina.
Cacchio, sono le sedici e quindici.
Mi sciacquo mani e faccia, spazzolo ciò che resta dei miei denti e l’opera dell’odontotecnico, mi ravvio i capelli e dico ciao a mia moglie che dorme rannicchiata sul letto che misura quattro per quattro.
Non mi risponde e io non insisto; so, però che poi mi chiederà perché no l’ho avvisata che andavo via.
La Stilo, la mia fedele autovettura, quella che mi ha salvato la vita col cicaleccio di pericolo quando sei senza cintura, lei che mi rompe le palle sin quando non m’incateno al sedile di guida, mi attende fiduciosa giù per strada.
Di tanto in tanto rumoreggia col clacson per l’antifurto molto sensibile all’umidità e ai gatti, ma per il resto è una brava compagna. Che mai si sia lamentata per le tonnellate di cenere che quotidianamente spargo sul suo pianale, vicino la cloche, sul portaoggetti, ma mai nel posacenere. E’ un fatto di principio.
Faccio per mettere in moto e mi squilla il cellulare: è Severo che mi chiede di portarlo a passeggio sino a scuola. Il suo nome deriva da Severus. Cultori di semantica Mao-Mao asseriscono che potrebbe anche derivare da Serius, ma io non ci credo, non sarebbe adatto al mio amico.
Ingrano la prima poi la seconda la terza, salto la quarta e in quinta sono a casa sua. Il pedologo mi attende per strada e si lamenta perché dice che ha atteso troppo a lungo. E’ un rito. Del resto ha la sua veneranda età, anche se è più piccolo o meno grande di me di due anni.
Pelato, o quasi, con una cornice di capelli che gli copre la nuca e quattro peli sul cranio che lascia crescere perché diano una parvenza di ciuffo anni ‘60, medio corto come me, rotondetto non come me, camicia a mezze maniche, maglia della salute, pantaloni grigi e scarpe marroni, un bozzo sulla testa che pare la torre Eiffel, il sorriso bonario stampato sul viso ellissoide e rubicondo, occhi grigio-verdi(ha fatto il militare nell’Esercito), Severo è l’amico con cui gioco al nonnetto fingendo di scarrozzarlo per la città a visitare il borgo antico e le meraviglie del quartiere Japigia. S’infila in macchina, mi guarda fintamente severo e poi sbottiamo a ridere come due rincoglioniti. Polifemo, ovvero Biagio Iannone, ci attende sul ”sagrato” e ci accoglie con la solita domanda: a quest’ora si viene?
Sorvoliamo su quella che potrebbe essere un’oscenità, gli rispondiamo che la moglie lo ha cacciato di casa, motivo per cui lui è già a scuola, e arrembiamo il distributore automatico di tisane. Severo e Biagio prendono un caffè macchiato costellato di tanti puntini neri che sono certamente formiche arrosto e io un cioccolato forte per accumulare l’energia necessaria alla sopravvivenza. Non facciamo cin cin e ci dividiamo: Biagio nella B, noi due nella D.
Ed ecco il Consiglio di classe della D. Ci sono tutti, a cominciare dalla docente di Inglese. Marcella Fisto.ha il fisico inglese, ma non la flemma; infatti s’infiamma. Il volto le diviene spesso rosso per la concitazione e i capelli, se potessero, virerebbero al bordò. Ha sostituito la collega precedente che, per “impegni vari” non era mai in classe e quindi non insegnava un quiz di niente. Però promuoveva tutti. La Fisto, poverina, ha dovuto cominciare tutto daccapo, per questo non appena varca la soglia delle classi, gli alunni inscenano la morte di Cesare e il suicidio di Marcantonio, l’unica opera di Shakespeare che conoscono solo per aver visto il film “Le voglie di Cleopatra”. Hai voglia a spiegare che devono saper parlare e scrivere in inglese; quelli non ne vogliono sapere, anzi, dicono, l’inglese non è mai materia d’esame. La Sisto insiste, s’incazza, minaccia; i ragazzi se ne fottono e desistono.
In fondo, vicino la finestra, s’è seduta Delia Retillo, docente di Geografia Economica. E’ piccolina di statura, bruna di occhi e capelli; veste anche di bruno, ma quasi mai nero. Gli alunni la amano tanto da desiderare che stia sempre in vacanza. Lei, invece no, non si assenta, solo alcuni ritardi tra lo sconforto dei suoi fan che sperano in qualcosa di meglio. Vociante, alla cattedra, c’è Nicola Mazzone, prof. Di ragioneria. A seconda di chi lo chiama, cambia il prenome in Incazzone o Cazk il polacco. Dei polacchi ha il colore, degli irlandesi il calore, degli eshimesi l’apparato genitale. Sarà per questo, dicono le male lingue, che non riceve consensi in famiglia. Dino Fagotto è docente di Matematica Finanziaria. E’ Brunetta in piccolo, soprattutto in larghezza. Di temperamento focoso, vivrebbe mille avventure se non fosse guardato a vista dalla moglie. E’ piccolo anche nei voti. Angela Fienchi insegna Scienze delle Finanze, oggi InRosso perché tra i vari tagli previsti dalla P.I., dove I sta per Ignoranza, Indolenza, Indifferenza, il Ministero parrebbe intenzionato a associarla a quella di ragioneria, con sommo gaudio di Cazk che vedrebbe sempre più consolidata la sua permanenza nel nostro Istituto. Severo Del Fiole, docente di Economia Politica, meglio conosciuto come Del Ciole, è il Pantagruel della situazione. Sempre disponibile allo bisboccia, ai pranzi luculliani; ma di lui ho già detto. I prof di Diritto sono due: uno, la Mannella, che opera nella Terza e nella Quarta, l’atro, Guido Tucani, docente della Quinta. Mannella è una spilungona affabile, simpatica come tutti i fumatori, disponibile a un lavoro leggero, non impegnativo e a saltare qualche ora se l’orario, spesso criptico, le consente di svicolare. Guido, invece, è di tutt’altra pasta. Prima