venerdì 29 febbraio 2008

Ouzo e Io

Ouzo e Io

CUCCIOLI ALL’ASSALTO

Il mese d’agosto è, per gran parte della popolazione del globo, il mese delle ferie in cui godere del caldo del solleone sdraiati sotto un ombrellone variopinteggiante o a mollo nella salsedine marina ad alleviare le scottature da barbecue; per Ouzo e per me fu, invece, l’inizio dell’avventura.
Ira dava segni d’insofferenza; il pancione le si gonfiava sempre più e sbavava in cerca di ombra e riposo.
I cuccioli, invece, non stavano più nella placenta per la smania di venire al mondo e scalciavano nel ventre della madre cercando la via di fuga.
Mia moglie, le mie figlie e io stavamo a guardare, pronti a raccogliere il primo uggiolato che desse il segnale di partenza.
Ira è una femmina di pastore tedesco, bella da mozzare il fiato, forte come una pantera nera, agile come una gazzella, intelligente come Einstein.
Aveva capito la piccola che qualcosa non andava per il verso giusto e veniva da me col guinzaglio fra i denti a chiedere d’uscire.
Io sono un pigro, anzi il pigro per eccellenza; mi scoccia tantissimo uscire nelle ore non canoniche che ho canonizzato per me e per me soltanto.
Amo stare seduto in poltrona, d’avanti il mio televisore di ventinove pollici, fumando una Marlboro light, mentre John Wayne ammazza i cattivi.
Le insistenze del mio cane mi spinsero ad abbandonare l’otium di oraziana memoria, ad infilarmi le scarpe e ad emettere quell’aborto di fischio che modulo quando sono per uscire in compagnia della belva.
L’amministratore del condominio in cui è situato l’appartamento che condivido col resto della mia famiglia vieta che si usi l’ascensore per condurvi animali.
Ma poiché lui è il primo ad utilizzarlo, anche senza conduttore, mi sono da tempo arrogato il diritto di farlo divenire simile all’arca di Noè.
Come dicevo, presi il guinzaglio dalle fauci di Ira e occupai il montapersone.
Giunti nel cortile, però, la dolce Einstein, invece di dirigersi verso la strada, utilizzò la sua forza beluina per spingermi verso lo station Wagon che porta sul certificato di proprietà il mio nome.
Mi venne il dubbio che stesse per partorire.
Senza esitare montammo in macchina e pilotai sino alla Croce Azzurra, la clinica veterinaria che tutela la salute del mio cane.
Il dottor Pastorelli (l’ho scelto proprio perché il mio cane è un pastore), non appena ci affacciammo allo studio, capì immediatamente di cosa si trattasse e condusse la puerpera in sala parto.
Ne approfittai per mettere al corrente il resto del clan di quanto stesse accadendo.
In men che non si dica l’ambulatorio veterinario fu invaso da mia moglie e le mie due figlie, Lila e Anto.
Cacchio! Già due ore e il tirabouchon non si decideva a venir fuori della dispensa dei cuccioli.
Un associato, il dottor Eyad, palestinese della Palestina, si affacciò per un attimo per comunicarci che, purtroppo, era necessario il cesareo: un cucciolo si trovava in posizione traversa e impediva il felice evento; anzi, lo stava trasformando in tanto infelice da metter a repentaglio la sopravvivenza di Ira e dei suoi figli.
All’unisono autorizzammo l’operazione.
Stranamente, l’apripancia, porta il nostro stesso cognome: Lattanzi.
E’ un omone alto due metri, pelato e con un sorriso bonario.
Ci precipitammo tutti fuori della clinica ad aspettarlo.
Dopo dieci minuti, vedemmo una vecchia cinquecento che arrancava verso di noi, scoppiettando e tossendo come un vecchio broncopatico, fumatore incallito.
Finalmente l’auto si fermò e sputò il suo catarro gassoso. Cigolando, si aprì la porta di guida.
Da provetto contorsionista, il dottor Lattanzi, Michele per gli agnostici, si cavò fuori dell’abitacolo con il tipico rumore che fa il tappo di sughero quando è estratto dalla bottiglia e ci chiese se fossimo i parenti della gestante.
Annuimmo e lo spingemmo nell’ambulatorio.
I due doc, Lattanzi e Pastorelli, confabularono un attimo fra loro, poi si chiusero in sala chirurgica.
Circa mezz’ora dopo sentimmo un pigolio confuso venir fuori della stanza.
Che Ira avesse partorito dei pulcini invece che cuccioli?
L’infermiera ci porse un cestino con tante cosine nere che si muovevano disordinatamente ed emettevano suoni che ora somigliavano a squittii.
“Sono topi!- gridò sconvolta mia moglie- Tanti piccoli topi neri!”.
Mia moglie, Angela per i suoi e per i miei, come tutte le donne, è atterrita dai topi. Vedersene recapitare otto tutt’insieme la gettò in uno stato di prostrazione a cui rimediò subito il dott Pastorelli, affermando che i cuccioli neonati di qualsiasi specie canina somigliano tanto a topolini, ma che ben presto, nel giro di qualche giorno assumono una connotazione che non ammette dubbi.
Un po’ rinfrancata, ma non pienamente convinta, mia moglie si arrese.
Che non fosse convinta lo scoprii poco dopo, quando, in attesa di poter vedere Ira, mi chiese se fosse stato operato uno scambio tra cucciolata di cani e una di criceti.
Las porta si spalancò prima che potessi risponderle e il dott Lattanzi ci disse che potevamo andare da Ira.
Ira era ancora sul tavolo operatorio, pancia all’aria, sonnacchiosa per l’anestesia e ricamata a dovere con punti a giorno e a notte insieme.
Tornammo dai cuccioli che è bugia che non vedono se non dopo qualche giorno, perché non appena nelle braccia delle mie figlie cercarono quel conforto materno che solo una femmina può dare.
A me succhiarono le dita.
A guardarli bene sembravano una clonazione della clonazione; tutti uguali, lamentosi, bavosi e incazzati per la mancanza di cibo. Non ce n’era uno che stesse zitto e che si facesse i cavoli suoi.
Devo confessare che sul momento fui preso da sconforto.
Come avremmo potuto gestire, noi parenti acquisiti, quella banda di Ira-condi?
Le mie figlie, per nulla impensierite, covavano, invece, quei cuccioli, mentre la felicità sprizzava dai loro occhi: “ Li terremo tutti, è vero, mamma, e vero papà?”.
Il timore di trasformare la clinica veterinaria in un’arena di gladiatori mi trattenne dal mandarle a quel paese.
Ci guardammo negli occhi mia moglie e io e tacemmo.
Nella mezz’ora successiva, tuttavia, mia moglie familiarizzò con la cucciolata e disse che i “bambini” erano belli, che non le sembravano più topi e, grazie agli studi di anatomia,, lei che è biologa, che erano quattro femmine e quattro maschi.
Un lampo mi attraversò la scatola cranica.
La mia casa è al femminile; dei quattro abitanti tutti portano i pantaloni, ma io solo sono il vero galletto del pollaio. Siccome non sono gay ho scelto una moglie femmina che mi ha dato, pare per merito o per colpa mia, due figlie femmine.
La mancanza di un altro maschio che condivida con me l’inferiorità numerica e tutto ciò che questo comporta l’avverto fortemente.
Cominciai, così, a fantasticare e a sperare di poter tenere in via definitiva un cucciolo dotato di attributi maschili.
Per carità, tantissimi erano gli ostacoli che si frapponevano tra l’illusione e la realtà.
Il nostro appartamento è in città, al terzo piano di un palazzo insito in un complesso cooperativistico popolato da ben ottanta famiglie, ciascuna con i suoi grilli per la testa.
Avere due pastori tedeschi, poi, in novantotto metri quadri non è assolutamente facile, viste le dimensioni della razza; se poi si tiene presente che Ira è una fuori taglia, alta e larga due volte un suo simile…
Ma al cuore non si comanda e così, pur non condividendo l’idea delle mie figlie di trasformare i nostri quattro vani in affitto in un canile, accarezzai il progetto di aggiungere al mio “stato di famiglia” un maschio di quella cucciolata.


