sabato 31 maggio 2008

Quando Nonna si diverticolava

Quando nonna si diverticolava
Diverticoli! – disse, grattandosi il mento, il dottor Romano.
Mia sorella ed io, che eravamo nascosti sotto il lettone dei nonni, ci scambiammo uno sguardo complice. Non ci pareva vero che nella pancia della nonna ci fossero i diverticoli.
Io pensai che forse sarebbe stato il caso di aprire una finestra nell’addome, tipo televisione, per intenderci, e assistere allo spettacolo dei diverticoli.
Che devo dire… mi sembrava che mia nonna conservasse nella pancia tanti Aldo, Giovanni e Giacomo in miniatura che di giorno, di sera, a tutte le ore, imbastissero uno spettacolo a suo unico beneficio e che lei si dimenasse sulla poltrona per il gran divertimento.
Mia sorella Pupa, la chiamavamo così perché era bella come una bambola di porcellana, che mi leggeva nel pensiero bisbigliò: ma lo sai che sei sciocco? Nonna non si diverte, si dispera, anzi! Non vedi che quasi piange?
Riflettei: era vero! Forse lo spettacolo imbastito dai comici non era poi così divertente.
Ma no- intervenne ancora mia sorella- lei si dispera perché non può vederlo! Ce l’ha tutto lì nella pancia e non le serve a nulla!
Anche questa volta la telepatia aveva fatto centro!
Mi vuoi dire perché dai risposte a domande che non ho ancora fatto? Come sai cosa volevo dire?
Te lo leggo negli occhi!… lo dice pure una canzone.
Fra mia sorella e me c’è meno di un anno di differenza, siamo quasi gemelli. Lei però è nata prima e questo mi frega, perché le aveva dato il vantaggio della lettura, cosa che io ancora non sapevo fare per bene.
Beh, e allora a cosa sto pensando ora?- la sfidai.
Te lo dico subito! Stai pensando che vuoi mettere una telecamera nella pancia della nonna così vediamo tutti insieme i diverticoli e nonna non si dispera più.
Brava! Mi aveva fregato ancora una volta.
Mia sorella riprese- Ma la telecamera il babbo ce l’ha chiusa nell’armadio.
La nostra origine fiorentina riemergeva ogni volta dovessimo fare riferimento al genitore.
Tutti i miei amici, tutte le amiche di mia sorella dicevano papà; noi no, parlavamo come Pinocchio!
E che ci vuole- la bloccai- prendiamo la chiave e apriamo.
Stupido, il babbo ce l’ha appesa al collo!
Mia sorella era rimasta scioccata dalla fiaba di Barbablù e pensava che tutti gli uomini adulti nascondessero qualcosa o in camere segrete o in armadi, di cui portavano la chiavi al collo.
In verità, mio padre portava al collo una chiave, ma era una minuscola chiave d’oro, un ciondolo della sua collanina che aveva ricevuto in dono il giorno della cresima e che da allora non aveva mai più tolto. Ma noi non lo sapevamo.
Il dottore si accomiatò dopo aver intascato duecento Euro senza rilasciare ricevuta, come disse scandalizzato mio nonno che era un maresciallo della Finanza in pensione.
Mia nonna rimase sola, seduta sul letto, con le gambe penzoloni e si lamentava.
Si sta diverticolando- dissi io.
Si,- confermò mia sorella- ma solo nella pancia; non riesce a vedere niente
La cura era a base di calmanti e sonniferi, nel caso non riuscisse a prendere sonno durante la notte.
Pupa ed io volevamo riguadagnare la libertà, ma non potevamo uscire di sotto il letto sin quando nonna era nella stanza. Ci salvò nostra madre che la invitò in cucina a sorbire una tazza di camomilla.
Sgaiattolammo velocemente da sotto il letto e ci rifugiammo nel ripostiglio che avevamo eletto a base logistica per i piani di monellerie.
Ci distendemmo sul vecchio divano in vimini, mezzo sfondato dai tanti salti che vi avevamo fatto su, mettendo a dura prova l’elasticità del legno, poi assumemmo la posizione fetale, l’unica che ci era congeniale per pensare.
Il cagnolino in peluche, Teddy, ci ammiccava da sotto un asse da stiro tutto sgangherato.
Purtroppo lo scorgemmo nello stesso momento. Ci lanciammo verso di lui per prenderlo e ci ritrovammo l’uno con la testa e l’altra con la coda del pupazzo tra le mani.
Ciascuno di noi lo voleva per sé; tirammo, ci azzuffammo, ci raschiammo e piangemmo.
Nostra madre venne a dividerci.
Io ne reclamavo la proprietà, ma nessuno della mia famiglia ricordava chi l’avesse avuto in dono e da chi.
