venerdì 18 luglio 2008

I gemelli

PARIDE DEGLI ALBALONGA

Seduto a capotavola, impettito e sicuro, Paride si alzò ed andò verso gli ospiti con la mano tesa.
Sebbene scettici, gli stringemmo le cinque dita.
Enea, invece, si tenne distante.
Il primario, che attendeva proprio lui, non appena notò l’indifferenza dell'ossario, gli andò in contro e, inaspettatamente, lo abbracciò.
Enea, indeciso sul da farsi, lo guardò stranito.
Il primario, a sua volta, lo guardò fissamente negli occhi e poi esclamò con voce rotta dall’emozione:
“Abbracciami, fratello mio!”.
A quel punto il Priamoide, con le lacrime che gli scendevano copiose lo strinse in una morsa stritolaossa.
Tutti quanti noi ci aspettavamo che un fiume di parole, di ricordi, di domande affiorasse dopo il riconoscimento inaspettato, ma invece, i due fratelli si sedettero e continuarono a fissarsi negli occhi con un sorriso ebete che deformava i loro lineamenti.
“Embeh?- sbottai io per rompere il silenzio- embeh?- ripetei.
Fu il primario a prendere la parola, dopo una breve consultazione con il fratello.
“Come avrete ormai capito, Enea aveva visto giusto: io sono suo fratello”.
“Bella scoperta – intervenne Gianni- non siamo poi ciechi!”.
“E sì, avete ragione… ma, vedete, non è stato così semplice per me accettare il ritrovamento di mio fratello, di cui sapevo tutto, che sapevo ignorasse dove fossi, se fossi ancora in vita, cosa facessi. A lui era stato detto che ero stato affidato ad alcuni parenti che erano emigrati in Tripolitania, dopo che nostra madre aveva deciso che due neonati erano troppo per lei che non avrebbe più potuto giocare a Baccarà con tutte due le braccia occupate a tenere i bimbi. Nostra madre, Ecuba Daunia in Priamoide, convinse, così, nostro padre a dare in adozione ad un ramo della famiglia, gli Albalonga, quello di noi due sembrava più gracile.
Conobbi, dunque, i miei genitori adottivi e non quelli veri. Quando, nella maggiore età, mi fu rivelata la mia vera estrazione, provai un odio feroce verso tutti i componenti della mia famiglia d’origine. Aver incontrato Enea mi ha scioccato. Mi sono visto in uno specchio ed ho odiato la mia immagine. Poi ho riflettuto, ho capito che mio fratello era all’oscuro dei fatti, che gli avevano nascosto la verità, tale era lo stupore nei suo sguardo quando ha incrociato il mio. Dopo una breve pausa di riflessione nel mio studio, ho stabilito che non era giusto soffocare nell’odio il richiamo del sangue ed ho deciso di rivelare la mia vera identità”.
Enea era in deliquio; ascoltava rapito il fratello e lo fissava adorante, lui che era un pezzo di marmo di fronte ai casi della vita, una roccia cui appoggiarsi nel momento del bisogno, una stalagmite pronta a perforarti il posteriore se solo gliene fosse capitata l’occasione.
Non appena Paride terminò il soliloquio, l’ortopedico riprese il controllo di sé e chiese di poter esporre i fatti come li avevano raccontati a lui.
Noi eravamo come in un teatro, in una rappresentazione pirandelliana, pronti a commuoverci o sganasciarci dalle risa, avidi di giungere alla fine della commedia, sperando nel lieto fine o nella tragedia totale e assoluta.
La fine ormai sembrava scontata, ma i colpi di scena certamente non erano stati tutti rappresentati. Un applauso frenetico fu il segno che eravamo ansiosi che il “pius” ci mostrasse l’altra faccia della stessa medaglia.
“E’ vero, nostra madre- cominciò il nostro- aveva una grande passione per il Baccarà, ma anche per il baccalà. Io non ho mai saputo quale delle due passioni avesse il sopravvento nella sua psiche. Personalmente, sulla base di alcune indagini che ho svolto col mio professore di “patologia animale”, penso che prediligesse il baccalà e che tutta la storia abbia tratto origine da questa insania. E’ inutile dire che a me era stato riferito da zia Serafina che sì ero uno di due gemelli omozigoti, ma che il primo nato era morto poco dopo la nascita. Zio Romualdo, invece, mi raccontò che mio fratello era stato rapito dagli zingari e che era stato portato in Tripolitania; altri mi dissero che poi se ne erano perse le tracce. Io optai per l’ultima versione. Nostra madre non ne parlava mai e, cosa strana, ogni volta che le chiedevo di mio fratello lei correva dal pizzicagnolo e comprava del baccalà. Compresi che vi era un nesso freudiano fra il baccalà e mio fratello. No, Paride, non fraintendermi – s’interruppe Enea che aveva colto lo sguardo torvo del gemello- non volevo assimilarti al baccalà. Sempre zia Serafina, in una malinconica notte di pioggia, mentre eravamo tutti due svegli per il fragore dei tuoni, mi aveva svelato il segreto: mia madre aveva costretto mio padre a “dare via” il gemello perché era un doppione. Nostro padre era un debole, si mordicchiava le unghie se non aveva a potata di mano un ciuccio da succhiare; usava il pannolone per una fastidiosa incontinenza che lo affliggeva sin dalla nascita, spesso era in analisi per alcuni raptus omosessuali che si evidenziavano in particolare di domenica, quando si recava ad assistere alla funzione religiosa in abiti da donna per far colpo sul parroco ecc…ecc…
Per non tediarvi: il segreto confidatomi da zia Serafina non era completo, mancava la parte più importante che ho reticenza a confidarvi.
“Non ci far stare sulle spine, – supplicò la Tontak- è una bellissima telenovela!”.
”Dovrò prima consultare mio fratello: è un fatto di famiglia…”- sospirò Enea.
Enea e Paride si appartarono.
Noi ne approfittammo per dar fondo agli antipasti ai frutti di mare, alle bruschette, ai salumi che profumavano di Calabria e di Emilia Romagna, alle saporite “boscaiole” ricche di funghi prataioli colti di fresco.
Di bevande neppure l’ombra.
Un ruggito provocò colpi di tosse a ripetizione tra noi che sbafavamo a piene ganasce: “No! Io, un Albalonga, figlio di…”.
“ Paride, non dire cazzate, siamo nella stessa barca … e non urlare –lo frenò Enea- devi prendere coscienza della realtà… via, siamo due figli di troia!
“Ma un figlio di troia con la t maiuscola o minuscola?”- interrogò la voce affranta del primario.
“Minuscola, minuscola – sussurrò Enea- tanto è uguale se non lo scrivi…”.
“Ma sei sicuro, il pizzicagnolo?”.
“Si, ne sono sicuro! …e per giunta si chiamava Achille!”:
“Cacchio, un greco!”.
“Sì, ma un eroe!”.
“Va be’, ho capito…”.
“Lasciamo tutto nel vago”.
“D’accordo, nel vago…”.