TUTTI A CASA

Il portellone dell’Alfa si aprì per ospitare nel bagagliaio scoperto la povera Ira semi- addormentata, sdraiata su un lenzuolo immacolato; i cuccioli, invece, nel cestino, sul sedile posteriore fra Lila e Anto.
Un cucciolo, però, il più intraprendente, insofferente degli spazi ristretti, approfittò di un momento di stanchezza delle mie figlie per sgaiattolare dal cestino e cominciare l’esplorazione del mondo contingente. Io ero tutto intento alla guida e mia moglie stava organizzando mentalmente la sistemazione dei cuccioli, almeno per i primi quaranta giorni, tempo strettamente necessario per lo svezzamento.
Quando schiacciai il pedale sinistro per una frenata, per fortuna dolcissima, avvertii sotto il piede un che di morbido e subito dopo un guaito.
Frenai col freno a mano, tra il suono di una decina di clacson impazziti e le imprecazioni di un certo numero di automobilisti infuriati che agitavano in modo esemplare dita e mani, ad indicarmi quale sarebbe stata la mia prossima condizione se non avessi immediatamente sgombrato la carreggiata.
Invitai tutti alla calma, scesi dall’auto e recuperai, dal piano della vettura, il cucciolo peripatetico.
Era una femmina con occhi vivacissimi e con zampette estremamente mobili, con le quali si avvinghiava al mio collo, grata per averla tolta da quella scomoda situazione, mentre con la linguetta cercava di leccarmi il naso.
Il popolo della strada, quando si rese conto della mia buona fede, lasciò che portassi a termine con calma l’operazione di recupero.
“Huma - disse Lila ridendo – sei la solita rompiscatole!”.
“La solita rompiscatole?- mi domandai, conscio che non era neppure un’ora che avevamo con noi la prole di Ira; e poi, perché Huma? Chi aveva detto che si sarebbe chiamato Huma quel cucciolo?”.
“Cominciamo bene! – pensai – Qui bisogna trovare subito dei genitori adottivi per i cagnolini, altrimenti veramente ce li terremo tutti noi”.
Nel cortile di casa fummo letteralmente aggrediti da una torma di bambini che volevano vedere, toccare, giocare con gli animaletti e dovemmo faticare non poco per toglierceli di torno e guadagnare le scale.
Finalmente a casa!
Tanto per dire, se pensate a otto piccole pesti che rilasciavano i loro fluidi intestinali e non dappertutto.
Pensammo, a quel punto, mia moglie e io, di trovare un locale stabile per la cucciolata e di barricarlo in modo da non farla deambulare per tutto l’appartamento.
Lo stanzino adibito a ripostiglio e a cuccia di Ira ci sembrò il luogo più logico.
Ci mobilitammo e affidammo a ciascuno di noi un compito ben preciso.
Anto fu incaricata di badare ai quattro maschietti, Lila alle femminucce e mia moglie ed io a trasferire in altri ambienti le provviste che giacevano su scaffalature in ferro.
Quando meno te l’aspettavi, però, ti trovavi tra i piedi un cuccioletto che per non schiacciarlo ti trasformavi in equilibrista di tale bravura che se ti avessero visto i Togni o gli Orfei ti avrebbero assunto seduta stante.
Ciò non toglie che qualche incidente non mancò
Uno, in particolare, avrebbe potuto assumere dimensioni notevoli se non fosse stato per lo spirito di sacrificio che mi caratterizza.
Angela (ormai la citerò sempre o quasi col suo nome per non incorrere nelle ire della mezza mela) aveva tra le braccia cinque barattoli di pelati che stava trasferendo in un pensile della cucina quando, sempre lei, Huma le fece tunnel (cioè le passò tra le gambe), facendola inciampare.
Perso l’equilibrio, Angela mollò i barattoli e tentò di aggrapparsi a me che portavo la scatola dei detersivi.
Cademmo, così, tutti due mentre la schiera degli altri cuccioli ci si avvicinava.
Ne avremmo fatto marmellata.
Con uno scatto di reni alla Buffon, mi rialzai e tesi la mano a mia moglie che, per fortuna, l’afferrò a volo e si mise prontamente in posizione verticale.
Tre dei cuccioli fecero immediatamente pipì sui barattoli di pelati e sulla scatola di detersivi; io, invece, dovetti applicare sulla regione lombare ben tre cerotti antidolorifici.
Come Dio volle, raccogliemmo i piccoli delinquenti e chiamai a gran voce le mie figliole.
Una era al telefono con il ragazzo, l’altra faceva scoubidou da adattare a collari per i quadrupedi.
Non vi dico chi facesse una cosa e chi l’altra.
Vi dico solo che m’incacchiai e riaffidai i cuccioli alle rispettive, con la minaccia che se fossero venute meno al loro impegno le avrei private della paghetta settimanale per almeno cinque mesi.
Solertemente obbedirono.
Liberato il lato dello stanzino destinato a ripostiglio, non fu, però, cosa facile renderlo abitabile per la nuova famiglia.
Lo stanzino, infatti, come tutti i ripostigli che si rispettano, era dotato di una porta.
Cosa ottima per impedire ai cuccioli di disperdersi per casa, ma tragicamente infausta per la loro respirazione.
Corsi nello scantinato, presi metro e sega, risalii velocemente le scale, col fiatone aprii la porta d’ingresso perché Angela era intenta a lavare il pavimento e le mie figlie, ligie al loro compito, erano rimaste lì, ferme, a tenere la posizione.
Sacramentando, svelsi la porta del ripostiglio, la misurai, la rimisurai, calcolai una barriera alta trenta centimetri e larga quanto il vano porta e segai…