La questione è rimasta insoluta sino al disfacimento completo del povero peluche.
Chiaramente neppure quella volta nessuno di noi due l’ebbe vinta e il cagnolino fu relegato in soffitta.
A riappacificarci ci pensò l’alcool denaturato che nostra madre strofinò sulle nostre piccole ferite.
Piangemmo per il dolore e ci abbracciammo, come nella poesia “I due fanciulli” di Giovanni Pascoli.
Giunta l’ora di fare i compiti, mia madre ci spinse verso la lunga scrivania fatta costruire apposta per noi, affinché potessimo studiare nella stessa stanza senza infastidirci a vicenda.
Ma il pensiero del grande spettacolo che avveniva nella pancia della nonna, senza che nessuno ne usufruisse, ci spinse a tralasciare i nostri doveri e a tentare di pensare un piano di battaglia per liberare lo schermo che si accendeva e spegneva nell’addome della nonna, con un gran consumo di energia che poi faceva dire a mio padre che le bollette della luce erano molto “salate”.
Le vignette di un vecchio giornalino di Tex Willer, il mio compagno inseparabile durante le lunghe ore di noia alla scuola materna, mi suggerì l’idea di aprire un varco nella pancia della nonna, così come aveva fatto il mio eroe che, per liberare il figlio Kit e il fido Tiger, aveva piazzato della dinamite, mentre le pallottole dei cattivi gli fischiavano attorno, proprio davanti all’uscio della capanna in cui erano rinchiusi.
Mia sorella mi guardò sgomenta: ma dove prendiamo la dinamite!...- mi disse con aria di superiorità.
Non ci avevo pensato, era vero!
Ma ancora lei, mia sorella mi venne in aiuto.
Forse è nell’armadio di Barbablù, cioè – si corresse- del babbo.
La storia di Barbablù quella volta mi parve più vera, anche perché, proprio prima che andasse via il dottore, mio padre si era chiuso nella sua stanza e lo avevamo sentito armeggiare vicino l’armadio, poi, con una bottiglia che a noi parve di veleno, si era avvicinato al dottore con aria cattiva e gli aveva offerto un bicchiere di quell’intruglio.
Il dottore, dopo averlo bevuto, fu colto da una tosse così forte che continuava a farla anche per le scale quando andò via.
Forse era già morto- pensai.
A quel punto decisi che le paure di mia sorella non erano soltanto frutto della sua fantasia, ma che esisteva una valida possibilità che fossero certezze.
Pupa mi lesse ancora una volta nella mente.
E’ proprio così!- mi disse con aria grave.
Mia sorella, che ha un senso pratico molto più acuto del mio, ebbe un lampo di genio.
Perché, invece della dinamite non diamo alla nonna un po’ del veleno che il babbo ha dato al dottore? Se la nonna tossisce come lui, può essere che vomiti il televisore che ha nella pancia!
Giusto!- approvai- come ho fatto a non pensarci io?
Bisognava, però, elaborare un piano per togliere dal collo del babbo la famosa chiave.
Ancora una volta Pupa ebbe un’idea.
Senti- mi disse- domani mattina svegliamoci presto, andiamo nel lettone della mamma e del babbo e li assaliamo con baci e abbracci. Durante la confusione che si creerà io romperò la collanina e tu la prenderai la chiave. Poi ce ne torniamo a letto.
Il piano era geniale e il giorno dopo lo mettemmo in atto punto per punto.
I nostri genitori pensarono che eravamo stati colti da un accesso di affetto e sottostettero volentieri alle nostre effusioni.
Mia sorella ruppe la collana, io presi la chiavetta, la nascosi nella tasca della giacca del mio pigiamino e, dopo aver recitato per alcuni altri minuti, ritornammo nei nostri letti.
Non c’eravamo allontanati che di pochi passi che sentimmo brontolare il babbo per il fatto che si era rotto il suo gioiello e che chissà dove era andata a finire la chiavetta in quel gran macello che avevamo inscenato.
Mia madre lo consolò non so come, perché per un po’ di tempo le voci tacquero.
Ma non eravamo che alla metà dell’opera. Ora bisognava riuscire ad aprire, non visti, il famoso armadio.
Questa volta l’idea fu mia.
Di domenica mattina il babbo, che era un cuoco sopraffino, si preoccupava lui di preparare il pranzo.
Una pietanza che gli riusciva molto bene era il ragout, ma per farlo la mamma gli faceva da assistente.
La preparazione del ragout è molto laboriosa.