IL CONVIVIO

Paride ed Enea tornarono da noi bisbigliando .
La Tontak, fedele alla tradizione che la vuole disponibile e generosa, fingendo di non aver ascoltato la conversazione tra i due gemelli, si fece portavoce del Benpensante pensiero e disse che, poiché si trattava di fatti di famiglia, era bene che non ne fossimo messi a conoscenza.
I gemelli, invece, con estrema disinvoltura, ci raccontarono una storia di famiglie legate al fondamentalismo catto-islamico-buddista, di cui, per la nostra sicurezza, non ci avrebbero rivelato le identità, visto il particolare momento politico.
Così, secondo loro, ci lasciarono nel vago: noi glielo lasciammo credere.
Uno stuolo d’infermieri, incuranti delle proteste dei degenti che scampanellavano come cento chierici durante una messa cantata, affollarono il refettorio e portarono vassoi colmi di ogni ben di Dio.
Ma di bevande neppure l’ombra.
Gianni, che frattanto aveva ingurgitato un’infinità di salame piccante, con la gola che somigliava ad un rosso estintore fuori uso, implorò che gli si portasse un bicchiere di acqua minerale.
Paride di Albalonga fu irremovibile: niente bevande se non a pagamento.
Ci spiegò, poi, confidenzialmente, che se il cibo era possibile sottrarlo alle ricche dispense dell’Ospedale, riservate ai “baroni” universitari, le bevande no… quelle erano gestite dal suo aiuto che le vendeva, sottobanco, nella fiaschetteria del suocero, per consentire alla moglie, un otre di oltre centocinquanta kg, di ricorrere alle cure dei più famosi dietologi.
Rassegnati, cavammo dai portamonete tutti gli euro di cui disponevamo e ordinammo Cocacola, limonate, ginger, vini bianchi e rossi, Whisky, Rhum e Vodka e, per ultimi il caffè e l’ammazzacaffè, un Jak Daniel.
Ovviamente Paride non cacciò neppure un cent, mentre noi ci dissanguammo.
L’atmosfera fu decisamente cordiale grazie all’alcool che circola a velocità stratosferica nelle nostre arterie.
Il primario, in vena di confidenze, ci parlò di una relazione intrattenuta con una dottoressa del suo reparto che gli aveva dato un figlio, a cui aveva imposto il nome di Enea, ma che non aveva impalmato perché di bassa estrazione sociale.
L’ortopedico si commosse, abbracciò il fratello e si disse impaziente di conoscere il nipote; poi, cambiando immediatamente discorso, ci confessò di aver conosciuto intimamente una podista sterile che non gli aveva neppure dato la soddisfazione di un aborto.
La Tontak gli lanciò uno sguardo tenero, dolce e appassionato.
Paride, a cui non era sfuggito l’interesse che Lucia (la polonica, per intenderci) mostrava per il fratello, la convinse a cambiare posto e a sedersi accanto ad Enea.
Enea… Enea è un duro, passionalmente di parte, ma duro. Il suo cinismo sfiora il mio e ciò contribuisce a legarci di un’amicizia vera, robusta e incorruttibile. Ha solo qualche anno più di me, ma spesso assume un atteggiamento paterno, di protezione, perché, nonostante la mia ruvidezza, pensa che io sia un indifeso, un ingenuo, un puro.
Sono abituato a scorgere nei suoi occhi il “Lancillotto” che difende la sua Ginevra (non fraintendetemi!!!), ma che si sciogliesse per uno sguardo femminile proprio no!
Carezzevole, sfiorò la guancia della prof e le dichiarò la sua simpatia, non priva di una forte attrazione fisica (il suo pragmatismo non ha confini).
La Tontak gli prese una mano e la strinse fra le sue ad esplicitare la reciprocità dei sentimenti.
Esterrefatto li vidi tubare come due gazze ladre e tuffai il viso nel piatto di spaghetti ai frutti di mare che avevo d’avanti.
Il profumo mi inebriò e dimenticai il luogo, il tempo e il perché fossi lì.
Il feeling che c’è tra me e i frutti di mare, molluschi e crostacei in particolare, ma pure di qualsivoglia tipo e genere, è qualcosa di atavico, d’istintivo, di primordiale: io cerco loro e loro cercano me.
C’incontriamo quotidianamente, senza testimoni, senza un cavolo di limone che possa intromettersi, snaturare il nostro rapporto, il cannibalismo ancestrale che regola il ciclo biologico universale.
E’ una cerimonia, uno sposalizio che celebriamo sottovoce, con le papille gustative che ci avvolgono in un abbraccio paradisiaco, senza rimpianti di sorta, senza turbamenti. Un silenzio religioso, rotto soltanto dal lieve sfregamento del coltello contro la ruvida scorza, mentre le valve si aprono voluttuose, roride di acqua marina ad invitarmi a coglierne il frutto, dà il segno che l’atto sacrificale non ci sconvolge, ma ci affascina, ci coinvolge, esalta i nostri sensi e diveniamo dannunzianamente un tutt’uno: io in loro, loro in me, lavati dall’umore salato che penetra le nostre cellule, i nostri atomi indistinti, la nostra spirituale visione dell’origine della vita. Il patto che ci unisce è nel mio testamento: così come io, in vita, ho ospitato nel mio corpo questi meravigliosi esseri marini, così loro ospiteranno me, quando le mie ceneri rientreranno nella placenta della terra, cibo prediletto dei miei figli adottivi.
Ero perso in questi pensieri quando Minchiuzzi, il mio “grillo parlante”, mi richiamò alla realtà:
“Cacchio fai? – mi disse- stai raschiando il fondo del piatto!”.
Gli sguardi dei presenti erano tutti schifosamente appiccicati sul piatto che io, disinvoltamente cullavo e baciavo, come fosse un neonato.
Mi vergognai sin nell’imo del cavallo, ma spudoratamente mi giustificai dicendo che stavo saggiando la qualità della porcellana che aveva ospitato i miei cento grammi di spaghetti.
Non convinsi neppure la formica solitaria che, nel tentativo di portare a casa le minuscole briciole del desinare, attraversava il largo ventre di Panzicelli: l’imenottero si fermò, mi fissò per un attimo, scosse le antenne e riprese lentamente il cammino.
Ofelia, la traditrice, che aveva assistito alla scena sogghignando e dando di gomito a Gianni, assuefatta com’era alle mie stranezze quando degusto il mio alimento preferito, mi porse un tovagliolo di carta e mi invitò a non dire “quizzate”; poi, “coram populo”, tra le “sganasciate” generali, raccontò di altre mie particolari abitudini fregandosene del disagio crescente in cui sprofondava il mio “ego”.
Quando si stancò di novellare le sue caviglie erano tumefatte e gonfie.
Voi mi conoscete: sono buono e caro, ma quando me le fanno girare divento cattivo e vendicativo.
Il nostro “convivio” divenne un “decameron”:
In breve ciascuno dei convitati vide spiattellati i fatti più intimi di cui ero stato testimone, senza censura alcuna, ma con dovizia di particolari, ricchezza espressiva, linguaggio appropriato, aderenza alla traccia e forma discorsiva congrua ed esaustiva.
Fregandomene dei vari “ma lasciamo perdere…”, “non fare così…”, “dai, non è il caso…”, “ ma sei proprio stronzo!…”, andai a “ruota libera” con grande insoddisfazione dei presenti. Quando terminai, i pellerossa, pitturati con i colori di guerra, sarebbero sembrati ai pavidi pionieri meno feroci e pericolosi dei miei amici.
Paride, l’unico che avevo risparmiato per mancanza d’informazioni, cercò di riportare serenità ricordandoci che eravamo seri professionisti, padri di famiglia, madri attente all’educazione della prole e che non potevamo permetterci di mandarci a “fanculo” come dei miseri plebei.
Colpiti nella propria dignità, assumemmo un’aria mortificata e promettemmo che mai più avremmo assunto un atteggiamento tale da confonderci coi miserabili servi della gleba.
Vinto, così, l’imbarazzo iniziale, ciascuno di noi dedicò le proprie attenzioni al collega dell’altro sesso più disponibile a subire il fascino dell’attrazione fisica, del richiamo della foresta, dell’urlo dei sensi inebriati dal nettare a pagamento.
In breve, dopo l’abbuffata, la tavolata si spopolò e le stanze libere e non del reparto cantarono sinfonie metalliche con sottofondo di gemiti appena soffocati.
Ofelia ed io preferimmo tornarcene in albergo dove, con piena soddisfazione di ambedue, sperimentammo nuove performances.
Quando l’eros sprofondò sotto i talloni, ci addormentammo.

