venerdì 25 aprile 2008

Ouzo e io

Ancora Ouzo
E’ difficile parlarvi di Ouzo senza raccontare della mia famiglia com’era quattordici anni fa. Io ero un leone; possedevo una forza interiore che pensavo non sarebbe mai stata scalfita; ero fiero di mia moglie e delle mie figlie come ero fiero di Ira e Ouzo. Mi sembrava di essere un principe nel suo castello difeso dagli amici più fedeli. Via, quasi un Re Artù con la storica tavola rotonda costellata di stupendi cavalieri. Non è che fossimo in un’isola felice senza difficoltà, ma eravamo uniti. E vincevamo.
Sì, vincevamo perchè non permettevamo che fattori, persone esterne alla nostra famiglia ne minassero la serenità, la compattezza. E’ così che si diviene vulnerabili, perdenti.
Ira e Ouzo erano inseparabili: dov’era uno era l’altra. Ouzo si accoccolava sulle zampe di sua madre e dormiva, mentre la sua crescita diveniva sempre più evidente e impressionante. In brevissimo tempo si era allungato, alzato, e mostrava una conformazione così massiccia da sembrare un cucciolo di Alano, se non un Rott Wailer.
Ma ciò che più stupiva era la devozione a Ira, che per lui rappresentava un simbolo da imitare. Ira lo addestrava a musate, a piccoli ringhi e morsi incruenti, a zampate leggere sulla testa quando Ouzo trasgrediva, o a leccate amorevoli in segno di approvazione.
Ira non è mai stata una femmina come le altre, forse perché sin da piccina è entrata in concorrenza con un’alta femmina di pastore di nome Shira, sua grande amica, di otto mesi più grande. Con la sua amica ha imparato a lottare senza lamentarsi, a correre, a inseguire la preda che poteva essere una palla, un pezzo di legno o una pietra, o una conchiglia sbreccata; ha imparato a non sottomettersi e ha preso le sue rivincite quando, divenuta grande e possente – una fuori taglia per intenderci –, alta al garrese più di un maschio, con una conformazione ossea pesante e robusta, ha sottomesso Shira che da allora è divenuta il suo alter ego, la sua amica più fidata. Ira e Shira hanno educato Ouzo a essere un gran cane, un dominante, un rompiscatole più unico che raro ma con un gran cuore, un affetto smisurato per tutti coloro che gli hanno mostrato amicizia.
Ira è entrata nella mia vita quasi per caso, quando addirittura pensavo di non dover mai più avere un cane per amico, per via di una insofferenza allergica di mia figlia Toni agli acari della polvere e alle graminacee. Ma “buon sangue non mente”, recita un antico adagio sin dai tempi più lontani. Proprio mia figlia Toni fu presa da una così grande passione per i cani da costringermi ad acquistarne uno da un allevamento della mia città. Quasi come avevo fatto io con mio padre, quando lo convinsi, lui che per essere stato morso in tenera età da un randagio aveva giurato a se stesso che mai sarebbe entrato un cane in casa sua.

Accadde così.
Il timore verso questi “grandi” animali si tramanda di padre in figlio, quasi a livello genetico; per cui, essendo figlio di mio padre, nutrivo un terrore istintivo verso qualsiasi razza o sotto razza di cani, pur sentendomene fortemente attratto.
Mio padre era ragioniere e amministrava la contabilità di un buon numero di commercianti della mia bella Bari. Ebbene, uno di questi, don Ferdinando Boccia, un napoletano di robusta costituzione, dalla risata inimitabile e di una simpatia unica, possessore di una delle più rinomate pasticcerie della città, aveva il suo negozio nei pressi di una gioielleria a guardia della quale vi era uno stupendo pastore tedesco femmina: Diana.
Tutte le volte che mi accompagnavo a mio padre nel giro di visita al suo cliente, incrociavo il mio sguardo con quello di Diana, e ogni volta dicevo a me stesso che avrei dovuto farmi forza e accarezzarla. Manco a parlarne! Quando ero lì lì per tendere la mia manina di sette otto anni, all’ultimo momento mi mancava il coraggio e la ritiravo velocemente, nel timore che restasse tra le fauci del cane. Mio padre mi guardava e sogghignava, sembrava mi lanciasse una sfida. Decisi, perciò, che a qualunque costo sarei riuscito nel mio intento.
L’occasione capitò pochi mesi dopo, quando un condomino dello stabile in cui abitavamo, il dottor Rafaschieri, adottò un cucciolo di lupo alsaziano. Non vi dico l’invidia! Vedevo i suoi figli giocare con quel lupacchiotto senza timore, anche quando divenne cucciolone, con due zanne acuminate che facevano paura solo a guardarle. Ebbene, una domenica mattina i miei genitori si recarono al cimitero in visita ai loro cari scomparsi. Io colsi l’occasione e bussai alla porta dei miei vicini.
L’abbaiare furioso di Bull mi mise una tremarella tale che mi detti indietro ma, quando feci per rientrare in casa, Enzo, un ragazzotto di una dozzina d’anni, Rafaschieri junior, aprì la porta tenendo stretto il lupo per il collare. Mi chiese cosa volessi; io, con la voce che muoveva appena le corde vocali, deglutii e gli dissi che volevo divenire amico del suo cane. I ragazzini, si sa, sono incoscienti; ma quanto lo fummo Enzo ed io sfiora l’imbecillità.
Enzo si disse subito d’accordo e mi fece cenno di seguirlo su per le scale, sin sul terrazzo, dove avremmo potuto giocare indisturbati con Bull. Io mi tenevo a debita distanza, ma il cane tirava per annusarmi, per saltarmi addosso, per mangiarmi, pensavo io. Sul terrazzo, per non dare l’idea che stessi morendo di paura dissi ad Enzo di lasciarmi solo col cane, sicuro che mai avrebbe acconsentito. Beh, lui, invece, acconsentì. Ci studiammo per un po’ Bull e io, poi lui passò all’attacco. Mi agguantò con le sue fauci a un polpaccio e me lo perforò.
Voleva giocare, mi disse poi Enzo, ma io, che non lo sapevo, sferrai al povero cane un pugno tale sul capo che lo atterrò. Fu così che divenimmo amici, Bull e io.
I miei, al loro ritorno, mi trovarono che zoppicavo, con i pantaloni alla zuava strappati ma fiero di aver superato l’atavico timore dei cani.
Mio padre non ghignò, quella volta; anzi voleva farmi perforare da quaranta iniezioni nel ventre, cosa che rifiutai energicamente, confortato dal signor Rafaschieri che aveva mostrato il libretto sanitario di Bull costellato di tutte le vaccinazioni previste dalla legge.
Il giorno dopo carezzai Diana e quattro mesi dopo il suo padrone mi regalò un cucciolo femmina, Teddy, un magnifico incrocio tra un pastore tedesco e un pastore scozzese.

Beh, Antonella, Toni, per tutti noi, lanciò a me una sfida simile a quella che io avevo lanciato a suo nonno quando, in visita dall’allergologo, confermò il suo desiderio di avere un cane, supportata ardentemente dalla sorella. A me sembrò che finalmente si sarebbe rassegnata, poiché era scontato che il professor Ivan Papadia avrebbe sconsigliato una scelta di tal genere. Invece no. Anzi, mi raccomandò caldamente di soddisfare la richiesta, poiché Toni avrebbe anche potuto, in questo modo, sviluppare anticorpi atti a combattere l’allergia; mi ammonì, però, ad allontanare immediatamente il cane nel caso avessi notato un peggioramento delle manifestazioni allergiche. Fu cosi che ci recammo all’allevamento del Levante, il cui gestore era un amico, Saverio Stella.
Saverio ci guidò subito verso il settore delle cucciolate e ci consigliò di scegliere il cucciolo tra quelli che aveva partorito circa quaranta giorni prima una bellissima femmina di pastore tedesco. C’erano cinque cagnetti che suggevano avidamente il latte dalle mammelle materne. Uno il più grosso, al rumore dei nostri passi si girò incuriosito e venne scodinzolando verso di me che facevo da apripista. Fu amore al primo sguardo.
Lo presi tra le braccia, lo accarezzai e lo mostrai alla mia cucciolata: era una femminuccia. Dieci minuti dopo, le mie figlie e io eravamo in macchina con un esserino che scodinzolava e faceva udire la sua vocina tra uno starnuto e l’altro. Toni la spupazzava in tutti i modi, l’abbracciava, la baciava senza tossire né starnutire. Ma era troppo presto per cantare vittoria, pensavamo noi.