Sega e risega ridussi la porta ad una staccionata perfetta.
Imperfetto, invece, risultò il mio piano, perché Huma, sempre lei, scavalcò anche quella e divenne la padrona incontrastata dell’appartamento.
Frattanto i cuccioli avevano ripreso a lamentarsi perché Ira, non avendo partorito naturalmente, e per giunta sotto anestesia, non riconosceva come sua la cucciolata e rifiutava di allattarla.
Il problema era serio.
Acquistammo una serie di biberon per iniziare ad alimentare gli otto cuccioli, ma con scarso successo; cercammo di attaccarli a forza alla mamma, ma Ira si chiudeva a riccio, insensibile ai lamenti dei figli.
A quel punto decisi di ricorrere all’astuzia e temporeggiai.
Ira va pazza per le scorze di parmigiano; decisi, perciò, di utilizzarle come salvagente, o meglio, come salvacuccioli.
Il mattino successivo il piano di battaglia era già ben scolpito nella mia mente.
Alle otto ero già per strada a visitare tute le salumerie dei dintorni per ricavare la maggior quantità possibile di scarti di parmigiano; alle nove ne avevo una sacca piena sino all’orlo.
La provvista mi sembrò sufficiente per almeno due settimane, per cui desistetti.
A casa raccolsi tutti i cuccioli, li sistemai nello stanzino e li cosparsi abbondantemente dei residui di formaggio.
Ira, pur ancora in semi-catalessi, ne avvertì l’odore e cominciò a leccare la schiena dei cuccioli; di tanto in tanto sgranocchiava un pezzo di formaggio e poi riprendeva a leccare la prole che, per l’olezzo, sembrava la succursale di una industria casearia.
I cuccioli, a loro volta, confortati dalla benevolenza materna, simulando un percorso di guerra, si avvicinarono ai distributori automatici di latte e cominciarono a succhiare.
Da quel momento, per quaranta giorni alcuni, e per novanta solo uno, ebbero latte a volontà.
Chiaramente io andavo fiero della mia trovata.
L’essere riuscito a vincere la ritrosia di Ira agli occhi di Lila e Anto mi rese simile a Fabio Massimo tanto da meritarmi il titolo di Nat il Cunctator.
Ma io mi sentivo come Giulio Cesare quando espugnò Cleopatra.
La fisionomia dei cuccioli ormai c’era ben nota; riuscivamo a distinguerli agevolmente l’uno dall’altro, ma li chiamavamo con i soliti banali appellativi, tipo cicciotto, cosina, schizzetto, nasofreddo, linguetta e via di seguito. Solo Huma aveva una connotazione onomastica ben precisa.
Fu necessario, quindi, procedere al battesimo degli altri sette. Il più piccolo della cucciolata, però, quello che incolpevolmente avevamo soprannominato l’idrante, per la schiuma che cacciava dal naso e dalla bocca, e poi definitivamente chiamato Rhum, purtroppo rimase con noi solo pochi giorni. La schiuma, infatti, non era che il sintomo di una broncopolmonite incurabile.
La sofferenza che ci procurò la morte del piccolo Rhum fu alleviata dalla vivacità del resto della schiera che ogni tanto si raccoglieva intorno a noi e ci guardava, come a dirci di non voler far parte dell’opera pirandelliana “Sei (nel loro caso sette) personaggi in cerca d’autore”.
Dopo estenuanti trattative, finalmente decidemmo il nome da attribuire a ciascun cucciolo.
Cicciotto fu definitivamente chiamato Iro per la mole che lo rendeva più simile alla madre; Nasofreddo prese il nome di Igor, per assimilazione alle terre ghiacciate del Nord Europa; Cosina cambiò in Malù per le crisi gassose che l’avevano afflitta nei primi giorni; Linguetta divenne Zoe a ricordo di un personaggio fumettistico degli anni sessanta; Schizzetto Voudou per la magica schizofrenia africana che esplodeva dal suo corpicino.
Restava da attribuire il nome all’ultimo maschietto, il più simpatico, il più legato ad Ira, quello che si addormentava sulle zampe della madre e che avevamo, per questo, soprannominato mammone.
Nel nostro salotto, a sinistra per chi guarda, nell’angolo, vi è un carrello bar, depositario delle bevande alcoliche che nessuno di noi consuma per essere, volontariamente e non, una famiglia di astemi.
Qualche giorno prima della nascita dei cuccioli, le mie figlie erano tornate da una gita in Grecia e, mentre alla madre avevano portato, in ricordo, un bellissimo scialle dell’artigianato locale, non sapendo cosa regalare al sottoscritto, avevano deciso per un liquore tipico della zona, dal forte sapore di anice: un Ouzo.
Mammone ne era fortemente attratto.
Non fu difficile chiamarlo Ouzo.

Ouzo

Lo scelsi.
Non so per quale motivo. Fu un fatto istintivo, un’empatia straordinaria per quel cucciolo dai dolcissimi occhi nocciola, dallo sguardo intelligente, furbo e malinconico, dal pelo che si macchiava di focature sempre più evidenti, mentre le zampe assumevano una dimensione di robustezza che stupivano tutti coloro che in quei magici giorni affollavano casa mia presi dalla curiosità.
Non pecco di immodestia dicendovi che lo vedevo troppo simile a me.
Ero io cane; ero io dalle braccia robuste e dalle mani grandi come due pale da fornaio; ero io con i miei occhi nocciola venati da pagliuzze dorate (come diceva mia moglie quando era pazza di me); ero io legato a mia madre; ero io ragazzino furbo, sfrenato intelligente; ero io malinconico, desideroso di stupire soprattutto me stesso.
Fui colto da un narcisismo così totale da non sopportare che Ouzo uscisse dalla mia vita. Decisi.
Sarebbe stato mio, mio per sempre.
Non fu impresa facile.

I cuccioli spadroneggiavano e mettevano a soqquadro tutto l’appartamento: pipì nel salone, tra le coperte, sui balconi, fra le rimostranze degli inquilini del piano sottostante che, quando non ci accorgevamo del misfatto, vedevano piovere sui loro balconi l’acqua santa di sette esserini indisciplinati.
Hai voglia usare il giornale arrotolato da battere sul sederino allorché facevano i loro bisogni fuori dell’ora d’aria. Che devi fare! Se ne fregavano ampiamente, dotati com’erano di una resistenza fisica e psicologica che nemmeno i black block.
L’unica era portarli a passeggio più spesso.
Di fronte al nostro complesso, al di là dei caseggiati, c’è un ex campo di calcio che, per l’abbandono, durante i mesi caldi si riempie di margheritine gialle e di alta verzura. Eleggemmo quel posto a cloaca dei cuccioli.
Tutti in macchina, al mattino presto, depositammo il carico latrante sull’ampia distesa.
L’istinto, l’amore per la libertà, la natura, la felicità per uno spazio che a loro certamente sembrava infinito: in men che non si dica scomparvero tra la verzura e i fiori.
Il campo si animò di foglie ondeggianti, di margherite tagliate dallo stelo, di guaiti di dolore per qualche rovo pungente, subito repressi. La preoccupazione invase il mio gineceo. A un certo punto mi preoccupai anch’io.
Al di là del campetto c’è una casa rurale che pone a guardia dei suoi averi una muta di randagi adottati dai contadini. Le foglie si agitavano pericolosamente in quella direzione. Decisi di recuperare l’intera cucciolata.
Vagando tra i cespugli e aiutato da moglie e prole, divisi la mia truppa in plotoncelli e la sguinzagliai in varie direzioni. Dopo dieci minuti la famiglia era riunita, eccetto Ouzo e Voudou.
Un cagnaccio alto tre metri invase il campo abbaiando furiosamente. Gli rispose una specie di miagolio, che poi capii dovevano essere un ringhio, e un latrato da bambino. Mi precipitai in quella direzione.
Scostate le foglie, vidi Ouzo a zampe divaricate, coda e testa alta, che fronteggiava la bestia nera senza mostrare alcun timore. Dietro di lui, ma non per paura, la piccola Voudou si preparava alla battaglia soffiando. Nero rimase disorientato; forse s’impietosì o fu preso da tenerezza: girò le spalle e tornò nella sua terra.
Raccolsi sorridendo i due cuccioli, li accarezzai, sussurrai loro paroline dolci e li ricongiunsi alla mandria. Ira brucava l’erba.