tratto da Homosex-Si vive di solo pane e Noi del Benpensante di natalino lattanzi

Il Buco

IL BUCO
La mia residenza estiva (il “buco”, per intenderci) è ricavata in un'ala di un vecchio castello ristrutturato, situato nella periferia del centro storico del mediterraneo paesino che mi ospita. Costeggia il mare.
Purtroppo (ma forse no, dopo tutto), il resto del castello è di proprietà di ben cinque famiglie rumorose, pettegole e rompiscatole, a me affezionate.
E’ inutile che vi dica che uno dei lotti è occupato dal mio inseparabile dott. Enea Priamoide.
Nei saloni del castello, nei tempi andati, bizantini, saraceni e francesi gozzovigliarono, dando sfogo, in preda al vino genuino delle nostre parti, ai loro "medio-bassi" istinti, le cui tracce sono ancora visibili nelle segrete, non più segrete da quando una traccia di umidità sul pavimento della cantina ne ha rivelato l'esistenza.
Asce, fruste, coltelli, scimitarre e pugnali, stendi ossa e fornaci annerite dall'uso frequente mostrano in tutto il loro splendore il sapore d'antico che traspira con l'umido della terra battuta.
Non nascondo che quando sono "incazzato" contro qualcuno mi rifugio in quegli antri bui e severi a rimuginare vendette e olocausti.
Il trentuno agosto, quando idraulici e urologi, meccanici e ortopedici, operatori ecologici ed enterologi, dentisti e autodemolitori, chirurghi e macellai, avvocati e secondini, ingegneri e muratori erano ancora sotto l’ombrellone a gustare gli ultimi sprazzi di sole e di libertà, Ofelia ed io eravamo chiusi nel mio ripostiglio- studio, ricavato da uno dei locali sotterranei, a cercare di buttare giù quella che sarebbe dovuta essere la colonna vertebrale dell’orario del nuovo anno scolastico, anticipando la richiesta del preside.
Sudammo come pazzi nel tentativo di assemblarci un orario uguale, ma alla fine i nostri sforzi trovarono la loro significazione: lunedì prime tre ore; martedì ultime tre; mercoledì prime due; giovedì ultime cinque, con un’ora di disposizione centrale per eventuale caffè; venerdì idem come sopra; sabato libero.
Il mio cellulare ad un tratto squillò.
La voce di Cassandra, petente e rogante, mi proponeva di sostituirmi alla sua famiglia, scomparsa nei flutti marini vent'anni prima per una gita andata assai male, e di farle da fratello, padre, zio e nonno in occasione della venuta di Ulrico, desideroso di infognarsi in un nuovo matrimonio.
Feci presente alla collega che la presenza di Ofelia le avrebbe garantito anche una sorella, una madre, una zia ed una nonna oltre che l'ospitalità nel mio "albergaccio".
Cassandra, pimpante come un ferragosto bagnato da una pioggerellina rinfrescante, accettò entusiasta.
Felici come due vigilie di Pasqua, Ofelia ed io facemmo una doccia fredda, mica tanto veloce, alternando giochi infantili ad altri ben più piacevoli, accompagnati dalla riprovazione per nulla silenziosa di Sarcinella, che spiandoci dal finestrino che dà nel “bagno” ci apostrofava con epiteti che è meglio non riferire.
La tavernetta riluceva di palloncini fluorescenti incollati al soffitto dall’ossigeno che li gonfiava, in perfetta sintonia con ciò che pensavo del mio amico “made in Deutchland”.
Candelieri d’argento e in silver illuminavano strategicamente i quattro angoli del locale, mettendo in risalto un grande tavolo ricoperto da una tovaglia allegramente variopinta e circondato da innumerevoli festoni colorati.
Antipasti di ogni genere, invece, erano poggiati su di un lungo buffet e troneggiavano risvegliando l’atavico istinto predatore del buon Knut, che con la bava alla bocca e la lingua penzoloni, di tanto in tanto si contorceva leccandosi i baffi e bagnandosi la pancia nella pozza di saliva che si allargava sempre più sul pavimento.
Nell’angolo mancino della parete opposta alla porta di ingresso della tavernetta, racchiuso in una nicchia, il mio vecchio pianoforte faceva mostra di sé in compagnia di una delle innumerevoli chitarre che uno dei miei otto fratelli, Vitulio (il “santo” per i parenti e gli amici), lascia presso di me, per assordarmi, quelle rare volte che viene, con il ritmo sfrenato della musica Jazz e del Rock and Roll.
Sul lato destro, in alto, era ben visibile un cesto di basket ( con cui mi alleno quando mi accorgo che è tempo di smaltire un po’ di grasso superfluo); la parete opposta, quella d'ingresso, invece, era parzialmente coperta, vicino la porta, da una sagoma per tiro al bersaglio, due carabine e due revolver ad aria compressa, che utilizzo di tanto in tanto, per essere pronto ad ogni eventualità.
In accappatoio e con i capelli ancora bagnati, Ofelia ed io ci sedemmo, vicini, su uno dei lunghi scanni di tipo francescano, che attorniano il tavolo dello stesso stile.
In quel momento fece il suo ingresso Cassandra con una coppa fumante colma di risotto ai funghi. Non appena ci scorse, conciati come se fossimo in una sauna tailandese, s’incavolò di brutto e ci spedì, di corsa, a rivestirci in modo consono alla circostanza.
“Siete due bastardi!” ci disse fra il serio ed il faceto.
Sghignazzando e borbottando allo stesso tempo, obbedimmo.
Non appena in camera mia, tirai fuori un sospensore e uno slip donatimi da Ulrico e l’indossai; tolsi dal “Foppa-Pedretti” un pantalone beige e una camicia a quadratini bianchi e rossi, spolverai un paio di stivaletti in pelle bordeaux e raccolsi un bandana sul verde penicillina dall’ultimo cassetto della scrivania. Accesi un sigaro avana, pregiato, ma ugualmente puzzolente e, così conciato, con fare texano, ridiscesi nella tavernetta.
Ofelia, invece, aveva indossato un abito che pareva “fine ottocento”, con trine e pizzi che venivano fuori da ogni parte, ma che, per ammissione della Ognimmorti, era adatto alla circostanza. Cassandra, infatti, lodò la scelta della Bonelli e guardò me con la solita aria che assume durante i "Consigli di classe" quando mi estraneo dal resto del mondo e vado dietro i miei pensieri. Allora, sì, vuol mandarmi a “quel paese”.
Per non farla innervosire più di quanto già lo fosse, misi via bandana e sigaro e tirai giù le maniche della camicia.