La prima notte che la cuccioletta trascorse in casa nostra fu memorabile. Tutti credevamo che avrebbe sofferto per la lontananza dalla madre e dai fratelli. Ciò ci tenne all’erta. Stabilimmo dei turni di guardia per non lasciarla mai sola. Alle mie figlie toccò il primo turno.
Mia moglie e io, per fare in modo che avvertissero la responsabilità della loro scelta, fingemmo di essere presi da un forte attacco di sonno e ci ritirammo nella nostra camera da letto. Senza dormire, ovviamente, ma interrogandoci se avessimo compiuto il passo giusto.
Le voci di Toni e Lila rimbalzarono allegre sino alle due, in coro con il latrare di Ira; poi, tutt’a un tratto, fu silenzio. Mi alzai cautamente, cercando di non far rumore, e andai in soggiorno. Erano tutte tre tranquillamente addormentate sul divano. Ira russava con la testolina in grembo a Toni e il treno posteriore sulle gambe di Lila. Presi un plaid e le coprii, poi rassicurai mia moglie. Ci svegliammo al suono del latrare della cagnetta.
L’inquilina del piano di sopra batté con forza sul pavimento perché chiedeva il silenzio.
Guardai l’orologio: erano le otto del mattino.
L’ignorai.
Il battere sul pavimento della signora Garofalo ha accompagnato più di un decennio della nostra vita.
Questa donna malvagia, che più volte ha tentato di avvelenare i miei cani, era un bieco essere senza cultura; non della cultura che si affina sui libri, che manco aveva, ma di quella del vivere. Era priva di sensibilità, caratterialmente “acida”, interiormente vecchia, nonostante usasse un trucco da ragazzina che la imbruttiva e invecchiava ancor più. Non provava alcun amore verso gli animali e ciabattava per tutta la giornata nel suo appartamento, mettendo fuori il naso solo per inveire contro il nostro cucciolo o per recarsi a imbonire il vicinato con la sua voce stridula e acida, per invogliarlo ad acquistare alcuni prodotti per uso domestico che lei vendeva casa per casa. Un giorno, forse ubriaca, mandò con determinazione la sua auto a sbattere contro un gigantesco pastore maremmano.
Del cane, purtroppo, non abbiamo mai avuto notizie. Della signora Garofalo, sì. Riportò varie ferite sul volto e sulle gambe, che le lasciarono segni indelebili, deturpandole, se fosse possibile, ancor più il tristo aspetto da vecchia malvissuta. A volte avrei voluto chiederle cosa l’avesse resa talmente arida.
Al contrario accadde l’impensabile per l’allergia di mia figlia. Toni non solo non aggravò la sintomatologia, quanto, col passare dei mesi, migliorò la sua patologia a tal punto da non risentirne quasi del tutto.
Ira divenne il quinto membro effettivo della nostra famiglia, amata e coccolata da tutti grazie non solo alla funzione terapeutica che aveva assolto in brevissimo tempo, ma anche all’amore incondizionato che ci ha dedicato per tutta la sua breve vita.

Tratto da Ouzo e io di Natalino Lattanzi

lunedì 21 aprile 2008

Poesie per caso

BUIO
Le ombre si sono nascoste.
E’ notte.
Silenzio nell’aria; lontano la luna.
Amare nel buio…
Morire nel buio piangendo da solo,
sognando la vita sciupata per nulla.
La Fine, nascosta nel telo
Che toglie la Luce,
attende paziente mostrando la falce.
Pensieri nel buio.
Tristi passioni celate ai miei occhi
Risorgono insane a bandire la pace.
E il canto del lupo…
La vecchia che veglia e muove una culla
Stonando una nenia…
Il verso del gufo presago di mali…
Passa una stella; un muto pensiero;
una prece indistinta nel vento.
Torna con l’alba la gioia.
La vita appare più bella.