di convolare a giuste nozze era sorridente, disponibile, propenso alla chiacchiera, ma, da quando è solo la metà di una mela, è divenuto uccel di bosco. Non appena può ci dà sega, impegnandoci in un surplus di supplenze che tolleriamo solo perché è novello sposo. Non è dimagrito, anzi, ha messo su un po’ di pancetta, segno della piena soddisfazione dei sensi. Franco Giammainetti, docente di Lingua Ftrancese sonnecchia con il capo spalmato sulla vetrata della finestra. Non sai mai cosa vuole. Ti dice un sì che è un no e un no che resta sempre no. Etimologicamente è sfortunato. Giammainetti, letteralmente, significa Sempresporchi. Grazie alla Gelmini, anche la Santagata ha due ore nel triennio della D. Insegna Storia in Terza. Struralmente Nonica, ma non Giu, difetta, infatti, in altezza, ha ottime chance di diventare collaboratrice, se non vicaria del preside: se accadrà Incazzone si suiciderà. Si è aggiunta al clan dei fumatori, anche se in modo isolato. Ci ha incuriosito con la richiesta della mail di tutto l’organico dei geometri. Penso che preconizzi il suo futuro. La prof di Educazione Fisica, Katia Piccoli, si appoggia allo stipite. Pare debba sostenere l’intera struttura. L’aula le sta stretta, abituata com’è ai grandi spazi, alle palestre luminose, ai prati verdi. Tentenna e ci guarda come fossimo i suoi alunni peggiori, impigriti dal lavoro sedentario, pancettati, stravaccati sulle seggiole. Un soffio di vento, in questa giornata afosa, che la caligine tinge di bianco, la scuote. La guardo negli occhi e noto un baluginio, una voglia di darci la sveglia con il vecchio “un due, un due, passoooo!” Ma è solo un lampo: ci riflette e si lascia cadere anche lei sul primo scranno a portata di “disturbo”. Ultimo è il corvo, citazione dotta, ma in questo caso si tratta di don Ciccio Delano, per gli intimi DVD, un longilineo pelato con pancetta clericale. E’ un santo padre, anche se non ancora Papa. Ha capito subito che agli studenti non gliene frega niente della religione, perciò li annichilisce con film di ogni genere, da quelli pornografici a quelli erotici. E’ mio amico: mi ha persino offerto una volta un cornetto con espressivo al bar Morisco. Per lui va tutto bene perché non deve mai interrogare, anzi nella sua ora i ragazzi sono muti, solo qualche grugnito e mani sotto il banco.
I nostri consigli hanno fatto storia: sono i più allegri, i più compatti. Tra noi non è sorto mai uno screzio. Tutti per uno uno per tutti. La stesura dei verbali, sino a qualche tempo fa, erano epici. C’era di tutto, dalla farsa alla pièce, dalla commedia alla lirica. Oggi siamo ci limitiamo a registrare l’indispensabile per timore che qualche ispettore sia preso da ictus durante la lettura.
Manca all’appello il prof di Lettere, ma quello è un caso a parte, perché quel prof sono io. Mediobasso, capelli grigio-bianchi con ciuffo, occhi nocciola, falso magro, sfalzino, folle, secondo gli alunni, fumatore. Con un piede nella fossa del pensionamento, guarda con nostalgia al passato, agli amici che è lì lì per salutare, alle “cronache di scuola” che non avranno più il colore, il calore dell’immediatezza, al gioco della chiave, alle chiacchierate al bar della scuola, al caffè maculato, al puzzo dei wurstel arrosto che impregna l’Istituto sin dalle prime ore del mattino. Non appenderà la penna, la tastiera del computer al chiodo, perché questa farà da tredunion coi ricordi da tradurre in immagini ,nei volti dei compagni, camerati volevo dire, con i quali ha condiviso vent’anni di vita.

martedì 13 aprile 2010

LE COSE

Mamma, ho le mie cose!
Premurosa, mia madre accarezzò la guancia di mia sorella e le disse: Andiamo in bagno, non ti preoccupare.
Si chiusero in bagno per circa mezz’ora.
Quando vennero fuori, mia madre aveva gli occhi lucidi, mia sorella gli occhi raggianti.
Uscirono insieme nel pomeriggio. Al ritorno mia sorella aveva due splendidi orecchini che le pendevano dai lobi e mia madre un pacco della farmacia che subito chiuse nel contenitore che abbiamo in bagno, quello dove conserviamo lamette per calli, forbicine per le unghie dei piedi saponette ancora incartate, cotone idrofilo etc etc.
Conviene avere le cose-pensai, ma cosa sono le cose?
Li volevo da tanto- disse mia sorella mostrandoci fiera i due svaroski che luccicavano come stelle comete.
Anche io volevo la bandoliera con due pistole, ma manco per idea!
Se avessi le mie cose!-mi detti una spalmata sulla fronte
Non appena il bagno fu libero, lo occupai e mi chiusi a chiave.
Ecco lì il pacco! Tolsi dalla busta di plastica un affare quadrato, morbido e colorato. Sopra vi era scritto Lines seta con le ali. Pigiai su:un piccolo sbuffo d’aria.
Con le ali-dissi fra me- cosa può essere, forse una gabbietta. Ma no- mi risposi- a che servirebbe una gabbietta! Eppure se le cose si vedono in bagno si possono averle solo in due posti, o avanti o dietro. In bocca non credo, le avrei viste!
Cacchio- mi grattai la pera- ma cosa sono le cose?
Il dubbio mi attanagliò tutta la giornata. Mi sentivo fregato.
Vuoi vedere che io le ho già avute le mie cose e non me ne sono accorto?
Dev’essere proprio così- si accese una lampadina nel mio cervello- Cocca è più piccola di me! Oppure sono ritardatario ed è arrivata prima lei?
Abbassai i pantaloni e mi dissi: o da dietro o d’avanti, vediamo un po’
Scartai subito il dietro: dove cacchio possono essere le cose, sarà d’avanti.
Guardai il mio pisellino: no, ce l’ho da sempre!