EPILOGO?
Lo squillo del campanello annunciò la venuta di Ulrico.
Era vestito di tutto punto: abito blu, camicia celestina, cravatta a fasce trasversali e sottili blu e rosse, scarpe leggere, di foggia inglese, nere. Era sudato in modo indicibile, con i capelli che mandavano giù per il volto, il collo, le spalle, il torace e oltre, acqua e gelatina. Le sue mani, quando strinse le nostre, sembravano due canovacci intrisi di detersivo liquido, tanto erano umide e scivolose.
Faceva tanta pena da far dimenticare tutte le “pene” di cui, sia pur inconsapevolmente, era stato causa.
Persino Knut, che non aveva mai mostrato molta simpatia per il “connazionale”, invece di aggredirlo a morsi e ringhiate, lo guardò con estrema compassione.
“Ch-vesta eshtate è lunca e focozizzima”- esordì Ulrico toccandosi il nodo della cravatta e girando il collo da destra verso sinistra, quasi volesse liberarsi del nodo scorsoio; poi, resosi conto che eravamo rimasti scioccati alla sua umida apparizione, pensando di non essere gradito continuò con tono di scusa, rivolgendosi a me: “ tua crrrande amica, mia dolce Cassandra ha detto essere qui crrande zorpresa per me...”
Capii di non essere stato molto ospitale col mio silenzio, per cui mi scossi dal torpore e lo invitai ad entrare, mentre il cielo si illuminava della luce dei lampi.
Il brontolio dei tuoni lontani accompagnò il teutone nel tinello.
Knut, intanto, cominciava ad innervosirsi per la tempesta che si avvicinava, correndo su e giù per i corridoi e abbaiando in risposta ai rumori della forza della natura.
Cassandra, ultimati i preparativi, ci raggiunse proprio nello stesso istante in cui cominciavamo, con il nostro ospite, a scendere la scalinata che porta alla tavernetta.
Il suo abito lungo e nero, appena scollato, i capelli neri sciolti sulle spalle, le labbra tinte di un verde melanzana, la collana di perle nere, come gli orecchini e l’anello che portava all’anulare destro e gli eleganti sandali, anch’essi neri, a tacco alto, le davano un aspetto tetro, da “vedova nera” (scusate se insisto), pronta a sacrificare sull’altare la vittima prescelta.
Confesso di essere superstizioso, per cui immediatamente mi toccai per gli scongiuri del caso.
“Maine piccola Hitler!- esclamò, invece, commosso ed entusiasta Ulrich il barbaro- maine dolce SS, stupehenda reincarnazzzioone di Efa Braun, maine ariana pruna, fera fig-lia della crrande Orope tetescha!...”
Scosso da singulti di riso che trattenevo a stento, guardai le due donne con fare interrogativo e frenai la prolissità dell’unno senza manifestare i miei più intimi pensieri; poi, per non sembrare scortese, detti una poderosa pacca sulle spalle del nostalgico, segno di benevola amicizia, e lo spinsi verso una sedia stile dogi, che Cassandra gli aveva riservato.
“Main Goth!- reagì Ulrico, battendosi il petto, tossendo e sputando per la saliva di traverso che gli impediva la respirazione.
Non so se vi ho detto quanto sia giocherellone Knut. Insieme facciamo il gioco della lotta, per insegnargli il comportamento da tenere in caso di aggressione al padrone: io con schiaffi, pugni e calci negli zebedei, lui con morsi ovunque capitino.
Beh! pensò che fosse giunto il momento ludico-didattico con un nuovo compagno che, evidentemente, aveva assunto il ruolo dell’aggressore.
Ringhiando e agitando furiosamente la coda, si scagliò, a peso morto, sul povero Ulrico. Sebbene gli urlassi di fermarsi, gli addentò il braccio destro, strappandogli il bell’abito nuovo di zecca, lo trascinò per terra, lo immobilizzò col suo enorme peso e gli afferrò la gola tra le fauci, come aveva visto fare in un film da un cane scapocchione come lui.
Von Peethoven, inebetito dall’assalto, sporco di saliva, lacero, contuso, in lacrime quasi, non potendo utilizzare le sue corde vocali, paralizzate dalla morsa di Knut, con gli occhi supplici, chiedeva aiuto.
La Bonelli, che come Ulrico non conosce l’intima indole gioiosa di Knut, urlava spaventata di fare qualcosa per salvare il pover’uomo.
Io, al contrario, tranquillissimo, poiché so che il mio cane, per sbranare gli indesiderati, ha bisogno del comando, detto con tono secco e imperioso: “squarta!”, lasciai che Knut desse libero sfogo all’inesauribile energia di cui è dotato. Quando mi accorsi, però, che Ulrico era lì lì per soffocare , biascicai: “molla!”e liberai lo straniero.
La Bonelli scandalizzata dal mio atteggiamento, dopo avermi etichettato barbaro e sadico, salì di corsa le scale che conducono al piano superiore e aprì la porta per andare via.
Aveva, però, fatto i conti senza Enea e tutti gli altri condomini del palazzaccio che, come avvoltoi, erano tutti dietro il nostro ingresso, attirartidall’abbaiare furibondo del mio cucciolone e dalle urla stridule di Ofelia. Come un fiume in piena, travolsero la mia collega, respingendola in casa, e affollarono il tinello circondandoci e subissandoci di domande. Cassandra, intanto, pallida come un bianco di uovo sodo, inebetita, come la maggior parte dei parlamentali che affollano le nosre due Camere, senza parole, addossata ad uno stipite, piano piano scivolava verso il pavimento quasi priva di sensi.
La Bonelli, intanto, riappropriatasi dello spirito rivoluzionario che è caratteristica imprescindibile del suo essere, montò sul tavolo e cominciò ad arringare la folla, aizzandola contro di me, colpevole di non saper gestire un mostro (Knut) e di sadismo nei confronti dell’umanità. Ma i miei condomini, allettati da tutto il ben di Dio che vedevano lì, sul buffet, pronto per essere divorato, parteggiavano per noi (Knut ed io, voglio dire), per cui accolsero le sue parole con manifesta disapprovazione, battendo i pugni sul tavolo e i tacchi per terra, sbeffeggiandola e intimandole di smetterla di profanare il suolo che le offriva ospitalità, pena un solenne “mazziata”.
Consapevole del rischio che correva, Ofelia dette una brusca svolta alla sua concione e cominciò a parlare anche dei meriti che avevo acquisito nei suoi confronti, dicendosi pronta non solo a scusare i miei piccoli difetti, ma anche a difendermi con le unghie e con i denti da coloro che approfittavano del mio buon cuore.
L’assemblea rumoreggiò, questa volta favorevolmente; si alzò persino qualche grido “viva la prof”, seguito da qualche timido applauso, poi condiviso da quasi tutti gli astanti. Infervorata dalle sue stesse parole, passò poi a vantare i meriti del proletariato sfruttato dai capitalisti, a lamentarsi dei bassi stipendi degli insegnanti, del costo della vita sempre più esoso, della Sanità e della Previdenza Sociale e della voracità degli industriali come Ulrico, che spolpano sino all’osso le capacità produttive degli operai, senza retribuirne gli straordinari. I condomini, tutti di sinistra, entusiasmati dall’orazione sindacale, dimenticarono me, Cassandra e Knut e, come un sol uomo si unirono in applausi fragorosi e ovazioni indirizzati alla Bonelli.
Enea, che aveva bevuto quasi tutto il contenuto di una bottiglia di brandy, sollevò di peso Ofelia e la portò in trionfo, mentre tutti gli altri guardavano con disprezzo il povero Von Peethoven che, spinto, accompagnato da cori di”buuuh, carogna, sfruttatore, aguzzino, stronzo” e altro che ora mi sfugge, zoppicante, pallido e intimorito, lasciò la mia magione.
Il cielo mandava giù torrenti d’acqua quando il meschino salì a bordo della sua Mercedes, accompagnato dagli ululati di Knut che cercava la luna e dal pianto disperato di Cassandra.