Ira è fatta così: interviene solo se necessario. Sapeva di che stoffa fossero i sui figli, o era sicura che un cane adulto mai avrebbe fatto del male a dei cuccioli. Il guaio, dico per dire, è che anche Ouzo manifestò ben bene il suo carattere, che mantiene tuttora: è un cuor di leone, un senza paura, un cane dominante.
In verità me lo sarei aspettato da tutti fuor che da lui, sempre attaccato alle gonnelle materne, dolcissimo, tenerone, gran succhiatore di latte.
Tornammo a casa sicuri di avere qualche ora di autonomia idrica. Fummo, invece, subito delusi da Zoe che, per fortuna solo sulla soglia, lasciò andare il contenuto della sua piccola vescica. Sembrò avesse dato il via ad una gara.
Fu imitata da tutti i fratelli. Ci mettemmo le mani fra i capelli, prima di immergerle nei secchi d’acqua che ormai erano sempre pronti alla bisogna.
Zoe era una cagnolina particolare. A differenza degli altri, aveva il pelo grigio. Amica inseparabile di Huma, seguiva la sorella in tutte le scorribande, e aveva provato più volte a superare la barriera, goffamente e con risultati non sempre lusinghieri. Vista la scarsa propensione al salto in alto, sfidava la gemellina a giochi da palestra, finendo sempre con lo schiacciarla sotto il suo peso, ancor lieve ma enorme per un cucciolo di così tenera età. Questo loro attaccamento mi spingeva a desiderare che avessero un unico “padrone” o, al limite, ad affidarle a due amici che si frequentassero con assiduità. Avevo ancora pochi giorni a disposizione per sistemare i cuccioli a cui eravamo ormai terribilmente affezionati.

A chiunque dei miei amici chiedessi di adottare uno dei piccoli, mi rispondeva di non avere spazi sufficienti; pensai, quindi, di vincere la ritrosia di mia cognata Linda e di dare a lei e mio fratello Lello (un vero cinofilo che aveva dovuto rinunciare alla sua vocazione per l’aggressività del suo ultimo cane, un pastore belga bellissimo, legato solo al suo padrone e a me) una delle due bricconcelle; l’altra l’avrei affidata ai miei fratelli Nino e Pupa, che dividevano lo stesso appartamento e non avrebbero certo disdegnato averne uno: la loro Gipsy, un pastore scozzese, era morta per un incidente gastro-intestinale.
Feci un blitz.
Invitai i miei tre fratelli e mia cognata a vedere i cuccioli, e feci in modo che le due femminucce prescelte capitassero nelle loro mani.
E’ impossibile resistere ad un cuccioletto di circa quaranta giorni.
Le due zingarelle completarono l’opera raggomitolandosi tra le braccia di Pupa e Linda. Le portarono via quel giorno stesso tra i pianti di Lila e Anto, la commozione di mia moglie e la mia malinconica soddisfazione. Erano rimaste in famiglia e le avremmo potuto incontrare quando avessimo voluto.

La telefonata dell’allevatore che aveva prestato il cane per la monta di Ira non mi colse impreparato: sapevo benissimo di dovergli un cucciolo, non solo, ma che avrebbe dovuto sceglierlo lui.
Saverio Stella, mio amico, si presentò a casa mia, visionò i cuccioli, ne scartò le femmine e rimase indeciso tra Iro, Ouzo e Igor. La sua scelta cadde su Ouzo e questo mi colse impreparato, perché ero convinto si sarebbe preso Iro, il più grosso dei tre. Gli dissi “in tutta onestà” che Ouzo presentava alcuni problemi quali lo scarso appetito, il timore degli sconosciuti (cosa che lui confutò immediatamente), la scarsa aggressività (che per fortuna non poté verificare) e il morboso attaccamento alla madre. Quest’ultimo dato lo fece recedere dalla scelta originaria. Optò per Iro. Mi fregai le mani: aho, l’avevo fregato! Andandosene, però, mi disse: Trattalo bene quel cucciolo. È un gran cane!
Capii di non averlo fregato.
Il distacco dal cucciolo fu più triste perché segnava la sua uscita definitiva dalla nostra vita, mentre cominciava l’avventura della sua vita che avrebbe svolto chissà dove, chissà con chi. Gli augurai mentalmente un “in bocca al lupo”.
Ho saputo che è divenuto militare di carriera, un “pezzo grosso” nell’arma della Finanza per aver individuato vari corrieri della droga.

Con noi erano rimasti Malù, Voudou, Igor e Ouzo.
La casa ci sembrò più vuota.
Un allevatore potentino, dopo qualche giorno, mi telefonò per prendere visione di Igor e Ouzo, come gli aveva consigliato il suo collega Stella. Fissammo un appuntamento. Si presentò puntuale il giorno dopo alle dodici.
Dopo i convenevoli di rito, lo condussi dai cuccioli. Come la volta precedente, fu Ouzo il prescelto; come la volta precedente tentai di prenderlo per il naso portando le stesse motivazioni addotte a Stella. Lui rispose che non gli importava, che il carattere del cucciolo sarebbe cambiato in breve tempo e che Ouzo aveva tutte le caratteristiche di bellezza che occorrevano ad un cane da monta. Ero disperato e con me la mia famiglia.
L’allevatore prese Ouzo fra le mani, lo sollevò, osservò meglio le sue caratteristiche fisiche, se lo mise accoccolato sul braccio destro, pronto a portarlo via. Estrasse dalla tasca il blocchetto degli assegni e mi chiese la cifra da scrivere. Fui assalito da un nodo alla gola.
“Non se ne parla - gli dissi a denti stretti mentre me lo riprendevo - questo cucciolo non è in vendita!”.
Ouzo era mio.
L’allevatore sembrò non ascoltarmi. Mi rinnovò la richiesta: che cifra devo scrivere? Lo guardai truce; accarezzavo Ouzo che si era assopito tra le mie braccia e con un ruggito gli ripetei che non era in vendita. L’allevatore giocherellò con il carnet battendolo ripetutamente sulla callosa mano sinistra.
I miei assistevano come in trance alla sfida che avevo lanciato; oltretutto era la prima volta che qualcuno ci offriva danaro per un nostro cucciolo.
L’allevatore sorrise: prendo l’altro! In quel momento mi sembrò di aver tradito il piccolo Igor che abbandonavo ad uno sconosciuto senza lottare, senza difenderlo come avevo fatto per Ouzo.
Dove lo porterà? – gli chiesi con voce roca. L’allevatore sorrise ancora: Lo terrò con me, le potrei dire, ma quasi certamente lo venderò. E’ un cane di grande pregio; allevato per bene diverrà un campione.
Fui preso da un dubbio.
Come mai – dissi – non ha insistito tanto per l’altro?
Sorrise ancora, dandomi questa volta sui nervi, e mi disse che lo avrebbe preso anche se non era perfettamente sano. Lo guardai stupito.
A lui sembrò non avessi colto il messaggio: Ha un solo testicolo, è monorchide!
Fu come se qualcuno avesse dato un pugno sul mio bel naso e istintivamente vi passai su la mano.
Che dice? – farfugliai come un automa – il mio cane non sta bene?
Non rispose. Mi porse l’assegno senza che gli avessi richiesto alcuna cifra, raccolse il piccolo Igor che stranamente sembrava mostrare simpatia per lui e cominciò a scendere per le scale.
E’ monorchide! – ripeté alla fine della prima rampa e scomparve.
Poco dopo sentii uggiolare Igor. Ira accorse sul pianerottolo e ululò. Poi rientrò e corse da Woudou e Malù.
Mi sembrava una cosa vile, un tradimento per il piccolo Igor. Eravamo ancora dietro la porta, quando fui preso da un rimorso feroce. Senza perdere tempo mi precipitai per le scale, raggiunsi l’allevatore, gli restituii l’assegno e gli strappai letteralmente il cucciolo dalle mani.
Neppure questo è in vendita – gli dissi. Risalii come fossi dotato di ali, chiusi la porta e annunciai: Restano tutti con noi.
Sapevamo che non era possibile, ma sul momento fummo d’accordo.