O forse era proprio lui e io che ero abituato a vederlo non ci avevo mai fatto caso.
Ma perché bisogna fasciarlo con qualcosa con le ali. Diventerebbe forse così un uccellino a cui aggiungere poi le ali? Ma non pigola, non si muove!…
Uscii dal bagno sbattendo la porta.
Verso sera non gliela feci più.
Lello, lo sai che Cocca ha le sue cose?
E’ normale- mi rispose laconico.
E io che volevo saperne di più, porca vacca!
Come il solito, noi fratelli, una banda di sei, ci fermammo sul tardi a confabulare tra noi, nonostante le minacce dei nostri genitori che ci invitavano ad andare a letto perché domani si va a scuola.
Lello e Nino, i più grandi, parlavano di calcio e quanto fosse bravo Cicogna, l’ala sinistra del Bari a far impazzire i terzini delle squadre avversarie e De Robertis, l’ala destra, detto “Fa Fueq’, che scartava anche se stesso e sbagliava goal fatti.
Pupa e Cocca, le mie sorelle, parlottavano sottovoce e Pupa suggeriva alcuni consigli all’altra.
Io volevo ascoltare cosa si dicesser, ma ero con Enzo, che quell’anno avrebbe dovuto cominciare a frequentare la Prima Elementare.
Ero preoccupato per lui perché, sotto la mia tutela, aveva imparato a imprecare come uno scaricatore di porto.
Mi raccomando – gli dicevo- non ti far sfuggire neppure una delle parole che ti ho insegnato, devono restare un segreto tra noi.
Zuzù, altrimenti Enzo, annuiva con aria assente, e sfogliava un fumetto di Tex, quando l’eroe esclamava peste e corna!
Manco questo posso dire?- mi chiedeva.
Io nicchiavo, tanto peste e corna glielo aveva insegnato Tex, erano fanculo e simili che non doveva dire.
Poi Zuzù si addormentò sul divano e io rimasi da solo a chiacchierare con la mia coscienza che ripeteva: cacchio fai,te ne stai così e non sai ancora cosa sono le sue cose, le tue cose?
Mio padre, in vestaglia, venne in soggiorno: Ancora in piedi? Presto, tutti a letto!
Pupa e Cocca furono le prime a obbedire; Lello e Nino, siccome dormivano nella stessa stanza si avviarono ancora chiacchierando o litigando, per il tono di voce che spesso si alzava.
Io avevo il compito di badare a Enzo;gli feci un solletico da matti, lo svegliai e lo trascinai verso lo stanzone dove dormivamo con Zia Nella, sorella di mio padre, Pupa e Cocca.
Loro erano già sotto le coperte quando arrivammo: Cocca era ancora eccitata della nuova condizione delle cose e non dormiva, Pupa la esortava, invece, a non pensarci più e a lasciarsi andare nelle braccia di Morfeo.
Approfittai della situazione.
Belli gli orecchini che hai avuto!
Che, li vuoi anche tu?
No, io voglio la bandoliera con le pistole.
Chissà quando!
Quando avrò anche io le mie cose, se non le ho già avute!
Come- si stupì mia sorella- non le hai già avute?
E no, e poi che ne so, forse le ho avute e non ho fatto come te che l’hai detto a tutti.
Ma lo dovevo dire, se no come facevo ad avere gli orecchini?
Sì-annuii tutto compreso- Lello mi ha detto che è una cosa normale. Ma il guaio è che siccome è normale io penso di non essermene accorto e non ho avuto la bandoliera- conclusi dispiaciuto.
Senti- m’interruppe Cocca- fai come ho fatto io. Domani chiama mamma in bagno…poi ti dirà lei se hai avuto le tue cose.
E, magari, che almeno mi danno la bandoliera!
L’indomani, di primo mattino, dissi a mia madre che pensavo di aver avuto già da tempo le mie cose.
Mia madre sorrise: dai, non è possibile!
E’ perché non mi volete dare la bandoliera-piagnucolai.
Che c’entra la bandoliera, quella l’hai chiesta alla Befana. Vedrai che te la porterà.
Ma ci vuole quasi un anno!
Aspetterai.
Ma se ho le mie cose, vero che me la compri?
Mia madre rise divertita, poi per accontentarmi disse:va bene, andiamo in bagno.
Sorrisi anch’io contento. Grazie, mamma.
La porta dl bagno si schiuse cigolando. L’ho detto a papà che ci vuole un po’ d’olio.
Anche ieri cigolava?
Sì, anche ieri-sospirò mia madre.
Il giro di chiave mi rassicurò: beh, ora che devo fare?
Lo chiedi a me, tu dici che hai le tue cose?
Sì, mamma, ma che sono le cose?
Ah, non lo sai?
E sì che non lo so, ma penso di averle. Se ce le ha Cocca che è più piccola di me!
Ma Cocca è una signorina.
E io sono un signorino. Mi abbasso i pantaloni e poi mi dici se ce le ho le cose.
Mia madre, paziente, aspettò che terminassi l’operazione, poi mi guardò: bene, tutto a posto.
Allora?
Ho detto tutto a posto.
Vuol dire che ho le mie cose.
Sì- rise mia madre- ce le hai tutte le tue cose.
Allora usciamo nel pomeriggio.
Va bene- si rassegnò
Tutto felice andai da mio fratello Lello e gli dissi che anche io avevo le mie cose.
Lui non si scompose, mi fissò un attimo negli occhi e sentenziò: Non è normale.
Nel pomeriggio ebbi la bandoliera con le pistole; ma cosa fossero le cose lo scoprii solo alcuni anni dopo.

venerdì 26 febbraio 2010

LE COMMISSIONI D'ESAME

LE COMMISSIONI D’ESAME
Come il solito sono in ritardo. La convocazione è per le 16.00. Sono le 16.10 ed io sono ancora a casa incantato dalle evoluzioni del mio nipotino Matteo che gira per casa e fa croa- croa come la rana.
Saverio mi riporta alla realtà.