tratto da Homosex- Si vive di solo pane di natalino lattanzi

mercoledì 16 luglio 2008

De Vulgari Eloquentia

“DE VULGARI ELOQUENTIA”

Mi risvegliai, come dicevo, recitando il “Magnificat”.
La Bonelli reggeva una borsa di ghiaccio sul mio capo, imitata da Irene Belfagor che faceva altrettanto con Carlo.
Un bozzo enorme deformava la mia bella fronte spaziosa e mi procurava un mal di testa feroce.
Carlo, al contrario, sembrava rinato.
Non solo non ricordava come fosse finito in astanteria, ma addirittura pensava che non per lui ma per me l’intero collegio del “Benpensante” si fosse trasferito nel reparto psichiatrico del “Fate Bene Cognati”, vecchio e glorioso ospedale, fondato da Bonifacio VIII, poco prima di “trasferirsi” ad Avignone, “ospite” di Filippo il Bello, per farsi curare una fistola anale recidivante.
Sacramentando, gli feci presente che se un pazzo vi era tra noi quello certamente non ero io, ma la sua esimia persona e, offeso, gli girai le spalle e feci per uscire dalla stanza.
Immediatamente Carlo si sottrasse alle cure della sua samaritana e, libero della camicia di forza, corse ad abbracciarmi con una delle sue solite strette che ti incrinano le costole.
Tra vari scricchiolii di ossa lo scusai e mi scusai (insomma, ci salameleccammo) e lo invitai a riaccasciarsi perché le rispettive ci ricoccolassero.
Un fremito improvviso alla colonna montante della mia anatomia e un violento sommovimento intestinale mi spinsero, però, a volare verso il wc..
Mi accoccolai sul water, compressi il capo tra le mani e detti libero sfogo allo shock puteolente che venne espulso tra uno scoscio di applausi tutti interni al mio intestino per nulla riluttante a lasciarsi evacuare.
Impressionata dal fragore, Ofelia bussò alla porta del bagno e si tranquillizzò quando le risposi che finalmente mi ero liberato dagli incubi e che fumavo una rilassante Marlboro Light.
Il mio riposario, la mia stanza prediletta, ovunque mi trovi, il mio pensatoio si ottimizzò col fumo profumato che veniva fuori dalle sigarette che fumavo una dietro l’altra, mentre mi dedicavo alle riflessioni sul nostro essere, persistere, propugnare e pugnare per cose vacue ed effimere come la constatazione della vanità dell’opporsi all’opposizione del muro, l’impiego statale, le sessantanovate goderecce, la vita, la morte, il fumo, l’alcool, le multe prese per non aver voluto raccogliere la cacca di Knut, i sindaci pdellini e pdiessini artefici del dissanguamento dei cinofili, la contestazione di Moretti, il picconatore della dirigenza di sinistra colpevole di aver dato la precedenza a destra, i mori in patria, gli albanesi e gli extracomunitari necessari per il lavoro nero, la raccolta dei pomodori e la manovalanza della “mala”, lo sciopero generale, l’esercito professionistico, l’abolizione della leva, il servizio militare professionistico in terra “straniera”, inventato per incrementare gli introiti della Telecom per le lunghissime telefonate all’144 personalizzato (il numero telefonico della morosa), la giovinezza perduta sgobbando sui libri per uno stipendio di merda, Roma, Regina Coeli, il capitano Movais.
Immediatamente realizzai che eravamo ancora nella “città eterna”, che non avevamo fatto un cacchio di quanto ci eravamo proposti prima della partenza e che ci trovavamo in una clinica psichiatrica.
A simboleggiare la nostra pazzia, la nostra follia, madre matrigna e benevola, sorella di Alzaimer e cugina di Parkinson, era il disegno impossibile di cambiare il costume, tutto italico, di credersi dei padreterno non appena varcate le soglie di Montecitorio con tanto di blasone stampato sul culo.
Terminate le abluzioni di rito, venni fuori dal cagatoio avvolto in una nebbia tutta light che nascondeva le mie fattezze michelangiolesche.
Minchiuzzi, credendomi una apparizione di Allah, si prostrò ai miei piedi, ma fu subito preso a calci nel sedere da Gianni che già altre volte aveva assistito al “miracolo”.
Il rumore delle mandibole che sbattevano contro il pavimento fu seguito dal sibilo della chiostra dentaria di manifattura artigianale che volava sotto l’armadietto metallico in dotazione alle formiche e ai ragni dell’ospedale affinché potessero fornicare lietamente nelle segrete del buio artificiale.
Dopo aver recuperato la dentiera dalle fauci di Knut, comparso all’improvviso sulla scena del delitto, il povero Egidio, graffiato e addentato negli arti e nelle parti nobili del corpo, fu tramortito con un potente calmante, propinatogli dallo “scrollapalle” prontamente accorso, perché, in preda ad un raptus cinocida, agitava contro il “miglior amico dell’uomo” la scimitarra che porta con sé sotto il barracano.
Knut, come suo solito, saltò sul letto e cominciò a lubrificarmi la faccia con la sua abbondante e salivosa saliva, mentre con la coda roteante portava un po’ di refrigerio ad Ofelia che, tutta accaldata, tentava invano di rinfrescarsi con la borsa dell’ex ghiaccio scioltosi al calore delle alitate del mio quadrupede.
Non ebbi la forza d’indagare sul come, quando e perché Knut veleggiasse da quelle parti: mi rassegnai e carezzai i due metri quadrati di cranio del mio cucciolone.
La voce di Priamoide rintoccò per i corridoi della struttura sanitaria come una campana suonata per la Resurrezione ed Enea varcò la soglia della camera di Carlo seguito da uno stuolo di medici che lo ossequiavano come fosse il nuovo messia.
Per nulla stupiti, accettammo la realtà abituati, ormai, alle apparizioni straordinarie dell’ortopedico.
Il “pius”, ci fulminò con lo sguardo fulminante che utilizza quando vuol fulminare, poi, con aria professionale, si avvicinò a Sguizzi, gli pose una mano sulla fronte, ispezionò le tempie ed il cuoio capelluto, fregò la punta del naso, gli martellò le rotule, poggiò l’orecchio sulla spalla abbronzata, gli estorse due respiri profondi, gli strizzò lo scroto con tutto il suo contenuto ormonale, avendone in cambio un calcio nello stinco destro, e profetizzò una rapida guarigione in ambiente familiare senza supporto di alcuna cura psicofarmacosa (non mi guardate schifati: so bene che si dice farmacologia, ma poiché la logica non mi appartiene… non rompetemi i coglioni!).