Quello stesso giorno portai Ouzo dal veterinario. Era di turno il dottor Pastorelli. Visitò il cuccioletto con molta attenzione, lo girò, lo rigirò e alla fine emise il verdetto: non è monorchide – disse - ha un testicolo quasi in addome. Quando sarà più grande, con una piccola operazione glielo riporteremo giù.
Rassicurato dalla buona notizia, stavo per andare via quando mi chiese quanti cuccioli mi restassero.
Quattro!- gli risposi orgogliosamente.
Me ne darebbe uno, un maschio?
A lei senz’altro, ma non Ouzo!
Pastorelli sbottò in una gran risata: Per come lo dice, capisco che è intoccabile. Me ne dia un altro; è per un amico che ha perso una settimana fa il suo cane, un pastore come i suoi. E’ disperato. Per questo ho pensato ad uno della sua cucciolata. E’ disposto a offrire oltre cinquecentomila lire.
Gli spiegai che non era questione di prezzo, ma che volevo avere la certezza che sarebbe stato trattato bene e che avrei avuto la possibilità di vederlo di tanto in tanto.
Igor andò via il giorno dopo, con la promessa che non ci saremmo persi di vista.
La preoccupazione per la salute di Ouzo fu superata grazie alle notizie confortanti forniteci dal veterinario e dette luogo a una spontanea, bonaria e ironica cantilena che da quel giorno accompagnò lo sviluppo del cucciolo sino alla fatidica operazione: Ouzin, Ouzet, cagnolin imperfett...

Non molto tempo dopo, un mio collega mi richiese per suo figlio un cuccioletto. Lo desiderava calmo, dolce, ubbidiente: il ritratto di Malù. Si può dire no a un bimbetto di cinque anni, sapendo che la piccola Malù sarebbe stata la compagna fedele di un cucciolo d’uomo? Oramai non c’erano che Ira, Ouzo e Voudou. Trascorsero vari giorni senza che ricevessimo alcuna richiesta e ci convincemmo che anche la femminuccia sarebbe rimasta con noi. Un mattino, come al solito, portai madre e figli al campetto.
Avvertivano, lo si vedeva chiaramente, la mancanza dei fratelli, ma la giovane età, medicina miracolosa, consentiva loro di giocare spensierati sul prato. Un amico, che abita nella mia stessa palazzina, ormai in pensione malgrado solo cinquantenne, passeggiava nei paraggi. Vide i cuccioli che si ricorrevano felici e si fermò a scambiare quattro chiacchiere con me.
Era un piano preordinato.
Per farla breve, mi richiese Ouzo.
Opposi un netto diniego.
Ripiegò su Voudou.
Tornato a casa ne parlai con mia moglie e le mie figlie. Prevalse il buon senso.
Anche l’ultima femminuccia andò via.
A quel punto comunicai alla famiglia che non avrei preso in considerazione alcuna altra richiesta.
Non uno obiettò.




(Tratto dal romanzo "Ouzo e Io" di Natalino Lattanzi)

venerdì 22 febbraio 2008

Natalino Lattanzi
















Qui vi mostro le copertine di alcune mie produzioni letterarie

giovedì 21 febbraio 2008

Puglia











Qui vi mostro le copertine di alcune opere letterarie di mia figlia Antonella lattanzi

lunedì 18 febbraio 2008

Bari























































































































Alcune foto di una mia esperienza di volo e della mia bella città di Bari da me fotografata con una stupenda reflex Nikon.





































































































































Le fotografie( presenti in questo blog sono di esclusiva proprietà di Natalino Lattanzi, che ne è l'autore.)














































sabato 16 febbraio 2008

Cara, vecchia malasanità

In questa sezione pubblico un saggio della mia scrittura ironico-satirica

CARA, VECCHIA MALASANITA’