tratte da Poesie per caso di Natalino Lattanzi

domenica 20 aprile 2008

Foto di Bari





uno squarcio della marina di Bari

Foto di Bari







Si Vive di Solo Pane

MINCHIUZZI ALLA RISCOSSA
Appena laureato, con centodieci e lode, il figlio di Colabrisi, Artemisio, fece il suo ingresso nel “Benpensante”.
Era certamente una clonazione del padre: stessa statura, stessi capelli, stessi occhi, stessa pancia, stessa flatulenza, stesso cappellaccio, stesso sigaro puzzolente.
A suo dire aveva trent’anni, ma ne dimostrava settanta.
Ci venne il sospetto che fosse proprio lui, il vecchio Colabrisi, a ripresentarsi a scuola sotto altra veste, ma il preside ci confermò, con tanto di timbro del Ministero, che si trattava del giovane Colabrisi, laureato anch’egli in Genetica Umana.
Poiché non ce ne fregava più di tanto, prendemmo per buone le dichiarazioni del preside e ci occupammo, ciascuno, dei casi propri.
Avvenne, però, che proprio Artemisio cominciasse a cacciare il naso in faccende non di sua pertinenza.
Forte della fama e del nuovo potere del padre, entrava nelle classi senza bussare e lasciando un alone non proprio profumato, che persisteva per ore, ci costringeva, anche nelle giornate più rigide, a tenere le finestre ben aperte.
Come se non bastasse, pretendeva di ripeterci all’infinito la scoperta dell’Homosex, sottolineando l’inutilità di noi docenti di discipline diverse dalla sua che, secondo lui, non apportavamo alcun beneficio alla cultura e alla scienza; ciononostante il suo vero obiettivo era sottolineare la pochezza e l’ottusità del collega Minchiuzzi.
I primi tempi, per cortesia, lo mandavamo a fare in culo delicatamente, con olio di vaselina, direi, ma quando ci ebbe riempito le palle al punto tale da dover ricorrere a sussidi farmacologici per non dare in escandescenze, decidemmo che era tempo di metterlo a tacere in modo definitivo.
Il buon Minchiuzzi, sempre più incazzato, si era parzialmente consolato facendosi nominare rappresentante sindacale, ma conservava nell’animo lo spirito di rivincita verso il vecchio collega e suo figlio. Notte e giorno, chino sui testi di genetica, sulle riviste scientifiche inglesi, americane e del Bangladesh, rovistava, scavava alla ricerca del dato importante, sfuggito all’analisi degli uomini di scienza, che avrebbe potuto sovvertire le teorie colabrisiane.
I suoi sforzi sembravano destinati al fallimento, poiché ormai le teorie evoluzionistiche ponevano Carino a capostipite della razza umana, relegando Adamo ed Eva ad un ruolo secondario, fattori squisitamente provvidenziali della robotica divina, umanizzata dal figlio fratricida.
Ma erano veramente di Carino i resti trovati nel suolo sottostante lo scantinato del vecchio Colabrisi? l’istoriazione era postuma o contemporanea alla vita del figlio di Adamo? Abele fu davvero lo stupratore del fratello o era mezzo finocchio anche lui?
Questi interrogativi ponevano una serie di problemi quali la vera funzione dello scimmione inventore dell’intruglio afrodisiaco, la pruriginosità delle gorilla, la comparsa dell’homo erectus (o cum erectione?) e non della foemina erecta, i pigmei in Africa e non solo a Lilliput, i profilattici ai militari, la pillola alle minorenni, la protesi agli eunuchi, l’acne sul volto degli adolescenti, i ribaltoni dei governi, la recessione economica, ecc...ecc...
Beh, su questi enigmi ponemmo la nostra attenzione.
Durante le ore di buco, a turno, a gruppi di tre docenti per volta, cominciammo a frequentare la biblioteca.
La nostra biblioteca è un antro buio, una catacomba scavata nelle fondamenta dell’edificio in cui lavoriamo, abitata da topi e da spettri: tetra e inaccessibile come quella descritta nel romanzo “Il nome della rosa”.
Libri polverosi e mai utilizzati si mescolano a residui di amianto e sterco di ratti, a liquami di fogna e ad avanzi di colazioni studentesche, a mozziconi di spinelli e a involucri di patatine, lasciando sulle mani degli utenti un che di untuoso e puzzolente.
Queste ed altre difficoltà, non ultima l’ostracismo della bibliotecaria, limitarono il nostro impegno a poche sedute settimanali.
Rosmunda Plasmatti, la nostra bibliotecaria, donna un tempo bellissima, ora non male, sosia di una delle più spregevoli figure femminili disegnate da Walter Disney, Crudelia Demon appunto, era, infatti, gelosissima dei segreti che custodisce nell’antro. Si dice che un giorno vi abbia condotto il marito e che ne sia uscita da sola, con le pupille dilatate, ridendo sguaiatamente e con le mani grondanti sangue. Interrogata dal maresciallo dei Carabinieri circa la sorte del coniuge e le evidenti tracce di sangue sulle vesti e sulle mani, si giustificò dicendo di aver sgozzato un pollo ruspante che il consorte, di cui non s’è saputo più nulla, le aveva portato perché lo apparecchiasse per il pranzo. Il sopraluogo effettuato dal magistrato, dott. Meno Mato, archiviò definitivamente il caso non essendo stata trovata traccia alcuna di Remo Quirino, marito di Rosmunda, ma solo topi grossi quanto cani danesi, famelici e aggressivi.
Noi, imbevuti di cultura, ricordando perfettamente la fine di Remo e la sorte di Quirino, pensiamo che il pover’uomo sia stato fatto fuori dalla moglie, divorato dai topi e asceso in cielo.
Ciò nonostante, armati non solo di coraggio, ma anche di coltelli, temperini, taglierini e temperamatite, osammo attraversare la soglia della biblioteca alla “ricerca del tempo perduto”.
Vecchie Bibbie, lasciate da docenti di religione, quando ancora si studiava nelle scuole, giacevano abbandonate in un angolo, semiaperte e sepolte sotto uno strato di polvere, mentre uno stuolo di acari bivaccavano gustandosi il passo della mela, il frutto proibito offerto da Eva a Adamo.
Ci sembrò un segno del destino!
Sin da ragazzini abbiamo sentito dire dai nostri genitori che “una mela al giorno toglie il medico di torno”; come poteva essere, dunque, che Dio avesse punito le sue creature per aver preferito curarsi da soli piuttosto che ricorrere alla mala sanità pubblica?
“Il peccato originale!”- gridò, trionfante, Minchiuzzi, togliendosi gli occhialini dal naso e starnutendo per un bolo di polvere che si era sollevato al suo urlo, dal vecchio testo che consultava.
Gli acari, in barba alla teoria che li vuole microscopici, lunghi quasi due centimetri, s’intrufolarono tra i baffi del nostro collega, facendoli agitare freneticamente, rizzare, decrescere, sino a scomparire, poi, fagocitati da quelle belve fameliche.
Minchiuzzi non vi fece caso, neppure vi badò quando gli acari attaccarono il parrucchino, riducendolo in pochi secondi ad un mucchietto di polvere, tanto era eccitato dall’intuizione.
La maggior parte di noi, in verità, pensò che avesse scoperto l’acqua calda, ma dovette ricredersi quando il genetico continuò a spiegare la sua teoria.
“Dio- ci spiegò Minchiuzzi, mentre la biblioteca si animava, si affollava di docenti, alunni, bidelli, la cagnetta Rosina, personale A.T.A. e preside, richiamati dal suo urlo possente- dopo aver creato Adamo, pensò bene di dargli compagnia: non Eva, che fu solo un caso, ma un altro essere del tutto uguale al primo!
Badate bene, quindi, un compagno, non una compagna!
La sua intenzione, infatti, era di non far soffrire di solitudine il povero Adamo.
Come tutti i geni, Dio è un distrattone di prima fatta: dimenticò l’incantesimo che aveva utilizzato per generare il primo uomo e non potendo seguire la stessa procedura della prima volta, decise di creare il nuovo individuo da una costola del precedente, facendo affidamento sulla sua infallibilità.
E qui casca l’asino! Fu un errore, infatti!
Si accorse, man mano che il prodotto prendeva forma, che al nuovo essere mancava qualcosa, che so… che il suo cavallo era spoglio… e corse ai ripari.
Ripassò nella mente diabolica (si fa per dire) tutta la dotazione di cui era fornito il primo umano, ricordò ciò che mancava e lo appioppò alla nuova creatura.
Doppio errore! Non solo non confezionò tutto l’occorrente, ma addirittura creò due palle enormi che procurarono al povero essere un fastidio terribile nella deambulazione.
Pensò bene, allora, ammettendo onestamente il proprio errore, di cambiarle di posto... e scelse il petto. Venne fuori il famoso seno a balconcino, oggi tanto sponsorizzato dalle TV.
In un’ultima revisione veloce si ricordò del pene.
Provate un po’ad immaginare con me cosa avvenne quando tentò di mettere a posto il fallo...
Una cosa è certa: combinò un casino tale nella pancia, per cui, prova e riprova invece del membro maschile, venne fuori l’utero.
Così, casualmente, creò la donna e se ne andò, immagino, tutto fiero della nuova invenzione.
I guai arrivarono dopo...
Probabilmente, se solo avesse immaginato quante responsabilità, quanti tormenti era lì lì per appioppare ai due disgraziati esseri, non avrebbe mai strappato la costola del povero Adamo.
Nel tentativo di rabberciare il nuovo umano non pensò che le due pere appese in petto e l’utero nella pancia avrebbero dato luogo a sensazioni strane nella coppia, alla nascita della sensualità, della sessualità e del piacere.
Si, amici miei, il piacere!… questa fu la vera rivoluzione!