Tra gli sguardi ammirati dei suoi colleghi, alzò la mano benedicente e andò via senza degnarci di uno sguardo.
I Commentari di Cesare son ben poca cosa raffrontati ai nostri commenti.
Si dice che il generale usasse la terza persona per parlare delle sue gesta e che utilizzasse un eloquio scarno e incisivo nel descrivere avvenimenti e personaggi caduti sotto la sua osservazione.
Beh, noi, utilizzando il”tu”, fummo molto più scarni del dux romano nel mandare benevolmente a fanculo il nostro amico epicureo non appena si presentò a noi nella consueta veste del “pius”.
Gli ricordammo che se Troia aveva dato i natali ai suoi avi, lui era certamente il più degno rappresentante dei figli di Troia tutt’ora esistenti e che eravamo fieri di essere suoi pupilli.
Enea ci guardò stranito, poi dichiarò di non sapere a cosa si riferissero i nostri complimenti.
Più straniti di lui gli raccontammo cosa era accaduto poco prima.
“Alt!- ci disse - ricapitolate! Non capisco un cacchio di ciò che mi dite. Non ero certamente io il primario venuto a visitare Sguizzi”.
“Ma come!- esclamai ridendo- non dire stronzate, ci vuoi prendere per il culo!”.
“No!- urlò Enea- siete voi che volete infinocchiarmi, approfittando del fatto che avrete saputo, non so come, che ho un fratello gemello di cui ho perso le tracce ancora bambino”.
“Ma che cavolo dici?- intervenni piccato- l’unico che avrebbe potuto esserne a conoscenza sarei io, tuo vicino e amico da sempre, ma che non so assolutamente un quiz del tuo gemello”.
“Allora vuoi dire che veramente avete visto il mio alter ego?”.
“Alter che?”- domandò Egidio, ritornando nel mondo dei meno.
Il clone del “pius” fu annunziato dal silenzio tombale che oppresse i corridoi della clinica.
Con passo veloce e sicuro rientrò nella stanza e apostrofò Guizzi ignorando completamente noi che astanteggiavamo: “muova le chiappe e torni a casa, mi occorre la sua stanza!”.
“Paride, sei tu?- bofonchiò Priamoide con voce commossa- sei proprio tu, fratello mio?”.
Il silenzio troneggiò sui nostri volti stupiti, istupiditi, e rigati di lacrime, di rimmel e di fard delle proff. che assistevano alla scena.
Il primario si girò verso il podologo, lo guardò fisso negli occhi, scolorò in viso e: ”porca vacca!”- esclamò tutto d’un fiato- sembra mio fratello gemello!”.
Enea, che non stava più nella pelle per l’emozione, con voce rotta dal riso violento, gli si lanciò contro per abbracciarlo.
Il primario, con una veronica alla Dominguin, lo schivò.
L’armadio metallico emise un gemito metallurgico quando il corpo di Enea gli si spalmò contro.
“Si contenga, signore! –pronunciò con voce severa il primario- non la conosco, non so chi lei sia, non me ne frega un cacchio di chi lei è. Io sono il primario Paride d’Albalonga, nativo di Roma, figlio dei marchesi d’Albalonga, nipote del generale Ippolito d’Albalonga, zio del ministro Osvaldo d’Albalonga, padre di due stupendi gemelli di nome Eurialo e Niso d’Albalonga, in onore di due miei fieri cugini banchieri, morti durante una battuta di caccia per mano di due guardacaccia che li aveva scambiati per bracconieri ”.
Enea a quel punto, piccato, si ricompose e si qualificò.
“Io sono- disse, gonfiando il petto- Enea Priamoide, primario ortopedico dell’Università di Bari, figlio di Troia, nella Daunia, prole di Ilio Priamoide, marchese di Troia, nipote del dott. Astianatte Priamoide, primario veterinario dell’Università di Urbino, zio di Ilione Priamoide, direttore dell’Istituto di Araldica di Castelfranco Veneto, celibe con nutrice a carico”.
“Nobile stirpe, certamente, ma mai coverta”- sibilò il primario dei fuori di testa.
“Mai coverta anche la sua! –si offese il mio amico- ciò non toglie che, purtroppo, ci somigliamo tremendamente…appurerò le sue origini, caro marchese!”.
“Ed io appurerò le sue!”.
La porta si chiuse violentemente alle spalle del mattologo.
Nella stanza il silenzio si tagliava come quelle belle fette di mortadella di puro suino, spesse un cm e profumate da far venire l’acquolina in bocca…
L’abbaiare furioso di Knut ci restituì alla vita.
Guardammo Enea e sbottammo in una risata generale.
“Che cazzo ridete?- ci apostrofò - non immaginate neppure un po’ quanto mi stia sul pisello quel cialtrone!… ma andrò a fondo della questione… Per quello che mi diceva mia zia Andromaca sui vari rami della famiglia, quello stronzo sarà certamente il nipote del cugino di mio nonno. Un montato del cazzo mi sembra…”
“Dai, non te la prendere-lo interruppe Ofelia, che aveva una certa familiarità con il mio amico- che t’importa chi sia?”.
“Che m’importa, dici?…non mene sbatte una mazza!… ma è la prosopopea che mi dà fastidio, la mancanza di educazione, la superbia, la coglionaggine, insomma!”.
La Tontac, che sino allora aveva taciuto, non ne poté più e: “Ma sì, ha ragione Enea,- sbottò- quello è un montato scemo e ha bisogno di una lezione! Marchese di qua, marchese di là…va a vedere che ce l’ha lui il marchese!… che stronzo!…”.
Il sommesso bussare alla porta interruppe le nostre rimostranze, ma scatenò l’ira di Knut che corse furioso alla parta abbaiando come una muta di cani all’inseguimento della volpe in una battuta di caccia.
Gianni, vista la mia impossibilità a trattenere la belva, mi sostituì beccandosi un ‘addentata all’avambraccio.
Sacramentando come un confratello di Ochalan, dette un calcione nelle terga di Knut, che venne da me a chiedere vendetta, e aprì la porta.
Per nulla turbato, un infermiere, smilzo come un grissino, somigliantissimo a Stanlio, il compare di Ollio, con fare riguardoso, si affacciò all’interno della camera e annunciò:
“Il primario, dott., prof., grand’Uff., cav. e comm. della Repubblica italiana, si onora di invitarvi a cena, nel refettorio della clinica, stasera alle diciannove e trenta. Ah, dimenticavo, le bevande sono a vostre spese”.
“Girò i tacchi” e andò via.
tratto da Si Vive di Solo Pane- Noi del Benpensante di natalino lattanzi

domenica 13 luglio 2008

La vita è dura...