Non so come, mi risvegliai sul tavolo chirurgico di un “pronto soccorso”.
“Strozza?”- querelava una voce.
“Non strozza”- affermava un essere in camice bianco.
“Ma se strozza?” -neniava il proprietario invisibile del primo messaggio fonetico.
“Se strozza, strozza”- rispondeva in monocorde l’imbiancato.
A quel punto tornai padrone di me stesso e mi appellai ai diritti del paziente. Pretesi a gran voce che mi si facesse un’eco o una “rx” per capire cosa diavolo mi stesse accadendo, minacciando denunce a tutto spiano.
L’incamiciato, con calma olimpica, si assunse l’onere di spiegarmi l’accaduto e, in linguaggio medicamentoso, mi comunicò che il mio inguine, a destra, si era gonfiato come una mongolfiera, probabilmente per un’ernia.
Mi consigliò di acquistare un paio di pantaloni di cinque taglie più grandi della mia solita e di tornarmene a casa per farmi “guardare” dal mio medico di base.
L’altro, l’uomo invisibile, per intenderci, intervenne per consigliarmi, invece, un ricovero urgente e un’operazione immediata, pena lo strozzamento dell’ernia e un handicap permanente al pisello.
Le sue ultime parole furono determinanti.
Urlai come un maiale sgozzato che fossi visitato da un vero chirurgo e dissi che non mi sarei mosso di lì sin quando non avessero provveduto alla bisogna.
Un ago mi punse nel posteriore e mi addormentai.
Mi risvegliai in un letto dalle candide lenzuola con un medico al mio capezzale.
In termini crudi mi si spiegò che mi sarebbe stata aperta la pancia, che mi sarebbe stata infilata nello “spacco” una retina di non so quale materiale e che sarei stato ricucito a “roastbeaf” per impedire alla mongolfiera di recidivare.
Con gli occhi sbarrati per il terrore acconsentii a che mi si rosolasse.
A sera giunse un altro incamiciato che si qualificò per anestesista e mi chiese se volessi sognare in epidurale, generale o locale.
Sulle prime non capii, ma quando mi si spiegò che si trattava delle tre varietà di anestesia a mia disposizione, scelsi la locale perché mi sembrava la meno dannosa.
“Locale no!”- sentenziò il taumaturgo.
“Ma che cacchio me l’hai proposta a fare?” – pensai; poi, a voce poco più che sommessa gliene chiesi spiegazione”
“Perché non pensavo me l’avrebbe richiesta” – fu la laconica risposta.
Sconcertato, optai per l’epidurale, che poi non è che una volgarissima lombare.
Fregandosi le mani il clinico approvò.
Immediatamente un’infermiera entrò nella stanza e, “ex abrupto”, mi schiaffò nello sfintere anale la canna lunga tre metri di un clistere di cinque litri.
Imprecando con voce baritonale andai di corsa a far conoscenza dei servizi igienici dell’ospedale senza nome.
Gettai fuori anche la mia coscienza sporca resa candida dal diluvio di glicerina.
Quando, finalmente, mi tranquillizzai, fui posto su una lettiga e trasportato in sala “parto”.
Lo stanzone era freddo come un freezer, tanto che mi si offrì una copertina che copriva solo le mie parti più intime, per ripararle dal gelo che sembrava venir fuori della porosità dei muri imbiancati.
Un infermiere mi spiegò con un sorriso malvagio che mi trovavo nell’anticamera dell’inferno, per la preanestesia; poi, quando seppe che sarei stato sottoposto all’epidurale, mi trasferì nella sala operatoria.
“Le faremo una punturina e non sentirà per un paio d’ore le parti al di là del tronco” mi annunciò il sonniferaio fregandosi ancora le mani.
La sua contentezza m’insospettì e mi fece rimpiangere di non aver ascoltato il consiglio del terapeutico del “pronto soccorso”.
“Si metta seduto!” –imperò il drogaiolo.
Rassegnato, obbedii.
Come tigri affamate si lanciarono su di me due infermieri forzuti che mi avvinghiarono per le spalle, mi bloccarono le braccia e mi spinsero il mento sul petto.
Poco dopo un ago di venti centimetri cominciò a sforacchiarmi la spina dorsale all’altezza della decima vertebra.
“Oh cacchio, non entra!- disse De Sade- proviamo un po’più a sinistra!”
L’ago penetrò per la seconda volta.
“E no! Lei deve rilassarsi!- proviamo più a destra! Cacchio, non passa! Cambiamo vertebra!”
Una scossa elettrica percorse tutta la mia spina dorsale, scese per la gamba che si sollevò di scatto per un riflesso involontario e colpì negli zebedei l’infermiere più vicino.
L’urlo del mercenario coincise con un altro affondo dell’ago in non so quale mia vertebra.
“Cazzo, ma questo ha il nervo spostato! È un caso particolare, degno di studio!”.
I miei testicoli furono percorsi da una scarica elettrica, poi da un’altra, poi da un’altra.
Non ne potetti più: sudavo freddo per il dolore e la tensione, mentre quel disgraziato di mediconzolo era tutto entusiasta della novità che gli era davanti.
“E basta, ora! - gridai soffocando un urlo di dolore- smettiamola di fare esperimenti! Le ho chiesto di farmi la locale e me la faccia! L’anestesia dovrebbe servire a non sentire dolore, mentre qui mi occorre l’anestesia per non sentire il dolore dell’anestesia!”.
“La locale no!” –risentenziò il sadico.
“E allora mi faccia la generale – protestai io con quanto fiato mi restava in corpo.
Deluso, lo scienziato pazzo, sollecitato anche dai suoi colleghi assistenti, aderì alla mia richiesta.
Mi addormentai cullato dalle note di una ninna nanna che venivano fuori da una mascherina anestetizzante che un pietoso infermiere cominciò a far scorrere sul mio viso.
Mi lasciai andare ai ricordi d’infanzia che di solito avverto con grande nostalgia, mi rifugiai nel sogno e tornai in seno alla mia famiglia.


IL RISVEGLIO

“Ti dico che gliel’avrebbe fatta! Altri cinque o sei tentativi ed avrei azzeccato la vertebra giusta!” – si lamentava il “droghiere”.
“Non dire cazzate!- rincagnava il chirurgo – un altro buco e l’avresti steso!”
“Esagerato… che cazzo dici!”.
“Guarda come l’hai ridotto…”
“E’ vivo e vegeto!”
“Sì, ma per quanto?”
“Se mi vuoi sfottere…”.
“Ehi, amico, qui non si tratta di sfottò… ti dovevi fermare! Hai provato una, due volte, basta, passa alla generale”.
“Ma, secondo te, quando imparo io a fare la lombare se non provo sui pazienti?”.
“Ma non su quello! Mi era stato raccomandato da un amico… prova con il prossimo, tanto di quello non mi frega niente”.
“No! Quello è stato raccomandato a me da mio fratello. Poi che gli dico?…”
“Allora non tentare più. Facciamo a tutti direttamente la totale e non se ne parli più”.
“La totale, la generale… se sbaglio quella sì che sono cazzi amari!”
“Insomma lo vuoi capire che non puoi andare così alla cieca?”
“Alla cieca?- ma se ho seguito il manuale”.
“Il manuale… il manuale…la teoria è una cosa la pratica è un’altra”.
“ Va be’… con te non si può discutere. La prossima volta farò a modo mio”.
“Fai come cacchio vuoi, ma non quando opero io”.
“Ma sì… è arrivato Barnard!…”.
“Non ne parliamo più! – frenò il chirurgo- Sei bravo… bravissimo”.
“Vero! Io certe cose le faccio ad occhi chiusi…”:
“Questo è assodato! Lo diceva anche il prof Arpino che dormivi durante le lezioni di Anatomia. Vorrei proprio capire come cazzo hai fatto a superare quell’esame”.
“Oh bella, stronzo! E tu come hai fatto? Ho seguito la prassi: mi son fatto raccomandare…”.
“Si, va be’!… sei proprio un caso particolare”.
“Pensa ai casi tuoi!… che poi non sei tanto meglio di me! Guarda che squarcio gli hai fatto nella pancia per un’ernietta da quattro soldi! Dall’ombelico al pisello…”.
“Beh, cambiamo argomento…- ribatté “Jack lo squartatore”- piuttosto ci vediamo domani per la solita partita?”.
“Cerrrrto!” – rispose tutto allegro il sonniferaio, felice di chiudere la squallida discussione.
Con gli occhi semichiusi, ancora sotto l’effetto dell’anestesia, seguivo il dialogo tra il dottor Jekil e lo scienziato pazzo, con una gran voglia di balzare per terra e mettermi a correre verso casa mia.
Niente! il mio corpo non rispondeva ai comandi del cervello: era come paralizzato, indifferente all’ansia che veniva giù a fiotti dai miei neuroni.
Rincoglionito più del solito, mi rassegnai e aspettai che le funzioni vitali si ridestassero dal torpore in cui li aveva sprofondati lo stregone.
Finalmente le palpebre dettero segno d’indipendenza, seguite, di lì a poco, dal resto del corpo.
“Contento? –mi interrogò giulivo Toro Seduto fissandomi negli occhi - è andato tutto bene ”.
Inebetito e impaurito da quelle che avrebbero potuto essere le decisioni dei due intimi di Ade, soffocai il diluvio di imprecazioni che si affollavano con estrema spontaneità nella mia mente, sbattei le palpebre e, come segno di felicità estrema, abbozzai un timido sorriso; quindi finsi di riaddormentarmi.
Che mai l’avessi fatto!
Immediatamente fui preso a ceffoni dai due figli degeneri di Ippocrate che, preoccupati, mi scossero sollecitandomi a svegliarmi per non sprofondare nel coma.
Con le guance dolenti riaprii gli occhi e feci cenno con le dita della mano destra che tutto era ok, anche se mi sembrava di essere ko.
Rassicurati, i cerusici mi affidarono alle cure di due infermieri, “Ercole e Golia”, affinché fossi condotto nel mio letto.