E’ inutile nascondersi dietro un dito, è inutile affermare, come fanno il bigottismo clericale e il radicalismo femminista, che il maschio, e solo lui, ha voluto impostare la vita sulla ricerca del piacere, che il sesso sia l’unica cosa che conti per lui. E’ stato Dio che, per caso o per volontà, ha dato questo contentino a questa povera umanità distrutta dal dolore, dalle guerre, dalla morte, dall’affanno di dover cercare di sbarcare il lunario tutti i giorni, di dover sopportare le angherie quotidiane del capo ufficio, della moglie o del marito, dei figli, dei genitori e dei suoceri. E’ stato Dio che ha voluto lasciare, in questa valle di lacrime, qualcosa che potesse, alla fine della giornata, sotto le coltri, riavvicinare i due sessi in eterno conflitto tra loro, inventando le carezze, i baci, le parole dolci ed erotiche, i sussurri e la dolcezza… l'amore!
Il piacere, signori miei, è la vera grande invenzione di Dio, o della Natura, se volete, ed è inutile nascondersi dietro la pudicizia, è inutile creare tabù che l’Onnipotente non ha voluto”.
Come gli apprendisti, muti, estasiati dalla sua perizia circondano il fine tessitore, per spiarne le mosse, le rapide riprese, al fine di imprimerle nella mente ed emularle, così noi, in religioso silenzio, assediammo Minchiuzzi, rapiti dalle sue parole, pronti ad aiutarlo nell’immane impresa della ricerca.
“Per tornare a bomba – riprese con sicurezza Egidio, fiero dell’interesse suscitato, - la comparsa della donna sviluppò l’impulso sessuale, che si manifestò così prepotentemente da spingere, poi, il maschio ad unirsi in modo carnale alla femmina.
Ciò non avvenne subito, se le Scritture non mentono.
Eva vagava nel giardino dell’Eden senza meta; guardava, languida, gli alberi e sentiva sorgere in sé un desiderio tutto nuovo. Spesso si abbracciava alla loro corteccia e li leccava, mentre le sue tette premevano sul tronco.
Nacque così la prima ninfomane che la storia del mondo annoveri”.
Un primo moto di disappunto si avvertì nell’aria: un brontolio sordo, come un tuono lontano, pronto a far sentire lo schiocco del lampo.
Istintivamente l’assemblea si divise in gineceo e androceo.
La cosa non sconvolse il genetico, che continuò spavaldamente:
“La vista di tutti gli altri animali del creato che si accoppiavano accrebbe in lei il desiderio e la spinse a cercare di avvicinare tori, cammelli ed elefanti, certamente i più corteggiati per le lunghe e robuste dimensioni della proboscide… ma invano.
Per analogia rivolse la sua attenzione al serpente, che la rifiutò sprezzante dopo averla eccitata “serpeggiandole” fra le cosce.
Il serpente, signori miei, non la mela fu l’inconsapevole strumento della perdizione !...
Eva, umiliata dall’insuccesso con la bestia più repellente del creato, da quel momento nutrì un odio terribile ed eterno nei suoi confronti, che poi ha trasmesso in eredità a tutto il genere femminile, pur riconoscendo all’immonda bestiaccia il merito di averle provocato il primo orgasmo, di averla iniziata al piacere.
Non sapendo più a chi rivolgersi, disperata, si lasciò cadere piangente in un cespuglio. Lo scroscio di un torrentello attirò la sua attenzione, ma per quanto cercasse non scorse alcun corso d’acqua, ma solo un rigagnolo maleodorante che correva verso un rosso papavero. Fu così che scoprì il sesso di Adamo, l’unico disoccupato, disponibile e per certi versi simile al “biscione”. Da quel momento la propaggine dell’umano divenne l’oggetto dei suoi desideri.
Però, a vederlo lì, ciondoloni, inutile, inefficiente, la primigenia fu presa da sconforto.
Un giorno, assatanata più del solito, non ne poté più: preso il suo timido compagno per mano, lo trascinò sotto l’albero delle mele e gli offrì da succhiare non il pomo, che più tardi tradì la povera Biancaneve, ma una delle sue stupende tette, turgide e sode come il frutto.
Adamo non si accorse subito dello scambio ma, non appena avvicinò le sue labbra a “quel ben di Dio”, ne fu inebriato e precipitò nel peccato originale con la sua compagna che, felice, aveva raggiunto il suo scopo, o, se preferite, la sua scopata”.
Restammo tutti sbigottiti di fronte alla rivisitazione della Bibbia operata del buon Egidio. Nessuno ebbe il coraggio di proferire parola o di scaldarsi nel furioso battimani che aveva confortato, a suo tempo, il vecchio Colabrisi, anche se tutto ciò che aveva dedotto Minchiuzzi ci sembrava non paradossale, ma, addirittura, per certi versi condivisibile.
Le femmine bigotte del nostro istituto, colpite dalla blasfemità del Minchiuzzi pensiero, piangevano e ripetevano a memoria il segno della croce, pregavano in silenzio “snocciolando il rosario”e guardavano con disprezzo l’accusatore della loro progenitrice; le virago, al contrario, ghignavano mostrando il medio e portandosi la mano sinistra sul braccio destro teso col pugno in avanti.
Ma il fermento era nell’aria: dalle preghiere sommesse, dai lamenti soffocati, dalle lacrime silenziose e dai gesti evidenti si giunse in un attimo alla contestazione vibrante, sonora, pregna di sdegno, materializzata dal lancio di libri e monetine sul povero Minchiuzzi.
“Ma dove cacchio hai trovato tutte queste cazzate?”- chiese rabbiosamente Elsa Boncognati, docente di francese, supplente della supplente della titolare di cattedra in permesso per maternità a rischio.
“Scripta manent!”- sentenziò gravemente Egidio, indicando un antico libro gruvierato, sbocconcellato da qualche roditore miope e affamato.
Il grido di Marzia Pannellini che incitava alla battaglia “l’utero è mio e lo gestisco io”, richiamando le donne ai vecchi valori del femminismo, s’infranse, però, contro l’ondata dei topi che, risvegliati dal clamore, caricarono l’assemblea.
Le urla di terrore sostituirono quelle accusatorie, mentre si tentavano fughe precipitose in cerca di una via di scampo.
Ad un tratto Rosmunda Plasmatti, che dormicchiava seduta alla sua scrivania, risvegliata dal casino infernale che si era scatenato, resasi conto della situazione, balzò in piedi e, agitando nell’aria un frustino, in tedesco ordinò ai topi di fermarsi.
Il suo “sitz!” echeggiò per tutta la caverna, si diffuse per le scale e i corridoi, raggiunse il terrazzo e salì al cielo.
L’orda dei topi si arrestò d’incanto: le bestie, agitando il loro codino, si accucciarono sul pavimento lurido e umido in attesa di ulteriori ordini.
Rosmunda, allora, accarezzando i primi della fila sulla ributtante testolina (si fa per dire!), concesse alle bestiacce di tornare nelle loro tane.
Ordinati come truppe germaniche, i topi, scodinzolando e squittendo, pian piano, a manipoli di cinque per volta, scomparvero nei buchi neri e profondi che costellano la biblioteca.
Tornata la calma, Minchiuzzi rivolse alle colleghe un accorato invito alla pace, dicendo che se in apparenza, secondo la sua teoria, le responsabilità maggiori del peccato originale ricadevano sul sesso femminile, come pure affermavano le Sacre Scritture, l’uomo aveva le sue brave responsabilità, avendo ceduto lo scettro del comando nelle mani della donna nello stesso momento in cui aveva passivamente (si fa per dire) soggiaciuto o sopraggiaciuto alla passione. Dio era il complice che aveva avuto la sua brava parte di responsabilità, incorrendo nell’errore, mai corretto, della creazione di due sessi contrari ed opposti, ma che, come recita la Fisica, sono destinati ad attrarsi all’infinito.
Ciò, per Minchiuzzi, affermava la superiorità delle femmine e il “babbisciottismo”(metaforicamente per stronzaggine) dei maschi, da sempre schiavi della farfallina e dei favori femminili.
Questa giustificazione rabbonì Marzia che convinse il gineceo a desistere da ulteriori proteste.
Minchiuzzi, però, non era ancora soddisfatto; voleva, come l’ex collega Colabrisi, estendere al mondo intero la sua teoria e sapeva bene che senza prove le sue conclusioni non sarebbero mai state prese in considerazione.
La biblioteca divenne la sua casa, i topi i suoi migliori amici, la bibliotecaria, dicono le “malelingue”, la sua amante.
Stranamente, infatti, Rosmunda aveva ripreso a pettinare i neri capelli corvini, a coprire le labbra di un rossetto color melanzana, a laccarsi le unghie, a profumarsi di “Erotica 6”, a depilarsi le gambe, a stirarsi gonne e camicette, a non usare più slip e reggiseno.
Più di uno di noi invidiò Minchiuzzi, chiedendosi quale carisma possedesse per operare una simile trasformazione.
Bah!… misteri della vita…
Minchiuzzi dimagriva a vista d’occhio ma sembrava felice, poiché, diceva, era prossimo alla soluzione del problema.
Un giorno si presentò in Istituto con un fascicolo voluminoso, aria concitata e tremito alle mani: “alea iacta est!” disse quando venne fuori, tutto raggiante, dalla presidenza, in cui s’intravedeva Porfido, col capo accasciato sulla scrivania, singhiozzante e distrutto.
A grandi falcate valicò le scale, s’intrufolò nei corridoi, annusò l’aria e si diresse verso la stanza blindata dei computers.
Non ebbe bisogno di alcun aiuto, invasato com’era, quando avviò la comunicazione Internet. In pochi secondi, battendo vigorosamente sulla tastiera, Egidio inviò il suo messaggio a tutto il mondo.
Il Fax della presidenza partorì una sola risposta.
“Il professor Minchiuzzi, propugnando dettati contrari alle Sacre Scritture, è autore di Eresia, per cui - recitava asetticamente la copia della Bolla pontificia- deve ritenersi scomunicato “ab aeternum”.
Pochi giorni dopo Egidio si convertì alla religione dell’Islam.
Noi non abbiamo mai saputo cosa fosse scritto in quelle numerose cartelle, né abbiamo osato indagare, anche se qualcuno dice, fra il serio e il faceto, che Minchiuzzi abbia scoperto “il terzo mistero” di Fatima.