LA VITA E’ DURA….QUAL VOLTA E’AMARA… PERO’, PERO’ LA VITA E’ BELLA…


Carlo ci aspettava, con fair play, imbracato con la camicia di forza. Stringeva tra i denti una sigaretta accesa che succhiava come fosse un lecca-lecca, lasciando che il fumo gli penetrasse nei polmoni e gli uscisse dalle narici e dagli angoli delle labbra, con uno sguardo dolce negli occhi affumicati a significare quanto la sua anima fosse in pace con il corpo.
Non appena ci scorse, sorrise e, facendo penzolare sul labbro inferiore la Malboro ligth(come cacchio facesse non l'ho ancora capito), esclamò per nulla sorpreso della nostra presenza: “l’avrei inchiappettata per quanto mi piace!”.
“Chi?…”- chiesi sorpreso.
“La Orsorci! Chi altri secondo te?- retoricò Sguizzi, cambiando immediatamente espressione e manifestando la solita eccitazione che gli sconvolge i lineamenti quando viene preso da uno dei suoi raptus;- ma l’hai vista quanto è bella?…-riretoricò.- snella e matronale allo stesso tempo, materna e sensuale, dolce e sicura, bionda e alta…; accavalla le gambe setificate come poche lasciando che siano sfiorate dagli sguardi quando passa la sinistra sulla destra… mi eccita come lo strip-tease che la Ferilli ha dedicato alla Roma!”.
“Tu sei pazzo, era una presa per il culo! Non si vedeva un “quiz di niente…”.
“Non sottilizziamo, l’eccitazione è proprio lì: vedere ma non vedere… intuire, immaginare, sognare…”.
“Ti ripeto, sei pazzo! Manderei Astolfo sulla luna a riprendere la boccettina del tuo senno se…”.
“Ma non dire cazzate- m’interruppe Carlo dolcemente- non fare il professore d’Italiano! Sii più pragmatico. Il bello è bello e mi suscita un non so che di possessivo, di esclusivo, una fame insaziabile che si placa solo dopo aver divorato, ingurgitato il nettare e l’ambrosia della vita. Del resto è per questo che mi trovo qui. Tutti pensano che io sia pazzo… anche voi, i miei colleghi; ma vi sembra pazzia desiderare una bella donna? Vi sembra pazzia cercare di avvicinarla, di presentarsi per esprimerle l’ammirazione, di arrotarle la lingua in un bacio appassionato?”
Forse non vi ho mai descritto il mio amico Carlo Sguizzi: riparo subito all’errore!
Carlo è un giovane di circa trentacinque anni, alto un metro e ottantacinque, nero di capelli e acqua di mare negli occhi; ha grandi spalle e una vita sottile ma robusta, da lottatore, come tutto il suo fisico, del resto; mani grandi, lunghe, affusolate e nervose; calza quarantacinque e pesa ottanta Kg; ama le battaglie, soprattutto quelle perse perché è un generoso, puro di cuore e buono di animo. Ha uno spirito critico e umoristico che lo distinguono dalla maggior parte di noi, eccetto me (sono il migliore!) e Gianni, che, quando non è rincoglionito, può reggergli il passo.
“Ma come le hai espresso la tua ammirazione?” –chiesi io che già immaginavo la scena.
“Beh! Le sono saltato addosso e l’ho…”.
“Cacchio! –lo interruppi- e ti sembra questo il modo di porgere gli omaggi?”.
“Ma dai, non fare il perbenista, non ti si addice!…” – e guardò Ofelia per averne conferma.
Gianni lo fissò esterrefatto; la Bonelli tra l’indignato e il rassegnato; la Tontak con un improvviso interesse ormonale.
Irene Belfagor, con il desiderio che le inturgidiva il seno e le chiappe, interruppe il nostro stato di riflessione con un sospiro degno del più cronico tra gli asmatici.
Accorse immediatamente, strano a credersi, il medico di turno.
“Shock anafilattico?”-si precipitò tutto speranzoso il “frullacervelli”, dando una scrollatina ai suoi piani bassi.
“No, grazie, Allah non vuole! –rispose Minchiuzzi, il tuareg italo-maregbino; poi in un flebile falsetto: non ne abbiamo bisogno”.
“Di cosa?”- chiese dubbioso l’elettroscioccante diapasonato.
“Ma dei profilattici- rispose baritonalmente Minchiuzzi (con una battutaccia da trivio, dicono i miei colleghi; perché quasi sordo, penso io) - preferiamo il coitus interruptus!”.
“Ho capito, ho capito…- si rassegnò il tritameningi - siete i degni compari del professore! Ma guarda un po’ in che mani debbono finire i nostri figli!”- disse e andò via scotendo il capo e dando una scrollatina al cavallo sudato.
Rimasti “inter nos”, Gianni si avvicinò a Carlo, gli posò paternamente la mano sulla spalla e: “l’hai guardata bene?- gli disse- Somiglia a Pippo Franco!”
Egidio, che voleva far bella mostra della sua cultura umanistica fondata sul “Bignami”, si associò e sentenziò sicuro: “E’ il ritratto spiccicato di Lorenzo il Magnifico!”.
Di fronte a tanto sfoggio, o scempio se volete, fui preso da un impeto inconsulto e mi precipitai verso il mio amico Sguizzi, prendendolo alla gola: “Vedi quanto sei strozzo? Rinsavisci, per Dio!”.
Disgraziatamente, nell’impeto, inciampai nel trespolo delle flebo: persi l’equilibrio e urtai contro qualcosa di veramente duro.
Poi fu il buio…
Oltre la siepe m’imbattei in un sogno straordinario…