Cazzo, hai detto che saresti passato a prendermi e sono giù a farmi congelare il pisello. Ti decidi?
Certo, sono già giù.
Il traffico è inesistente. Tutti, o quasi, a quest’ora fanno la siesta. Passa solo qualche veicolo che erutta fumo bianco nella digestione della benzina.
Saverio è lì, sotto il cancello di casa e passeggia nervosamente.
Cacchio stavi facendo? Mi chiede quando lo invito a poggiare il suo disturbo sul sedile della morte.
Non gli rispondo per non innescare il solito duetto in cui ricorrono i gattini del mio condominio.
Ci pensa lui però: Seghette ai gattini, vero?
Seghette ai gattini è la mia risposta preferita quando mi chiedono cosa faccia nei momenti di relax. Ora i miei amici si rispondono da soli, non aspettano manco che io tiri fuori qualche altra cazzata: Eppure di cazzate , cacchio se me ne vengono!
Recito il mea culpa perché mi hanno tolto il gusto della battutaccia.
I gatti che sostano in cortile, in verità, sono tanti e ci vorrebbe qualuno che li impegnasse eroticamente per impedire che maschi e femmine continuino ad accoppiarsi sfornando decine di cuccioli che poi diventano grandi e s’accoppiano anche loro. Ecco, ci vorrebbe qualcuno che li stancasse, che li facesse sentire sessualmente soddisfatti senza la collaborazione degli etero che miagolano in calore non appena si affaccia un marcantonio tipo Romeo e un pezzo di femmina come Duchessa (gli Aristogatti, per chi ne ha memoria).
Un tempo, quando Ira e Ouzo, i mie giganteschi pastori tedeschi, mi portavano a passeggio, si creava il deserto: c’era un fuggi -fuggi generale di felini che interrompevano la copula al ruggito delle mie due belve. Ora, purtroppo, vi sono solo degli York-shire che si fanno fare pure loro dai grossi maschi coccolati dalle vecchie barbute di Via Kolbe con croccantini e pesce di prima qualità.
Storco le labbra nel ghigno che sfoggio quando non so cosa dire ed emetto il mio righio famoso tra alunni e colleghi:grmmmm.
Prendiamo un caffè?-dico per distoglierlo da pensieri lubrichi.
Tu non l’hai preso?
No, non ne ho avuto il tempo:
Io invece sì… e poi è tardi.
Se mia nonna, appena nato, non mi avesse dato un cucchiaino di caffè, ora non sarei un caffeinomane e un nicotininomane convinto e sopravvivrei felice senza avvertire l’urgenza della pausa che fa tanto incacchiare Brunetta, l’ottavo nano di Biancaneve.
Mi rassegno e guido sino al Polivalente. Stoppo la macchina nel grande parcheggio senza grattini di cui mi servo da circa vent’anni e invito Saverio, che si è appisolato,a sloggiare.
Lui si schernisce: non stavo dormendo- mente.
Si gratta la pelata, poggia il destro sul selciato e schiaccia un escremento che potrebbe essere animale se non fosse del nostro collega incontinente,abituato ai grandi spazi della Jungla: Fallonio.
Saverio sacramenta, striscia la scarpa per terra, prende la racchetta di un gelato da passeggio, il Lola, che non si produce da cinquant’anni, e smuove, per quanto è possibile l’elemento organico dalla suola di para.
Cazzo, è un reperto storico e tu lo tratti come uno spazzolone del Water!
Saverio mi guarda storto.
Il puzzo, comunque, persiste.
L’atrio dell’Istituto è affollato. L’odore dell’organico si fonde con le profumazioni francesi delle colleghe e il Proraso del docente di Elettronica. Qualcuno dà di stomaco.
Ci rifugiamo nell’androne con la speranza che il personale addetto alle pulizie sopravviva allo spregevole compito.
Del Sole, Saverio, cioè, ne approfitta per calare la scarpa nel secchio dell’acqua e si bagna persino i calzini; rivolge, mistico, il pensiero ai cari di Tarzan e batte il piede per terra a scrollare un po’ del liquido puzzolente marrone che trasuda la sua Valleverde.
Arriva il preside. Anche lui è in ritardo.
Men’ uagnun’, facim’ subt’.
Le commissioni da formare sono tante: quattro per i geometri, cinque per gli aeronautici e quattro per i nautici.
Ebbene sì, copriamo terra, mare e cielo.
Nessuno di noi vorrebbe essere membro interno perché è una grande rottura di coglioni, per giunta retribuita male, ma qualcuno deve pur essere sacrificato sull’altare della cultura.
Io, per fortuna, sono membro esterno e me ne fotto, ma tanti, come Saverio, il mio socio, sono chiamati al dovere perché sulla base delle materie scelte dal ministero, obtorto collo, devono sottostare; però, non è sufficiente. E’ necessario che altri vengano martirizzati per la definizione della commissione perfetta.
Il primo a dichiarare la sua indisponibilità è Fallonio. Così come non ha versato il contributo di 13 € per il fondo cassa sociale, non è nelle condizioni di assicurare il servizio per la Maturità. Le scuse sono le solite: moglie, banane per Cita e Kerchak, ominidi, i figli, da accudire e le liane che si accorciano quando il tempo è cattivo.
Ci commuove con il suo pianto afro-greco e applaudiamo. Tulliolo s’incazza e chiede di essere esonerato perché se Fallonio è preoccupato per le banane(sa per certo, inoltre, che Cita è la moglie e non la scimmietta da passeggio),lui è preoccupato per le storie che girano sulla riduzione delle ore di compresenza nella sua disciplina, cosa che lo costringerebbe l’anno prossimo a stare in aula e non a stazionare in portineria a memorizzare il registro delle supplenze
Il brusio innescato dal gran rifiuto diventa cagnara: nessuno vuol essere membro interno.
Cazk ilpolacco si chiede perché sempre lui debba prenderla nel boffice e manda affanculo Saverio che lo vuole con sé membro interno della mitica VD.