Bisogna innanzitutto preparare le braciole di vitello e maiale con ripieno di lardo prosciutto, formaggio romano, aglio, prezzemolo, sale e un pizzico di pepe nero; poi si scelgono le frattaglie di carne più saporite come nervetti e callosi, a cui si aggiungono alcune cotiche di prosciutto e dei piedi di agnello.
A quel punto si mette a sfrigolare il tutto in un tegame di creta, a fuoco lento.
Quando la carne prende un bel colore marroncino le si aggiunge una cipolla tagliata a fette sottili, si aspetta che assuma un colore castano chiaro e si irrora tutto con un buon bicchiere di vino bianco.
Quando il liquido si consuma, si versa abbondante passato di pomodori pelati e il sale, si copre il tegame e si aspetta che cuocia a fuoco lento.
Il tutto porta via almeno quattro ore. Quattro ore in cui Pupa ed io restavamo padroni di tutto il resto della casa, con divieto assoluto di varcare la soglia della cucina.
Mentre, di solito, questo fatto ci arreca grande fastidio, perché vorremmo collaborare alla preparazione del sugo, quella domenica, ci rese felici.
Quando il babbo e la mamma si reclusero in cucina, Pupa ed io ci precipitammo nella loro camera da letto e arrembammo l’armadio.
Ahimè, la chiave era troppo piccola o la toppa dell’anta era troppo grossa.
Deluso detti un calcio al mobile e con mia grande sorpresa mi accorsi che l’anta si era schiusa appena.
Il resto fu facile!
La bottiglia di veleno recava una scritta paurosa: Grappa purissima alla ruta.
Non appena la stappai, annusai il contenuto: un odore fortissimo, nauseante e bruciante salì per le mie narici e starnutii con violenza.
Il volto mi diventò di un rosso paonazzo e la stanza prese a girarmi intorno.
Pupa mi sostenne: non cadere, stupido,si può rompere la bottiglia!
Per fortuna il giramento di testa durò poco!
Prendemmo il bicchiere di plastica ripieno d’acqua che tenevamo per la notte sul comodino, ne svuotammo il contenuto nella pianta di pansé che era sul davanzale della finestra della nostra cameretta, lo riempimmo a metà del liquido “velenoso” e lo nascondemmo nel comodino.
La nonna, che nel frattempo si era svegliata, chiamò per prendere la sua camomilla.
Mai come quella volta, Pupa ed io accorremmo con prontezza, violando la consegna, in cucina e ci dichiarammo disponibili a portarle la medicina.
Mia madre, che aveva già preparato il calmante in un bicchiere da bibita, ce lo porse.
Prima di andare dalla nonna, versammo nella nostra piantina metà del calmante e vi aggiungemmo il “veleno”.
Alla nonna porgemmo il bicchiere consigliandole di berne il contenuto tutto d’un fiato e aspettammo.
Non appena la poverina ingollò quella che avrebbe dovuto essere la sua medicina, fu colta da accessi convulsi di tosse e da dolori fortissimi all’addome.
Le sue grida giunsero sin nella cucina e dalla cucina giunsero velocissimamente ai nostri genitori.
Pupa ed io guardavamo la bocca di nostra nonna nella speranza che il piccolo televisore venisse fuori, ma che devi fare, manco l’antenna sbucò.
Mio padre ci urlò di non stare lì come due imbecilli, ma di chiedere, piuttosto, aiuto al nostro dirimpettaio che è dentista.
Il dottore, non appena si rese conto delle condizioni di nostra nonna, consigliò un ricovero immediato.
L’ambulanza la portò via mentre mia sorella ed io, affacciati alla finestra la guardavamo allontanarsi.
Mia nonna fu operata d’urgenza e da allora non si diverticola più, ma a noi i dottori non hanno mai restituito il televisore che lei aveva nella pancia.
Che ladri, però!...!

2 commenti:

Roberto Junior Fusco ha detto...

Un racconto grazioso che mi ha fatto sorridere, complimenti ma soprattutto grazie per questo!
Nel ringraziarti poi per la visita e il commento che mi HAI lasciato nel mio blog sulla letteratura, colgo l'occasione per chiedere una cortesia che avrai già intuito: diamoci del tu.

Anonimo ha detto...

Grazioso davvero!
IO sono arrivato sul suo - tuo? - blog tramite un wordpress di letteratura in cui ho sentito parlare di te. Sinceramente amo la letteratura via blog, però non tutta, quella fatta col cuore.
E beh, che dolcissimo racconto natalino, divertente, ironico, malinconico.
Anch'io scrivo. Poesie, soprattutto. E chi scrive con passione lo sento.
Ciao.