tratto da Si Vive di Solo Pane di Natalino Lattanzi

venerdì 11 aprile 2008

SI VIVE DI SOLO PANE_1

PROLOGO
… ET DIVISERUNT SPOLIA SUA
All’inizio di ogni anno, il preside (chiunque egli sia… si passano parola), con il più ampio sorriso sulle labbra (ormai è un rito), mi conferisce l’ingrato compito di redigere l’orario curricolare delle lezioni raccomandandomi di distribuire a tutti i docenti buchi “ad abundantiam” per le eventuali supplenze.Con la morte nel cuore, sapendo ciò che mi attende, m’impossesso della scrivania della presidenza e nomino piantone Meliogabalo, l’erculeo addetto alla sorveglianza, mio assiduo socio nel gioco del totocalcio. Primo (è il suo nome di battesimo), digrignando i denti, con la sua eterna “piega amara” scolpita sul viso e un manganello sottratto ad un poliziotto che, tempo fa, aveva chiesto di usufruire urgentemente di un nostro bagno, intima a chiunque, compreso il capo d’Istituto, di non rompermi le scatole.Non appena mi seggo al tavolo di lavoro, ordino un espressino e passo in rassegna i volti dei miei colleghi con la ferma volontà di agevolare innanzi tutto me stesso e gli amici di ambedue i sessi (Estroverso, Minchiuzzi, Semprevergine, Ognimmorti) e poi quelli che mi sono meno antipatici tra i maschi (Maipago e Orsobruni) e le più piacevolmente dotate fra le femmine (la prima è la Bonelli).Scorrendo la bozza della mia opera immagino sorrisi di gratitudine e dimostrazioni di simpatia; perciò, rinfrancato, mi accingo a formulare l’impegno giornaliero degli altri colleghi. Man mano che sviluppo il quadro completo, mi accorgo che per far quadrare le ore curricolari è necessario, sempre, operare degli spostamenti strategici, quindi muovo le mie pedine così come faceva Napoleone sul campo di battaglia.Alla fine l’orario è pronto, ma il mio e quello dei miei amici sono i più “bucati”.Non appena mi accorgo dell’errore cerco di porvi rimedio, ma, gira e rigira, lo peggioro ancor più. Disperato corro in segreteria per munirmi di un altro “tabellone ”su cui ricominciare tutto e con gomma e matita riprovo, a casa. Dopo tre o quattro tentativi, che mi portano via ore di sonno e di tranquillità domestica, immancabilmente, il preside di turno, scocciato dalle suppliche che gli giungono da ogni parte, m’impone di consegnargli quello già pronto e indice il Collegio dei Docenti per la ratifica. In quella sede mi accade di tutto: alcuni vorrebbero abbracciarmi, i più massacrarmi; mi si urlano in faccia gli epiteti peggiori (forcaiolo, venduto, servo della gleba, figlio di buona donna, senza palle ecc...), mi si fa cenno con le mani a due parentesi tonde, mi si dà appuntamento fuori dell’Istituto per farmi il “maquillage” e altro che non sto a dire, mentre gli amici diventano nemici e viceversa.La mia segreta speranza, sempre vanificata, è che giunga un nuovo docente con tanto di palle quadrate, desideroso di acquisire notorietà attraverso la stesura dell’orario scolastico.Confortato da questa speranza, riesco, puntualmente, a presentarmi davanti ai cancelli del “Benpensante”.Il primo settembre, come tutti gli anni, ero lì…
tratto da Homosex - Si vive di solo pane di Natalino Lattanzi