Mitica è dir poco se si pensa che la classe è composta da quindici scapocchioni che non aprono libro dal primo anno di corso. Per questo Cazk s’incazza.
Il preside richiama tutti all’ordine e procede per classe di concorso.
Esordisce: Saltiamo, perciò, la A050 perché è dei membri esterni.
Ma chi cazzo sono quelli della A050? –sbotta il collega Trinciatutto.
Ma dai, che lo sai…sono quelli di lettere.
Ah.
Sfoglia il carteggio che ha posato sulla grande scrivania e:Vediamo la A019?
Ma chi cazzo sono?-- risbotta Trinciatutto col consenso dell’intera platea.
Litalica e Airone.
Preside, non sono litalica, ma Italica.
Se è per questo manco io sono Airone, ma Aquilani.
Sì, ma che cazzo insegnate? Interroga Di Giovanni che prima d’insegnare circolazione aerea faceva il rappresentate di pecorino romano.
Materie Giuridiche!
E tanto ci voleva a dirlo?...- riprende Trinciatutto. Preside, mi ascolti, continuiamo col nome vero non con quelle cacchiate dei numeri.
E va be’. Allora, Italica e Aquilani sono membri interni rispettivamente della A e della D.
Ancora? Ma è tutti gli anni, e poi a noi di Diritto ci fanno fare pure i segretari, cioè un mazzo così!si strappano i capelli i giuristi
Ragazzi, non posso farvi niente. Qui ci sono incroci fra classi, meglio, fra consigli di classe. Come faccio io a formare le commissioni se tutti vi tirate indietro.
Noi non siamo tutti, siamo quelli di diritto.
Si e poi –s’infervora il Primus-quando chiamerò quelli di disegno tecnico quelli mi diranno no, quelli d’impianti si ribelleranno e così via tutti quanti.
Preside, a proposito, noi di Impianti di quale classe di concorso siamo? Io sapevo di essere della A035, mo mi hanno detto che sono nella sedici…
No, la sedici è quella di Saverio!
Natalino, non confondermi.
Io volevo aiutare…
Ma che aiutare…
Mi sembra che sono nella C0030- fa da paciere Saverio.
No Saverio, quellaè del laboratorio di agraria.
Non ci capisco più niente, in quale classe sono, si può sapere?
Saverio, qui stiamo per le commissioni! Quando finiamo, vieni in presidenza e ti faccio vedere.
Sì, ma quella delle classi di concorso è un casino! Le hanno cambiate tutte…
Franco, tu devi sapere che per il D.M. del 27 maggio 2011, articolo 943, comma 1
Ma come, se siamo ancora nel febbraio 2010?
Ma l’hanno già fatto, l’hanno già fatto. Tra un anno ti farò vedere il bollettino ufficiale… comunque, come dicevo, per il D.M. che ti ho detto, tutte le classi di conconcorso subiscono una variazione. Ad esempio, quelli di lingue confluiscono nella classe AC47.
Ma non è quella per l’insegnamento dello strumento del clarinetto?,
E beh, e che tu non lo sai che per usare il clarinetto devi adoperare la lingua? Ragazzi, dovete slinguare se volete usare il clarinetto!
Ho capito, ci sta prendendo per il culo!
Allora, torniamo alle commissioni…
Preside-s’incazza Cazk- perché io lo debbo fare e Lunacci no? Questo non mi piace. E che …
Nicola, è un piacere che ti chiedo…
Ma che piacere, è una rottura di scatole! La colpa è di Del Sole. Io non lo dovevo fare, me l’aveva promesso…poi è venuto Saverio a piangere e…
Promesso proprio no, comunque ti posso chiedere un piacere? Sorride il dirigente
Ma questo è l’ultimo. Poi non venga a dire che sono cattivo…
Ma che cattivo, è che tu sei di Bitonto!
E che vuol dire?
Dai, sei dello stesso paese di Lunacci. Sit’ pacci tutti e due.
Ah, sì, quelli di Bitonto sono pazzi? E mo non lo faccio più, mi do ammalato.
Dai, Nicola, stavo scherzando.
Mo sì!
Fuori la luna è alta nel cielo, bianca, nivea nel suo lindore immacolato. Non c’è traccia di smog nella periferia japigina; lo abbiamo inspirato tutto noi con lo sguardo rivolto al cielo, uscendo dall’antro infernale. Nell’ombra qualcuno mi prende per mano e sussurra: facciamo come quando eravamo ragazzini, andiamo a pomiciare soli io e te, al lungomare, con le stelle che stanno a guardare.
Lo mando affanculo: E’ Saverio.

giovedì 4 febbraio 2010

Day Hospital

DAY HOSPITAL
Le 7.30 di un mattino d’inverno.
Fuori fa un freddo cane.
La stilo di Saverio è ferma vicino il cancello della mia abitazione.
Lui è tutto imbacuccato. Una coppola grigia giù sino agli occhi, la sciarpa di lana blu come l’impermeabile imbottito, pantaloni di velluto e stivaletti marroni.
Penso che abbia anche camicia, maglione e giacca, ma non li vedo.
Salgo in macchina al richiamo del clacson. Dentro c’è un bel calduccio: Saverio ha avviato il climatizzatore che ora, all’interno, dà circa 28 gradi. Fuori la temperatura ne segna appena 2.
Lo saluto. Il vapore esce dalla mia bocca e appanna il parabrezza: ciao, socio, andiamo!
Saverio non mi risponde e dà di gomito sul vetro; termina l’operazione e sorride sornione: quante ore avevi oggi?
Cinque… e tu?
Cinque – mi risponde felice.
La Stilo corre veloce per i viali della città ancora assonnata.
Un ciclista si ferma al semaforo dove c’è un giovane che distribuisce City.
Ci fermiamo anche noi e chiedo due copie. Tanto – penso – avremo tempo per leggere.
Riprendiamo il percorso verso il Policlinico. Chissà se ci faranno entrare.
L’accesso, infatti, è vietato ai veicoli privati.
Proviamo al primo ingresso. Ci rimandano indietro.