FRATELLI D’ITALIA


Gianni Estroverso ed Egidio Minchiuzzi erano nella mia stanza quando fui sbattuto dalla lettiga nel mio giaciglio da infermo.
Non appena gli infermieri si furono allontanati, si congratularono con me per la bella “cera” che mostrava il mio volto sconvolto, mi dettero due tre pacche sull’addome, facendomi rantolare per il dolore, si offrirono come assistenti notturni, per non lasciarmi solo durante il primo giorno di degenza effettiva.
Impotente, acconsentii con un sommesso “va bene”.
Minchiuzzi mi consolò dicendomi che se avessi superato le prime ventiquattro ore dall’intervento ce l’avrei sicuramente fatta, mentre Gianni puntualizzò che di ore ce ne volevano almeno quarantotto perché fossi dichiarato fuori pericolo.
Rinfrancato da quelle informazioni, lasciai che la “caposala”, femmina bassa, torva, tonda, cespugliosa sulle guance e sul mento, occhi di ghiaccio, sorriso alla Frenkestein, m’inzufolasse con un ghigno di soddisfazione gli aghi delle flebo.
Attonito, muto e smunto, mi raggomitolai sotto le coltri.
Gianni, buon parlatore, specialmente quando si tratta di dire cazzate, m’informò che, grazie a me, o meglio, alla mia ernia, il pullman non aveva ancora lasciato la città che da sempre s’interroga, nelle pozze di sangue fraterno, sul dilemma se tifare Roma o Lazio e che l’ospedale che mi accoglieva era lo stesso che aveva raccolto i gloriosi feriti di Porta Pia.
“Anche i medici, i paramedici, le strutture e i supporti ospedalieri- mi sussurrò sorridendo- sono, probabilmente, gli stessi”.
Mentre Estroverso parlava, Minchiuzzi sbirciava dall’uscio della camera: aveva visto avvicinarsi una barella che trasportava un suturato reduce dalla sala operatoria.
Il poverino si lamentava e invocava aiuto; chiedeva che gli fossero tolti i tubi e i tubicini che pendevano dal suo corpo e non si spiegava come l’asportazione di un’unghia incarnita comportasse un foro nell’addome e una voragine nel torace.
Una suorina, bianco vestita, lo confortava assicurandogli che presto sarebbe stato in grado di alzarsi e di apprezzare il miracolo compiuto dai clinici e gli diceva che , anzi, si sarebbe congratulato con loro per l’ottimo intervento, lui che tutti avevano dato per spacciato.
Il “miracolato” rispondeva di non capire, che era stato convocato in ambulatorio per strappare un’unghia che gli dava fastidio, che si era visto, invece, condurre d’urgenza in sala operatoria e addormentare dal pifferaio magico.
Con dolcezza la religiosa replicava che vaneggiava perché era ancora sotto l’effetto dell’anestesia, che era stato operato per quel suo annoso problema al vecchio cuore ammalato e che ora ne aveva uno tutto nuovo, di plastica, ma efficiente.
A quelle parole il cardioestolto assunse il colore bianco di una camicia bianca lavata con candeggina, smaniò, nascose l’iride nell’orbita oculare e perse i sensi.
La suorina sorrise dolcificante e varcò la soglia della mia stanza.
Immantinente, però, intervennero i due infermieri ghignanti per il rituale dei ceffoni sul volto, atti a scongiurare il coma.
Fu un successo: il plastificato pianse persino.
Lo lasciarono inebetito e affranto nella stanza che ospitava il sottoscritto, inebetito e stanco quanto lui.
Non so se per le botte ricevute dal poverino o per il timore di prenderne ancora anch’io, fui preso dall’impellenza di lasciar defluire il mio liquido ammoniacale.
Mi sollevai sui gomiti e feci cenno ai due infermieri di avvicinarsi al mio letto per aiutarmi a varcare la soglia della toilette.
Uno spintone mi ricacciò col capo sul cuscino quindi mi si annunciò che, per ordini superiori, mi era assolutamente vietato alzarmi.
Soluzione: la pala.
“La pala no!- protestai - non ci riesco… debbo stare da solo per concentrarmi…”.
Furono irremovibili: mi portarono il cessetto mobile.
Sebbene vari tentativi accompagnati dallo sfottò e dagli psss… di Gianni ed Egidio, non distillai neppure un goccetto, a dispetto della mia vescica che sembrava la vela di una nave col vento in poppa durante una tempesta.
A notte fonda, approfittando del sonno dei miei quattro aguzzini, Minchiuzzi, Estroverso, “l’incredibile Hulk” e Schwarzenegger, distrutto dai lamenti di “senza cuore”, mi alzai e, trascinando l’albero delle flebo, “clam”, andai in bagno: una squallida e male odorante latrina, che manco nei paesi più retrogradi .
La mia vescica aveva assunto proporzioni tipo il seno di Valeria Marini, soda e turgida, bollente e lucida nella pelle che la riveste.
Sebbene le mie torsioni sul water, lo scorrere d’acqua da tutti i rubinetti in dotazione al “bagno” dei maschietti, la lurida borraccia continuò a non mandar fuori il suo umore repellente, lasciandomi in preda alla disperazione più cupa.
Quando ormai non attendevo che lo scoppio delle mie vie urinarie, il giovane medico di guardia, svegliato dal rumore torrenziale dello scorrere dell’acqua, si affacciò nel gabinetto che mi ospitava.
“C’è qualcuno?” –chiese con voce stentorea.
“Tua sorella!”- pensò la mia mente obnubilata, incavolata dalla banalità della domanda.
Non ricevendo risposta, il dottor “Kildare” vinse l’indugio e si avventurò nella latrina.
Non appena mi scorse, mi riconobbe, puntò l’indice verso di me e m’intimò di tornare immediatamente a letto.
Io cercai di spiegargli quale fosse il mio problema, ma non volle sentire ragioni e, urlando come un pazzo, risvegliò i suoi “belli addormentati”, prendendoli a calci e richiamandoli ai loro doveri.
“Teyson e Cassius Clay”, colti in fallo, bestemmiarono e obbedirono.
Fui sollevato come un fuscello, mentre dal mio braccio si sfilavano gli aghi della flebo, e risbattuto nel mio letto senza che neppure mi si augurasse la buona notte.
Gianni ed Egidio, che dormivano sul terzo letto ancora disponibile, nonostante tutto il casino, continuarono a ronfare beatamente.
Tornata la “quiete dopo la tempesta”, il mio augellin non fece festa, anzi, se avesse avuto voce, avrebbe richiamato l’attenzione di tutto il personale sanitario.
Visto che lui taceva, spinsi il pulsante della chiamata d’emergenza.
“Gozilla” e socio mi guardarono in tralice e si avvicinarono al mio baldacchino.
Quasi con le lacrime agli occhi li pregai di fare qualcosa per svuotare la mia vescica e implorai perché richiamassero il farmacologico di turno.
“Kildare”, un po’ scocciato, si staccò dal cellulare che teneva appiccicato alle labbra (stava sussurrando parole tenere e indecifrabili al suo interlocutore, una femmina, come si capiva dal sorriso ebete e sdolcinato che allargava le sue labbra a goniometro), sbuffando mi raggiunse.
Per essere conciso e veloce, feci un gesto con la mano ad indicare il mio basso ventre (cosa che fu interpretata provocatoria tanto da suscitare sulle prime una reazione estremamente volgare dell’ospedaliero) e, quando finalmente chiarii l’equivoco, come contropartita mi si appioppò il catetere.
Non so se vi sia mai stato infilato un catetere nel pisello…
Credetemi è irriverente, mortificante e doloroso.
Il medico viene, guarda con aria professionale il tuo salsicciotto assonnato, lo impugna, lo strapazza quel tanto che basta ad individuare il canale urinario che penetra con una lancia lunga trenta centimetri collegata ad una sacca di plastica, gioisce mentre tu soffri, perché è stato costretto a manipolare il tuo “intimo” e se ne va schifato, imprecando, mentre si toglie coi guanti i guanti che ha utilizzato all’uopo.
Debbo riconoscere, comunque, che l’intervento fu risolutivo; infatti, in men che non si dica, riempii due sacche di plastica di un liquido dapprima rossastro, poi rosé, infine color paglierino.
Tirai un sospiro di sollievo e mi addormentai.