GLI STATI GENERALI

L’aria era stagnante come le atmosfere di una ruota di bicicletta appesa al chiodo.
Gli uomini in divisa avevano un coltello fra i denti ed impugnavano mannaie affilatissime; Robespierre agitava a dritta e a manca la sua roncola sul collo di una schiera di docenti imbavagliati e bendati, illuminato da una aureola santificante.
La Orsorci, legata ad una lunga catena, scarmigliata, prona per terra, rosicchiava il capo di Demaune (per chi non ha letto il più volte da me stesso premiato “Homosex”, l’ex ex ministro della Pubblica Istruzione), “forbendolo ai capelli”.
Come dicevo, l’atmosfera era stagnante, ma non troppo, e si vivacizzava per le urla dei condannati a morte, ogni qual volta sentivano il tonfo del capo dei loro colleghi rotolare per terra.
L’ex ex ex ministro Dauronzio annaspava, invece, in una grande e putrida piscina pungolato da uno staffile agitato da un boia incappucciato da un gigantesco profilattico Atù, color pervinca; mentre l’ex preside del Benpensante, quello, per intenderci, degradato e trasferito in Sardegna, seduto su un WC di alabastro, da cui faceva capolino il volto di Merlinpace, emanava condanne a morte per i tecnici della P.I.
Poco più distanti, Minchiuzzi, Gianni ed io, legati in sella a tre tori neri, aspettavamo l’impiccagione per intelligenza col nemico.
Ai voglia noi tre a dichiararci deficienti e portatori di handicap cerebrale!…
Poi interveniva la cavalleria.
Il mio Knut,come una furia, compariva ringhiando nel campo del mio subconscio onirizzante e si avventava sulle bestie cornute che, spaventate, ci disarcionavano lasciandoci appesi a sgambettare in cerca di ossigeno.
Sudato e urlante mi svegliai di soprassalto.
Quando mi resi conto che si trattava di un sogno ero seduto sul water con il timore di veder spuntare fuori il capo di qualcuno dei protagonisti del mio incubo.
Mi rilassai con le abluzioni di rito e con una doccia gelata che mi ricondusse immantinente alla realtà.
A quel punto mi chiesi che fine avessero fatto i miei amici.
Il silenzio assoluto regnava nella dependance; neppure il solito abbaiare scassa palle di Knut turbava l’aria ovattata che mi circondava.
Insospettito, varcai la soglia del tinello.
Niente mobili, niente televisore, niente di niente, insomma.
Lo squallore regnava sovrano, come direbbero i miei coevi letterati.
Lo strano, più strano della prima stranezza che mi aveva stranito ab ovo, era dato da un vento di bora che soffiava solo nell’angolo in cui vi sarebbe dovuto essere il divano in pelle di rinoceronte maculato di fango che, ricordavo, aveva condiviso le mie tribolazioni e le mie gioie.
Lo spettro di una donna nuda, che sebbene spettro mostrava un seno da far invidia alla Bellucci e altro che non sto a dirvi per non risospingervi verso le adolescenziali abitudini amanuensi, con il sorriso stampato sulle labbra diafane, col medio della mano destra mi indicò la finestra che dava sul cortile interno dell’albergo.
Fervido assertore, da sempre, del motto latino “in medio stat virtus”, segui il consiglio della fata turchina e mi affacciai. Una mano sconosciuta mi tirò per i capelli, mi precipitò nel vuoto e… mi ritrovai sulle ginocchia della Orsorci, che dopo essersi saziata della sua precedente vittima, ardeva dal desiderio di assaporare il mio cuoio capelluto, come dimostravano lo stridio dei denti e lo schioccare della lingua.
Mi risvegliai, anzi mi svegliai definitivamente e mi accorsi di aver sognato nel sogno, cosa che capita solo ai geni.

tratto da Homosex- Si vive di solo pane di natalino lattanzi

domenica 6 luglio 2008

Lo scrutinio finale

SCRUTINIO FINALE
L’estate bussava alle porte e il sole picchiava sulle cocce nostre e degli alunni: era tempo di scrutini!
Le solite circolari circolarono per il "Benpensante" e noi apponemmo centinaia di firme, sigle e autografi su un numero innumerevole di scartoffie.
Il preside preferì lasciare la 5C come ultima da scrutinare, dato il rapporto amichevolmente ostico che si era creato tra docenti e discenti.
Olindo, sicuro di un risultato brillante per la stretta parentela col Provveditore, richiedeva a gran voce "crediti formativi" inesistenti, a danno di Rocchilli, giovane studioso e tanto volenteroso da suscitare il ribrezzo del "Consiglio d'Istituto".
Tenentaneo, un deficiente di rimordine, reclamava l'ammissione a pieni voti per l'appartenenza ad un partito politico discretamente suffragato, mentre la Pettirossi cinguettava sul "sessanta" perché amica del figlio dell'applicato di segreteria.
Noi, impreparati al nuovo Esame di Stato voluto da "vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole", con corsi spontanei di aggiornamento, non incentivati da chicchessia, ci contorcevamo, invece, sui banchi di scuola nel tentativo di capire il meccanismo cervellotico che ci sembrava premiare i mediocri e penalizzare i migliori.
Alla fine, giunti alla vigilia degli esami, ci affidammo ad un contabile della Banca addetta ai nostri stipendi e al salumiere che infarcisce di prosciutto di lombrico i panini destinati ai nostri allievi, nel tentativo di risolvere i vari "busillis" che ci affliggevano.
La matita del pizzicagnolo ebbe la meglio sul computer del “contadenaro”.
In men che non si dica, il bottegaio ci fornì il saldo tra crediti e debiti curricolari e strappò al preside l’appalto, per l’anno successivo, della fornitura di panzerotti di soia, a salvaguardia del nostro colesterolo, fritti con olio importato dalla Groenlandia, ricavato dalla marcitura di merluzzi scongelati, conservati sette anni prima.
Con calcolatrice alla mano, poi, spulciando l'elenco dei ragazzi e, affidandoci, non lo nascondo, anche a sistemi da Superenalotto, scrutinammo i nostri alunni.
Il caos regnò il giorno dopo l'affissione delle ammissioni, ma noi, barricati nei bagni dell'Istituto, resistemmo alle pressioni delle componenti studenti e genitori, minacciando lo sciopero della sete e non della fame.
Dopo vari giorni d'astinenza, i rappresentanti sindacali della B.E.R.N.A.R.D.A. e della M.I.N.C.H.I.A. raggiunsero un accordo con le parti avverse, per cui, con la promessa mai mantenuta, di un innalzamento generale di due voti per ciascun discente, uscimmo "a riveder le stelle".
Minchiuzzi, Estroverso e Bonelli furono i commissari interni della 5 C; la commissione esterna fu invece affidata ad un vecchio docente universitario in pensione da vent’anni (aveva circa novantant’anni) e a tre insegnanti di scuola media in perenne permesso sindacale che, grazie ad un a vecchia legge, nonostante non avessero mai insegnato in vita loro, usufruivano di un trattamento economico che a noi docenti dell’era riformista è stato promesso al compimento del duecentesimo anno di servizio attivo.
Il più incazzato era il prof di Diritto; il più rincoglionito il vecchio docente universitario, alle soglie dell’imbalsamazione.
La presentazione della classe, compilata dal sottoscritto, docente di Italiano e Geografia, laureato con tanto di novantatrè su centodieci in tempi non sospetti, fu oggetto di sfottò da parte degli “estranei”(sostenevano fosse il parto di una mente malata, non cosciente della “sonorità”(?) della scuola e dei suoi insegnamenti) e fu dichiarata inutile e falsa, lesiva della dignità della classe docente e dell’Istituzione: via!… reazionaria!

tratto da Homosex-Sivive di solo pane di natalino lattanzi

sabato 5 luglio 2008

Vorrei

Vorrei



Vorrei un giorno lasciarmi andare
dolcemente sulle onde e sfrecciare veloce col vento
con la spuma che imbianca i capelli,
avvolto dal piacere del sale
sulle labbra arse dal sole.
Vorrei scivolare con i gabbiani
sull’azzurro dell’acqua,
cogliendo la vita
dalle profondità marine
nel gioco di luce che
penetra le rocce e le fosse .
Vorrei avere emozioni e sensazioni
dal ventre della terra ,
dalle profondità degli abissi,
dal nero dell’infinito.

tratto dalla raccolta "La Risacca" di natalino lattanzi

Solitudine

Solitudine



Quanto siamo soli, amica mia!
Siamo soli senza volerlo,
Senza saperlo, quasi.
La solitudine ci avvolge,
Ci allontana sempre più.
Neppure il ricordo dei tempi lontani
Guarisce le ferite
che distruggono il sentimento.
Addio, amica mia,
Addio, mia giovinezza,
Mia speranza, miei sogni perduti.

tratto dalla raccolta "La Risacca" di natalino lattanzi