Al secondo mi sdraio sul sedile con un fazzoletto premuto sul naso.
Prontosoccorso! – grida il mio socio.
Ci fanno passare.
L’area che occupa l’ospedale consorziale è immensa, eppure pare che non ci sia un buco per parcheggiare.
I posti per gli invalidi superano di un buon cinquanta per cento quelli per gli addetti ai servizi.
I primari hanno tre metri quadri ciascuno per i SUV parcheggiati a cazzo di cane.
Giriamo indolentemente per una ventina di minuti; stiamo per arrenderci quando un mezzo dell’Amniu si stacca dal marciapiede: è fatta.
Saverio nota che si tratta di un parcheggio riservato alle autorità. Gli faccio notare che siamo Collaboratori del Preside. Più autorità di questa…
Saverio annuisce: è vero, non ci avevo pensato.
Ora dobbiamo cercare il centro dell’Ipertensione.
Cacchio, ce ne sono sei! – ci dice un infermiere.
Quale sarà quello giusto?
Padiglione Chini, ci suggerisce una suora nero vestita.
Andiamo!
Nella portineria non c’è nessuno. Una vecchietta seduta sui sedili di legno marrone snocciola un rosario perché compaia un dottore che le indichi il gabinetto d’analisi.
Giriamo come automi nel deserto più assoluto.
Finalmente un essere umano!
Lo abbordiamo. E’ un anziano infermiere. Vuol essere coccolato. Si lamenta con noi del lavoro stressante cui è sottoposto a un anno dalla pensione. Gli dolgono le gambe e i piedi e sente freddo sotto il naso per i baffi che sono due ghiaccioli.
Gli suggeriamo di tagliarseli, ma lui ci guarda storto – è un voto per la squadra del cuore.
Finisce l’idillio. Ci manda affanculo senza darci l’informazione.
La tensione è diventata ipertensione. Si affetta come una ricottina quando ci rendiamo conto che sono le otto e non abbiamo la più pallida idea di quale sia la nostra meta.
Saverio batte i denti, io le mascelle. Che cazzo di freddo proprio oggi!
Ci pare un miraggio ma non lo è: è un dottore in carne e ossa che ci viene incontro tirando come un forsennato lunghe boccate a una sigaretta slim sul punto di spegnersi.
Facciamo per chiedergli, ma lui ci precede: una sigaretta vera e sarò vostro schiavo per tutta la vita.
Con un sorriso largo quanto la Stilo di Saverio tiro fuori il pacchetto delle Marlboro Light.
Il medico lo guarda concupiscente e tende la mano.
Alto là – dico io – prima l’informazione!
Tutto ciò che vuole.
Il centro d’ipertensione.
Ma ce ne sono sei!
Noi vogliamo il nostro.
Mi dia un indizio – dice sofferente il cerusico e non muove lo sguardo dal mio pacchetto.
Siamo ipertesi.
Anch’io – e brandisce lo stetoscopio.
Siamo ipertesi – ripeto – ma non tanto da darle le sigarette senza una contropartita.
Capisco. Oltre l’ipertensione cos’altro accusate?
Freddo.
E’ normale. Ma parlatemi dell’anormale.
Guardo Saverio.
Anche il seguace di Ippocrate lo fissa dritto negli occhi e: Neurologia. Dite che vi mando io.
Se mi dice il nome…
Se mi dà il pacchetto…
Ci guardiamo con sospetto, poi concordiamo. Scambio mano bocca.
Pronuncia Poniello mentre gli scivola nelle mani il pacchetto di Light.
Saverio apprezza il mio sacrificio e mi dice che quando usciremo, se usciremo, contribuirà all’acquisto di un nuovo pacchetto.
Glielo faccio giurare.
Lui giura.
Andiamo in Neurologia – dico tranquillo.
Sì, ma dov’è? Replica Saverio.
Con uno scatto di reni recupero Poniello che sta tirando come un drogato.
Dice di seguirlo, tanto è lui il primario.
Divento cortese soffocando il desiderio di soffocarlo (cazzo, non poteva dirlo prima?) e gli offro un altro pacchetto di Light, tanto ne ho una scorta in macchina.
Sorride felice e aspetta che ci raggiunga Saverio.
Il tragitto è breve. Una costruzione a cinque piani ci mostra le finestre illuminate al neon.
Il cielo è color grigio lupo.
L’indagacervelli si ferma: andate avanti – ci dice – io me ne faccio un’altra.
Se ci fermano?
Poniello, dite Poniello.
Poniello è primario del quinto piano.
L’ascensore non funziona. L’unico a scassare i timpani col suo rumore di ferraglia ha bisogno della chiave.
E’ il turno di Saverio: si porta il fazzoletto al naso e finge di perdere sangue.
L’ambulanza lo porta al Pronto Soccorso.
Io tallono la vettura con il fiato a metà. Ho vinto il freddo: sudo.
Finalmente l’autista si ferma e tira fuori la barella su cui è il mio socio; lo distraggo mentre Saverio prende la fuga.
Siete due pezzi di merda! – ci grida il dipendente sanitario.
Ma a noi non ce ne frega un cazzo.
Poniello sta appallottolando il primo pacchetto quando ci ritroviamo davanti a Neurologia.
Come mai ancora qui?
Col fiato corto gli rispondiamo che abbiamo voluto aspettarlo, per delicatezza.
Bravi, andiamo.
Lui ha la chiave e saliamo. L’ascensore si ferma al terzo piano.
Il primario ci spiega che la tromba delle scale al quarto e al quinto si restringe e la cabina non passa. In pratica, bisogna farseli a piedi, gli ultimi due. I gradini misurano ognuno mezzo metro. Poniello tira, noi non molliamo, gli stiamo dietro. Se fossimo nel presepe Gesù bambino avrebbe un caldo d’inferno.
La sala d’attesa è gremita. I pazienti, eccetto uno che sorride con ghigno diabolico, hanno il volto sofferente e si tengono con il destro il braccio sinistro. Un batuffolo di cotone impregnato di sangue poggia sull’incavo, dove è stato fatto il prelievo.