martedì 8 aprile 2008

SI VIVE DI SOLO PANE_2

COGITO… ERGO SUM
Il marciapiede antistante il nostro Istituto brulicava di docenti di ogni sesso e di ogni età, che blaterando, ridendo e vociando le solite sciocchezze che si dicono sull’utilità e brevità delle ferie, si ammassava nei pressi del cancello che, stranamente, alle otto e trenta, era ancora chiuso.
Il personale addetto alla vigilanza non era presente; Rosina, la cagnetta meticcia che aggredisce coloro che si abbigliano in verde (è un’antibossiana convinta), raspava contro le sbarre del cancello, dall’interno del cortile, poiché aveva individuato il docente di Educazione Fisica, Semprevergine, con indosso un appariscente giubbotto verde pisello e smaniava dal desiderio di saltargli addosso.
Il vicepreside, Antonio Maipago, alto due metri e sottile come un filo di ragnatela, di solito munito delle chiavi del “paradiso”, lamentava con la bellissima segretaria, Lucidia Lestofanti, elegantissima, al solito, di aver dimenticato i contenitori delle liquirizie e dei profilattici, che ha sempre con sé, ma non si decideva ad accostarsi ai catenacci.
Dopo circa mezz’ora d’attesa cominciammo a rumoreggiare, anche perché stava trascorrendo vanamente il tempo che di solito utilizziamo per il caffè.
Minchiuzzi, anziano collega di Genetica Umana, era l’unico a non lamentarsi, anzi ci rincuorava, si accostava di volta in volta presso ciascuno di noi, sfoggiando il nuovo colore dei capelli del suo parrucchino rosso pervinca e si pavoneggiava nella sua sahariana color Sahara. Di tanto in tanto tirava una boccata dalla pipa, tipo On. Marini. Dando poi ad intenderci, pensava lui, di spazzolarsi i calzoni alla cacciatore, si specchiava nei suoi mocassini di vernice gialla nuovi di zecca.
Era per noi uno spettacolo insolito; lo avevamo sempre visto con lo stesso abito liso, di un blu stantio, forse un tempo rigato, le scarpe nere da marmittone, una camicia smerlata, bianca, ingiallita dalla vetusta età e dalla mancanza d’igiene e un papillon rosso deformato e macchiato.
In particolare si soffermava nei pressi dei “volti nuovi” che, come ogni anno, stanno ad indicare il pensionamento di qualche vecchio collega o la sostituzione, per trasferimento ad altra sede, di qualcuno di noi, stanco del clima che agita il nostro Istituto, il “Benpensante”.
Gianni Estroverso, collega di chimica e amico da sempre (che tutti chiamiamo don Giovanni, per la facilità con cui riesce a farsi mandare a fare in culo, quando abborda una qualsiasi delle donne che popolano la nostra scuola), ed io notammo che Minchiuzzi, di solito attaccato alle nostre chiappe, non appena riusciva ad avviare il benché minimo approccio, tirava fuori da uno dei tasconi della giacca un blocchetto, strappava un foglio e lo porgeva al suo interlocutore, ricevendo, in cambio, sperticati ringraziamenti e strette di mano.
La faccenda c’incuriosì.
Continuando a passeggiare, discutendo del meno più che del più, con non chalance gli si avvicinammo e spiammo le sue mosse.
Una collega, giovanissima, biondissima, pallidissima, magrissima, con le gambe che parevano due Würstel scottati, tutta tesa nell’affannoso tentativo di rompere il ghiaccio e di inserirsi educatamente nel contesto del “Benpensante”, timidamente cercava di avviare una conversazione con una prof. grassottella, rossa di capelli, di gote, di labbra e di vestimenti, anche lei a noi sconosciuta.
Non appena a tiro del buon Minchiuzzi, fu abbordata con un gran sorriso e una stretta di mano cameratesca. Subito dopo il buon Egidio, nome di battesimo del collega di Genetica, tirò fuori il famigerato blocchetto da cui strappò uno dei tanti strani foglietti e lo consegnò a Geltrude (questo il nome della pallida collega): “La sventurata rispose”, direbbe il Manzoni buon’anima.
Non appena la collega si rese conto di cosa avesse avuto, con gli occhi che le lucevano per la gioia, ringraziò Egidio e lo abbracciò.
S’innescò, quindi, un meccanismo perverso che coinvolse, pian piano, tutto il corpo docente, il personale A.T.A. e persino qualche operatore ecologico che, stranamente, stava ripulendo il marciapiedi antistante la scuola dalla montagna di rifiuti accumulatasi nel corso dei mesi estivi.
Vecchi e nuovi docenti si affollarono intorno a Minchiuzzi, che distribuiva affannosamente foglietti verdi, rossi e gialli con tanta magnanimità da spingere anche coloro che non erano mai stati del suo partito a profondersi in ringraziamenti e a magnificarlo, untuosamente, con lodi esagerate.
Capitò anche tra le mie mani uno dei misteriosi foglietti (Minchiuzzi me lo passò velocemente con una strizzatina d’occhi). Non appena ebbi la possibilità di leggerlo, dopo averlo difeso strenuamente dall’assalto di cinque colleghi e tre applicati di segreteria, lanciando pugni e calci e tirando fuori il temperino che porto sempre con me, con un urlo alla Tarzan, mi lanciai nel groviglio umano che circondava Egidio.
Il poverino, quasi a secco di foglietti, si difendeva dall’assalto giurando che l’indomani ne avrebbe portati più ancora, di altri colori, e implorava che non gli tirassero la giacca, che non gli si aggrappassero ai pantaloni, che non gli mettessero le mani in saccoccia: via, che lo lasciassero in pace!
Certamente pentito della sua iniziativa, cercò scampo nella vecchia “seicento” color sterco di canguro diabetico, venato di verde, che lo scarrozza da circa trent’anni.
I più scalmanati, però, lo inseguirono, circondarono la vettura e cominciarono a farla ondeggiare tra cori osceni e fischi, dapprima lentamente, poi sempre più velocemente.
Minchiuzzi, con gli occhi sbarrati, pieni di terrore, pregava che lo lasciassero andare, prometteva balle di fogli variopinti a tutti e regali consistenti per chi lo aiutasse a togliersi da quel pasticciaccio.
Sotto una spinta più forte la “600” cigolò, singhiozzò, mandò fuori tutti i liquidi in sua dotazione e si capovolse.
Egidio si ritrovò a testa in giù, con la sahariana che gli copriva il volto e impediva a noi di apprezzare la paura, il dolore e l’odio che trasudava il nostro collega.
Alle sue urla disperate fece eco la sirena del “113”.
Una “volante” della polizia frenò alla disperata e speronò ciò che restava della “seicento”, facendola capovolgere nuovamente e spingendola contro il cancello dell’istituto che, come nella favola di “Alibabà e i quaranta ladroni”, schiuse i suoi battenti.
Infischiandoci di quanto stava accadendo e dimenticando il povero Minchiuzzi, come un sol uomo attraversammo il cortile.
La porta a vetri che introduce all’interno della scuola era fortunatamente aperta per cui, senza fatica, raggiungemmo la “sala professori” e occupammo ciascuno i propri scranni. I nuovi occuparono i posti vuoti.
Completamente dimentichi di quanto era avvenuto poc’anzi, discutevamo piacevolmente dei nostri casi, quando la sala fu invasa da cinque poliziotti e quattro carabinieri.
Con sguardo truce e voce arrogante chiesero i nomi di tutti, li appuntarono sui loro taccuini, ci voltarono le spalle e andarono via.
A quel punto cominciammo a preoccuparci e a chiederci che fine avesse fatto Egidio. Non vedendolo arrivare, “alla spicciolata” uscimmo dall’Istituto e attraversammo il cortile.
Minchiuzzi era lì, accoccolato sul marciapiedi, che piangeva di rabbia raccogliendo i suoi preziosi foglietti gialli, verdi e rossi, sparsi dappertutto.
Gianni ed io lo aiutammo a rimettersi in verticale e mentre gli spazzolavamo con frenetiche pacche la sahariana, inavvertitamente facemmo cadere dalla tasca interna della giacca un fascio dei famigerati foglietti.
Una folata di vento fece il resto.