SE SON ROSE FIORIRANNO…

Il mattino successivo fui svegliato dai lamenti di “core ingrato”: piangeva e implorava la dolce suorina di porgergli il cellulare per telefonare al suo avvocato.
“Madre Teresa di Calcutta” si trasformò nella “Monaca di Monza”.
“Non rompa le scatole! – gli urlò, seccata, nei padiglioni auricolari- lei non può comunicare con alcuno (in verità disse nessuno, ma io glielo ho segnato blu) e ringrazi il Padre Eterno che non La lego al letto!”
La performance della sposa di Gesù m’impressionò: aveva gli occhi fuori delle orbite e la bava alla bocca.
La bianco vestita, accortasi del mio stupore, mi si accostò e, con voce alterata, mi disse: “Mi perdoni, ma non ne posso più! E’ tutta la notte che mi mette in croce!… non mi ha fatto chiudere occhio… sono stanca…”.
Uscì dalla stanza sbattendo la porta.
Il “petrolchimico” mi guardò esterrefatto: “ma guarda un po’ –dichiarò tra l’offeso e il costernato- io vengo qua, tranquillo tranquillo, ho un’unghia incarnita da strappare, mi consegno nelle mani di questi disgraziati e, invece di essere sottoposto ad un’operazioncina da quattro soldi, mi vedo strappare il cuore…roba da pazzi!”.
“L’interessante è che sia andata bene…”- cercai di consolarlo.
“Ma si rende conto? Andata bene… –s’infuriò il mio compagno di camera- andata bene un corno! Ero un maratoneta, ho gareggiato persino a New York, ho vinto sei medaglie d’oro e cinque d’argento, ho partecipato a tre Olimpiadi… il mio futuro era nello sport. Mi dica Lei- aggiunse sconsolato- ora che farò? Dovrò stare seduto su una sedia a rotelle per non so quanto tempo, poi dovrò fare la riabilitazione che mi consentirà a mala pena delle brevi passeggiate nel parco… e poi?…”.
“Ma con l’unghia incarnita- osai timidamente- non avrebbe potuto gareggiare ugualmente…”.
“Anche Lei è pazzo!- urlò il pover’uomo disperato- sono capitato in un manicomio!”.
Mi accorsi di aver esagerato perché le sue urla destarono Minchiuzzi ed Estroverso.
I due amici si avvicinarono al letto del mio coinquilino e cercarono di calmarlo.
Quando ottennero l’effetto desiderato, gli chiesero cosa fosse accaduto Il malcapitato riraccontò la sua disgrazia, cercando comprensione al suo giusto accanimento contro la struttura sanitaria, pulci del materasso comprese.
Minchiuzzi sbottò in un “per Allah! speriamo non sia biodegradabile!”; Gianni Estroverso, più razionalmente, giudicò che era stata fatta una grave ingiustizia ai danni dell’atleta poiché non gli era stato sostituito il cuore con quello di un altro maratoneta.
Il neo cardiopatico reagì con violenza alle osservazioni dei miei colleghi: sturò con un “blop” la vena inzufolata dagli aghi della flebo e scagliò il boccione contro i due scapocchioni.
Subito dopo impallidì, si portò le mani al petto e biascicò in una smorfia di dolore: “il cuore… il cuore…”.
Ma i suoi lamenti non furono presi in considerazione, poiché in ospedale tutti sapevano che il senzhard era privo del muscolo cardiaco.
La sua invocazione cadde nel nulla: fu interpretata come il ricorrente “mamma, mamma!…” che tutti pronunciamo quando non siamo in piena forma.
Anche Egidio, Gianni ed io ignorammo i lamenti che provenivano da quel corpo quasi esamine e parlammo dei casi nostri dopo esserci sganasciati dalle risate per le disavventure del povero disgraziato.
Non molto più tardi, però, quando i due dinosauri lo riportarono in sala operatoria, raccogliemmo come Tigellino le nostre lacrime di coccodrillo nel lacrimatoio di carta Scottex e recitammo la preghiera dei defunti.
Tornò dopo circa due ore, più incazzato che mai, con l’alluce bendato.













(tratto dal romanzo Noi del Benpensante di Natalino Lattanzi)


sabato 9 febbraio 2008

Poesie per caso

Qui potrete leggere alcune delle mie poesie.

I Disoccupati

Con il cappello calcato sul capo,
col viso basso, increduli,
in piedi, nella grigia penombra dell’alba,
fuori dai cancelli,
a guardare sfilare i prescelti
che attraversano il cortile
col sorriso che increspa le labbra
e muove la barba incolta.
Il “caporale”, in gergo, dice di andar via:
forse domani.
Attendono, sull’uscio delle fredde case
le donne, con la scopa tra le mani
a spazzare un pavimento senza briciole,
senza odori.



Paesaggio

Il campo di grano ondeggia,
mosso dal vento che spira ad occidente.
I grilli friniscono l’invito alle stelle,
come una nenia, nel buio della sera,
mentre l’odore della salsedine
penetra le nari dei cani che ululano alla luna.