Siamo gli ultimi ma al tempo stesso i primi.
Varchiamo la soglia del gabinetto d’analisi. Ci stoppa un’infermiera. Niente più analisi per oggi: la dottoressa è stata ricoverata in ortopedia.
Ne capiamo il motivo.
Ci raggiunge una dottoressa giuliva. Sorride non appena ci scorge e ci domanda: i raccomandati?
Saverio ed io ci guardiamo: E da chi?
Ma da Poniello. Vi adora! Su, venite facimm’ ambress’.
Per una volta al di là della cattedra, la dott. ci sottopone a un fuoco di fila di domande su tutta la parentela.
Ma non si può fare i cazzi suoi? – penso.
Mi ha letto nel pensiero: È per l’anamnesi, sussurra e scodinzola.
Entra lo psicologo, ci guarda e dice: ora siete miei, andiamo!
Il suo è un bugigattolo con una finestra, una scrivania, una poltroncina (per lui) e una sedia per noi.
Ci accomodiamo occupando mezzo sedile ciascuno.
Il dott sorride: no, uno per volta.
Facciamo la conta: tocca a me.
Mi racconta una storiella che devo tenere a mente per riassumerla, cosa che mi accingo a fare.
Invece no, più tardi! Ora devo leggere in fretta alcune lettere con grafica colorata in cui, ad esempio, il verde è scritto in rosso, ed io devo leggere rosso e non verde. Che casino! Ma io, che son un gran casinista, nel casino mi ci trovo e le azzecco tutte.
Per ultimo affrontiamo il discorso sul pisello. Cazzo, vuol sapere se è ancora attivo! Gli racconto una mezza bugia. Sto per andar via quando si ricorda della storiella. Mi accorgo che manco lui se la ricorda e gliene invento una di sana pianta.
Dice che va bene, che sono attivo più di un vulcano spento.
Mi sta prendendo per il culo.
Poi tocca a Saverio e giù altre cazzate.
Torniamo da Giuliva (per distinguerla). Ci fa spogliare, chiede la nostra altezza (spariamo cazzate), misura il nostro peso, la massa magra (a Saverio solo quella grassa), la pressione al braccio. Ci fa distendere su un tavolaccio, in canottiera, e c’incatena con quattro misuratori ai polsi e alle caviglie.
Fuori il freddo si fa sempre più pungente, mezzi nudi lo avvertiamo anche noi.
Finalmente ci rivestiamo quando la pelle è lì lì per assumere il colore bluastro.
Ci attende una dottoressa dall’aria svogliata: Siete voi che dovete fare l’elettrocardiogramma?
Un sì ugulato all’unisono accende di cupidigia gli occhi della seguace di Ippocrate: spogliatevi!
Come, ancora?
E se no come vi faccio l’elettro.
Anche i pantaloni? Azzarda Saverio.
Se ha il cuore nei reparti bassi, anche quelli.
Il freddo continua a farsi sentire e la nostra pelle si ritinge di blu.
Avanti il primo!
Tolga anche la canottiera!
Virilmente obbedisco.
Si distenda sul lettino!
Cazzo, voglio vedere se Garibaldi avrebbe continuato a dire Obbedisco.
Torno subito – mormora la cardiosotutto.
Torna dopo dieci minuti, quando io sono ormai un lombo refrigerato.
Su, che non è niente, non tremi!
Mi scuso. È per il freddo.
Aah!...
Mi poggia gli elettrodi un po’ dappertutto.
Le ventose sembrano refrattarie alla mia pelle, per il sottile strato di ghiaccio che la ricopre.
Massaggi il torace e le caviglie! Ecco, bravo, così!
Torno rosato come un porcellino appena nato.
La macchina segna battiti e sbalzi sulla carta pseudo pergamenata.
Attenda qualche secondo…
Fa non so cosa, poi torna e: Si rivesta!
Gongolo al pensiero che Saverio subirà lo stesso martirio.
Invece no! Cazzo che fortuna ha quell’uomo!
In quattro e quattrotto ha finito e, a sfottò, mi sorride col medio alzato.
Torniamo in sala d’attesa.
Giuliva è contenta. Ci guarda e dice: Lattanzi alla schermografia, Del Sole all’ecocardiogramma.
Da buon fumatore guardo sempre con sospetto alla trapanazione radiografica. Saverio, invece, è preoccupato per questo nuovo esame cardiologico.
Ci guardiamo, poi decidiamo di confortarci a vicenda.
Lo accompagno. Il padiglione Chini è questa volta quello giusto.
Ormai lo conosciamo bene. C’inoltriamo nel deserto.
Cacchio, è diventata l’unica carovaniera. Ci facciamo largo tra le spinte che riceviamo e ricambiamo, sino alla stanza del dott. Iacovo. Un pigolio intenso trasuda dalla porta d’ingresso. Siamo in un pollaio industriale.
Il cigolare di uno stipite ci mostra il volto incartapecorito di un camice bianco.
Chi è Del Sole?
Saverio si toglie la coppola e si fa avanti.
Venga!
La porta si chiude.
Non so cosa avviene in quell’alcova ovipara, certo il tempo trascorre senza che Saverio ne venga fuori.
Decido all’istante: rompo gli indugi e mi reco nella sala blindata delle radiografie. Tanto siamo nello stesso padiglione. Ci ritroveremo, dove non so, ma un giorno…, il dottor Zivago insegna.
Un tecnico con una cicca spenta tra le labbra è appoggiato indolentemente a uno stipite.
Farò presto – penso.
Mi vede, mi chiede se corrispondo al nominativo che gli hanno citofonato e mi dice di attendere. Tornerà subito.
Aspetto pazientemente per un buon quarto d’ora. Eccolo che torna.
Allora, è pronto?
Da sempre rispondo.
Bene, si spogli, tolga il maglione, la camicia, la canottiera…
La pelle anche?
Le piace scherzare – mi dice mentre appoggio la spalla nuda su una lastra metallica. Un brivido mi fa rizzare… i capelli.