I PRIMI SARANNO GLI ULTIMI




Il nostro bar, dovete sapere, è rinomato in tutta la città per il gestore che, ovviamente, lo gestisce: Leonzio, ovvero il gobbo di “Notre Dame”, come lo chiamiamo noi.
Ci è affezionatissimo, ci fa sconti anche sull’acqua di rubinetto (solo cinquecento lire il bicchiere), è pronto a procurarci di tutto, dalle sigarette di contrabbando ai filmini pornografici, alle pistole e ai bazooka; non vende droga per principio: si farebbe “pere” giorno e notte. Sa tutto di tutti e ciò che non sa lo inventa. E’ gobbo, basso, scurissimo di carnagione, di baffi e di barba, veste di rosso e nero ed è tifoso del Milan. Nato a Siviglia, parla un linguaggio strano, che lui definisce “muquelas” e che ci traduce, quando lo ritiene opportuno, in dialetto sardo. Ci ha fregato su tutto sin quando non è giunto il bidello Elias Porcu, il quale gli si è associato con discreto profitto. Ora sono in due a fregarci.
Elias risponde pienamente al suo cognome: è alto due metri, bruno in tutto, un po’ perché così ha voluto madre natura, molto per sua scelta. E’ sporco come pochi ed emana un fetore che guai a trovarsi sottovento; veste alla marinai francesi, con pantaloni larghi e corti alle caviglie su dei sandalacci schifosi che porta in ogni stagione e una maglietta di cotone a strisce bianche (si fa per dire) e rosse, con maniche corte.
Leonzio, per fortuna, non c’era. Potemmo, così, forzare i lucchetti delle vetrinette e dei frigoriferi, per procedere al rinvigorimento nostro e del preside.
Niente da fare: Leonzio aveva portato tutto via; le bottiglie esposte in vetrina erano vuote, mentre nel frigorifero c’erano solo due ragnetti che si accoppiavano contorcendosi e tessendo la tela della loro alcova.
Sconsolati, ma solo per non aver potuto usufruire gratis delle consumazioni, tornammo dal capo d’istituto che, seduto su un vecchio sgabello, si teneva il capo, con la mano sulla fronte e il gomito sul ginocchio.
Sembrava invecchiato di cent’anni, con la barba ispida e il bavero della giacca alzato. I calzoni sgualciti e la camicia, senza cravatta, chiusa sul collo, gli stringeva la gola e lo riduceva al rango di povero mortale, come noi, che, per sua costrizione, lo veneravamo come un dio. Gli occhi semichiusi lasciavano trasparire due lacrimoni che lentamente gli scendevano lungo le gote, rallentando sui ciuffi più folti di barba e correndo veloci, una volta superato l’ostacolo, lungo i solchi profondi delle rughe.
Geltrude, desiderando accattivarsi la simpatia del preside, gli era accanto e cercava di consolarlo massaggiandogli le clavicole e sussurrandogli parole di conforto, ma senza risultato.
Il vice Maipago, a quel punto, prese in pugno la situazione e, mostrando una sicurezza che tira fuori solo quando deve appiopparci le supplenze, con voce forte, dette due pacchette sulla spalla del preside (a nostro beneficio, ma soprattutto di Minchiuzzi, il rivale, a mostrare quanta confidenza lo legasse al capo), e lo rincuorò: “Suvvia, solo alla morte non c’è rimedio!”
A quelle parole il preside scoppiò in un pianto dirotto, senza freni, incontenibile, straripante come i fiumi della Padania, quando vogliono fottere Bossi o il Governo.
“Solo alla morte non c’è rimedio? -singhiozzò il preside- Ma che sai tu che cacchio mi è accaduto... solo alla morte non c’è rimedio, dice questo stronzo.
Io ho perso tutto! (poi quasi sottovoce) non ho più niente…
Nel mese di luglio, quando ero qui a scuola, mentre voi ve la stavate grattando al mare, in montagna, ai laghi, chiesi a Leonzio di acquistarmi un “gratta e vinci”, così, per gioco. Quel figlio di puttana me ne rifilò subito uno che, a suo dire, aveva preso per sé. Pagai le due mila lire che mi chiedeva e mi chiusi in presidenza a sfogliare la margherita della fortuna: cazzo! Tre miliardi, diceva il biglietto... avevo vinto tre miliardi!”
Mentre parlava il pover’uomo si asciugava il sudore copioso che gli scendeva dalla fronte e faceva gesti sconsolati, agitando le mani freneticamente.
“Per la gioia – riprese dopo una breve pausa, passandosi la lingua sulle labbra aride- ululai come un lupo, corsi fuori della presidenza e baciai Rosina sul muso nero, chiamai Leonzio a gran voce e lo invitai a partecipare alla mia estasi, offrendogli il dieci per cento della vincita e un bitter al banco.
Leonzio dapprima sembrò amareggiato di avermi ceduto il biglietto, ma poi si consolò dicendomi che, comunque, aveva piacere che lo avessi preso io e non un altro. Telefonai immediatamente a mia moglie, che senza emozioni, mi chiese subito due pellicce e una villa al mare.
Non battei ciglio: mi attaccai al telefono e chiamai un ben noto presentatore televisivo affinché mi raccomandasse ai pellicciai che pubblicizza nelle sue trasmissioni. Mi mandò garbatamente a quel paese ma, quando seppe che avevo vinto tre miliardi, mi dette l’informazione che chiedevo, commentando: “Ora è dei nostri, eh? allegriaaa!”.
Subito dopo telefonai alla migliore agenzia immobiliare e prenotai, a scatola chiusa, la villa più bella che avessero. Preso da mania di grandezza, chiamai il segretario del ministro Merlinpace e gli dissi di riferire al suo capo che era un coglione e che mi dimettevo da preside, come specificai nel fax che inviai immediatamente.
Soddisfatto delle mie decisioni, mi precipitai dal rivenditore d’auto americane e acquistai la vettura dei miei sogni: una “Cadillac” gialla! Quando, tutto trionfante, tornai a casa, trovai mia moglie che mi aspettava col telefono tra le mani: Elias Porcu voleva parlarmi. Euforico come non mai, lo salutai con un “ciao, bello!”. Dall’altro capo del telefono, invece, mi rispose una voce impastata, stentata, intimidita e il suo “bbuonggiorno, pressidde” m’insospettì.
Tutto d’un fiato, poi, come per togliersi un macigno dallo stomaco, Porcu mi raccontò, in italo-sardo, che Leonzio aveva acquistato il biglietto del “gratta e vinci” da un distributore abusivo e sospettava che fosse contraffatto, falso.
“Falso?...” – gridai, stringendo la cornetta tanto da romperla. La comunicazione s’interruppe. Corsi all’altro telefono per richiamare il mio dipendente, ma inutilmente, la sua linea dava sempre il segnale di occupato.
Mia suocera, che abita da noi, fu la prima ad accorgersi del terribile stato d’animo che mi attanagliava e, come una Cassandra, quando raccontai tutto ai miei familiari, sentenziò: “sei stato preso per il culo...” Io, al contrario, non ero per nulla rassegnato, forse volevo illudermi, e mi misi alla caccia di Leonzio. Ma niente, scomparso, capite, scomparso era quel disgraziato!
Sebbene il sospetto si fosse insinuato ormai in me, andai in banca e depositai il biglietto, pregando il direttore di svolgere la pratica presso gli organi competenti.
Trascorsi due giorni d’inferno, poi, finalmente, il giorno successivo fui chiamato in banca per riscuotere la vincita.
Felice come non so dire cosa, beffeggiai mia suocera (stronzo!- mi aveva detto- non esiste un gratta e vinci da tre miliardi...), le dissi di cambiare aria, ché non sapevo che farmene della sua pensione di tre milioni mensili.
Fuori, ad aspettarmi, c’erano il direttore e una quindicina di agenti di polizia e della Guardia di Finanza.
Non appena fui a tiro, quattro agenti mi afferrarono per le braccia, gambe, collo e mi ammanettarono.
Non vi dico lo stupore, il dolore che provai; io, Pierpaolo de Fulgentiis, essere ammanettato così, per strada, alla presenza di tanta plebaglia che, incuriosita, mi accerchiava, domandava, ridacchiava non appena sapeva che ero un uomo di cultura, un manager nel mondo della scuola.
Fui malmenato, palpato e perquisito negli anfratti più reconditi del corpo, spinto in una vettura dei finanzieri e tradotto in una questura di periferia.
M'inchiodarono, mentre io protestavo a viva voce la mia innocenza, su una sedia sgangherata presso una scrivania vecchia e puzzolente, dietro la quale sedeva un commissario di polizia arcigno, strabico e armato di un manganello che batteva ripetutamente, con violenza, sul palmo della mano.
All’improvviso mi appiccicò sugli occhi una lampada da duemila Watt e mi bersagliò di domande su chi mi avesse dato quel biglietto, quando lo avessi avuto, se conoscessi “Ciccio il guercio”, di che famiglia mafiosa facessi parte, quanto mi fruttassero il toto nero, lo spaccio della droga, la tratta delle bianche e la prostituzione.
Un giovane magistrato che assisteva all’interrogatorio mi accusò di aver preso parte a tutte le stragi compiute nel Paese prima e dopo la seconda guerra mondiale; un altro, venuto per caso in questura, vedendomi affranto, con la barba non fatta, la camicia sbottonata e senza cravatta, m'imputò la diffusione di videocassette di contrabbando, il commercio di organi umani e mi tacciò di pedofilia...
Mi crocifissero –disse dopo una breve pausa, mentre si passava una mano tra i capelli improvvisamente ingrigiti.- Per fortuna- riprese immediatamente- Leonzio, rintracciato da mia moglie attraverso un boss mafioso suo amico, si presentò “spontaneamente” in caserma, con le due braccia ingessate e un'appariscente fasciatura al capo, e mi scagionò, assumendosi la responsabilità del biglietto della lotteria, e sostenendo che si era trattato di uno scherzo (ma che scherzo!) ai miei danni.
Ovviamente nessuno gli credette; ci furono indagini, altri interrogatori, minacce, diffide, ma, alla fine, il ventotto agosto mi lasciarono libero.
Non mi sono ancora ripreso da quella disavventura scioccante, da incubo! Sto cercando di correre ai ripari col Ministero della Pubblica Istruzione, anche se pare che non ci sia niente da fare: sono in quiescenza, senza stipendio per non raggiunti limiti d’età e di servizio!
Mia suocera, frattanto, ha fatto le valige ed è andata a convivere con l’avvocato che abita nella nostra stessa palazzina e che è un mio acerrimo nemico.
Sono disperato, rovinato! I miei debiti hanno raggiunto un tetto da modulo satellitare, mia moglie ha deciso di stabilirsi presso il boss suo amico, i miei figli fingono di non conoscermi...
Ho coinvolto tutte le amicizie importanti che credevo di avere ancora, ma niente... c’è un muro tra me e il mondo esterno” concluse l’ormai ex preside.
A quel punto Maipago e Geltrude si ritrassero dal diseredato e lo guardarono con commiserazione mista a ripugnanza e disprezzo, quasi fosse un appestato.
Il silenzio scese pesante come una balla di merda di vacca: ci guardavamo interrogandoci con gli occhi, senza sapere che fare e che dire.
Elias Porcu ci riportò alla realtà, con il suo solito rumoroso annunciarsi: “bbuonggiorno a tutti!- disse con voce ululante, mentre per la sua immensa presbiomiopia, mai corretta da alcun tipo di lenti, travolgeva docenti e sedie che intralciavano il suo cammino- hho fatto un incciddente, ma ssonno rriuscitto a schivvarre tre autto e ccinque ppeddoni!”.
La sua, infatti, è un’avventura quotidiana; non riusciremo mai a capire come faccia ad arrivare sano e salvo a scuola e a non investire i poveri disgraziati che sono sulla sua strada.
“E’ arrivvatto l’ispettorre centralle?- continuò, masticando una gomma americana- dovvevva esserre qui alle nnovve.”.
“L’ispettore centrale?- farfugliò con timore l’ex preside- a che fare?”
“E cche nne sso iio?- rispose Elias- ccossì hha detto al telleffono”- e si ritirò nel suo bugigattolo, lasciandoci tutti di stucco.
Il silenzio scese tra noi come due balle di cacca di elefante.