Fermo, così, non respiri!
Non respiro. Cazzo, ma quanto tempo ci mette a scattare la foto.
Sono in apnea da un bel po’, con il volto che nello sforzo di trattenere l’aria è diventato rosso come una mela Star quando mi consente di rimettere in funzione i polmoni.
Il mio è più un lamento, un sospiro liberatorio che un ampio respiro.
Centellino l’aria che vaporizza in effetto condensa.
Ora di profilo con le mani sul capo!
Ho visto molti film polizieschi, per cui mi è facile obbedire.
Non respiri!
Cacchio, spero che questa volta non se la prenda tanto comoda.
Speranza assurda più che vana.
Chiedo, finita l’operazione, quale sia la camera di decompressione.
Allora le piace proprio scherzare! – mi ghigna il tecnico. – Attenda, che le dico .
Attendo e non mi dice. Entra ed esce dalla stanza mordicchiando la cicca e sbattendosene della mia ansia.
Lo attendo al varco e l’abbordo: e allora?
Tutto normale.
Questa volta mando un lunghissimo respiro di sollievo. Si forma una piccola nube che poi si scarica in una pioggerellina marzolina.
Torno in cardiologia. Di Saverio non c’è traccia. Busso.
E’ qui Del Sole?
Silenzio.
Ripeto: il prof. Del Sole è ancora qui?
Si riaffaccia l’incartapecorito: lei chi è, un parente?
Vent’anni d’amicizia mi hanno reso tale.
Sì, il gemello!
Attenda, sta rivestendosi.
Torna il pigolio intenso, si ferma, riprende, poi Saverio.
E’ rosso come un peperone della Cajenna, ma sorride: Tutto a posto. Ora andiamo alla radiografia.
Già fatto – dico soddisfatto – anche a me tutto a posto.
Giuliva ci attende. È il momento dell’olter.
Rassegnati, Saverio ed io, senza aspettare che ce lo si dica, entriamo nella saletta olter e ci togliamo giacca, maglione, camicia e canottiera.
Per il mio socio l’operazione è più lunga perché indossa la maglia della salute che ha un giro collo strettissimo.
Lo aiuto e gli scompiglio quei quattro peli che gli circondano la nuca. Lui si passa una mano sul capo quasi a volersi ricomporre.
L’olter è una macchina rettangolare delle dimensioni di una compatta fotografica. Ha un orologio interno che segna le ore e poi chissà quale diavoleria che registra le pulsazioni cardiache e la pressione arteriosa.
Posizionata in una custodia di materiale sconosciuto, è dotata di una cintura da allacciare i vita, una fascia misuratrice di pressione collegata al marchingegno da un lungo tubicino cavo, che passa intorno al collo a mo’ di collana.
Il posizionamento non sarebbe sgradevole se fosse disposto in stagione primaverile o estiva, ma col freddo che tira ti fa accapponare la pelle che ormai degrada dal blu violetto al grigio topo. E’ necessario, infatti, una volta messo a mo’ di cilicio, resettare il piccolo computer di cui è dotato e riavviarlo dopo due o tre tentativi andati in buca.
Giuliva ci raccomanda: Quando sentite che il bracciale si gonfia e diventa tanto duro da farvi dolere il braccio, chiamatemi, così verificherò che tutto funzioni al meglio.
Detto questo, si avvicina a Saverio, lo circonda con le braccia per sistemare in vita la cintura reggente.
Il mio socio è immobile come un fuso.
Poi è il mio turno.
Giuliva mi si avvicina, mi circonda con le braccia e io sento il profumo dei suoi capelli lavati di fresco e shampati di buono.
So che il bracciale comincerà immediatamente a funzionare.
Ora fermatevi nella sala d’attesa e, non fatevi scrupolo, chiamatemi!
La mia previsione non falla: non appena mi seggo sento il bracciale pompare.
Saverio mi dà di gomito: anche a lui.
Il bracciale stringe in modo sorprendente, tira i tendini del braccio sinistro, ne rattrappisce le dita per il formicolio intenso che procura alle falangi e per il sonno in cui è caduto il muscolo estensore del carpo in visita a sua sorella.
Ancora una volta virilmente non emettiamo un solo lamento, confortati come siamo dal sorriso di una suorina che ci siede accanto.
Quando il dolore diviene più acuto, però, ci alziamo e bussiamo alla porta di Giuliva: dottoressa- sussurriamo – è gonfio è duro e ci fa male.
Giuliva non risponde.
Con discrezione riproviamo con un filo di voce: Dottoressa, ci fa male, è gonfio e duro.
Ma la nostra tutrice deve essersi addormentata: la porta resta chiusa.
A quel punto, perso ogni ritegno, gridiamo univocamente: Giuliva, è duro, gonfio e ci fa male.
La suora ci guarda sconvolta, si alza e va a rincantucciarsi, in diagonale, nell’angolo opposto a quello che occupiamo noi.
Anche gli altri pazienti in attesa di essere visitati ci mostrano il loro disprezzo indirizzandoci severe espressioni verbali di rimprovero.
Saverio ed io inebetiamo.
Cosa cacchio vogliono questi stronzi! Non lo sanno che poi verrà il loro turno?
Giuliva apre rapidamente la porta. Nello sguardo c’è un rimprovero frenato solo dall’essere raccomandati dal suo capo. Ci fa entrare nella saletta, controlla senza dire una parola lo stato delle nostre braccia. Si rende conto che qualcosa non va. Resetta il tutto, ci inviata a tornare nella sala d’attesa e ci raccomanda: Non urlate, non parlate, bussate soltanto, date tre forti colpi e vi aprirò.
Nella sala d’attesa tutti i pazienti sono raggruppati in fondo. Al nostro apparire si raccolgono ancor più. La suora ci mostra il suo biasimo non degnandoci di uno sguardo.
Ora il marchingegno va bene. Lo comunichiamo a Giuliva dopo aver quasi sfondato la porta.
Torneremo domani per il prelievo e per l’estolsione dell’olter.