tratto da Homosex - Si vive di solo pane di Natalino Lattanzi

venerdì 4 aprile 2008

San Cedolino

San Cedolino

Era un giorno come un altro: cioè di merda.
L’ingresso dell’Istituto era come il solito affollato di studenti recalcitranti ad entrare, ma ansiosi di recarsi al bar per l’ennesima colazione.
Noi, i docenti, in attesa di accedere ai servizi di decenza per l’urlo della prostata che voleva prostrarsi; gli alunni sempre indecisi, ma in coda.
Se il bisogno urge, non c’è santo che tenga: devi entrare.
Per questo, l’androceo del “Fate presto Fratelli” caricò la schiera adolescenziale e, tra il belare pecorino, varcò la soglia del mercato usato della cultura usata.
Ancora una coda.
L’ingresso del bagno dei docenti androgeni fu coperto da una marea di toccomani che, muovendosi al ritmo della danza della pioggia, fischiettava le canzoni sconce degli anni della goliardia.
Ugo, che di solito va adagio, varcò per primo la soglia dei servizi igienici con un sospiro di soddisfazione.
Drago, il bide-llo (solo per restare in tema), ci soverchiò con la lingua infuocata e comunicò tra sputi e fiamme che nel gabbiotto erano a disposizione i cedolini.
Ce ne fregammo perché, com’è palese, avere il cedolino non significa mettersi in tasca la pecunia, ma solo un pezzo di carta che, per carità, può essere utile nei momenti di emergenza.
Ugo no! Lui è pignolo; conserva tutti i cedolini ricevuti da quando ha prestato giuramento nella Pubblica Istruzione.
Un giorno ce ne mostrò alcuni di prima dell’Unificazione, a cui rispondemmo con quelli della probabile disunione (vedi Bossi e &).
Ugo arrossa gli occhi pregustando il piacere di leggere le cifre stitiche e sempre uguali incise sulla carta computeristica del Mi(ni)stero del Tesoro. (Dove sarà mai?...)
Ugo umetta le dita e “trizia” la carta frusciante della busta strappata da cui lentamente fa emergere il suo cedolino.
Ripete l’operazione più volte per prolungare il piacere, quasi stesse spogliando la Canalis.
Ugo, quindi, con le mani ancora bagnate (non mi chiedete di cosa) venne fuori, canticchiando un vecchio motivo dello “Zecchino d’oro” Ho fatto la pipì, ho fatto la pipì papà.
Drago, poiché nessuno s’era avvicinato al gabbiotto per la prebenda, lo attendeva al varco.
In un batter d’occhi vi fu un passamani che manco Berlusconi quando si appropria dell’ennesimo canale (si sussurra che sia già proprietario della futura TV digitale universale in società col Padreterno).
Il cedolino, o la fascetta stipendiale, (è una questione di ermafroditismo, come la medaglia a due facce del collega di Fisica), era in evidente fase erettiva (anche questo è un indice, o forse medio, bisessuale), perché, birichino, sgusciò immediatamente dalla vagina, per catapultarsi, tuffarsi nella calda e umida mano di Ugo.
Mai a Gomorra fu raggiunta tanta estasi.
Ugo, che ben conosce l’arte degli amanuensi per lungo tirocinio in età pre e post adolescenziale, solleticò amorevolmente la carta tesoriale piegata in tre parti e lentamente, con l’occhio sempre più rosso, più languido, più smorto eiaculò un “settemilaottantanove” che fece girare di scatto tutti noi che ancora l’avevamo in mano.
Ugo sbiancò, inforcò gli occhialini da presbite (anche se si ostina a dire che è ipermetrope) e sbirciò e lesse e rilesse le cifre impresse sulla carta divina: set- te -mi -la –ot- tan- ta -no ve, alla fine sillabò tutto compreso.
Nessuno di noi voleva prestar fede a quella boutade, ma tutti sommergemmo Ugo e leggemmo.
Se-tte- mi-la-o-tt-an-tan-ove sillabò a sua volta il collega di ragioneria che non ha frequentato il liceo classico.
Ancora oggi il preside cerca Drago, si è persino rivolto a “Chi l’ha visto”, dopo che il povero bide-llo, spinto nel bagno, fu assalito da tutti noi novelli cercatori d’oro.
Il destino ha voluto spazzarlo, con il nostro ne ha estinto la specie, ha chiuso definitivamente la storiografia fabulistica del drago e la principessa, lasciando, forse, delle scorie nelle fogne del “Fate presto fratelli”.
Ogni frontiera ha i suoi martiri (sic o sig!).
Il sacrificio dell’ausiliario fu vano, purtroppo.
Non uno di noi visse la stessa lussuriosa avventura di Ugo.
I nostri cedolini furono sacrificati nel rogo mattutino del rito dell’accendino e tra volute di fumo sono saliti sino alle ampie narici della Moratti che batte mattutinamente le ampie sale dei ministeri col portafogli nella cerca affannosa di cospicui fondi per le scuole private.
Ugo fu invidiato, guardato in cagnesco, assalito e spogliato della busta paga che ora troneggia, con una lampada votiva, sulla parete maestra della sala docenti.
Ogni mattino, a turno, ciascuno di noi depone un mazzetto di fiori di campo sulla mensolina posta sotto l’icona e recita preghiere a San Cedolino.
Ma lui è una sfinge.

Tratto da Cronache di Scuola di Natalino lattanzi









































































































Alcune belle immagini del Borgo Antico scattate da me con una Nikon digitale