domenica 4 maggio 2008

Homosex- Si vive di solo pane

La gita scolastica

L'urlo ripetuto del cellulare mi svegliò in piena notte.
Maledicendo la tecnologia, risposi con la solita voce impastata di quando non si è ancora bevuto il primo caffè. All'altro capo della linea telefonica era Segaioli, il mio esimio preside.
"Si vesta in fretta- mi disse con voce concitata- e raggiunga il pullman al Motel dell'Agip, alle porte di Firenze. Non perda tempo!…".
Assonnato e desideroso di rituffarmi nel bellissimo sogno che stava proiettando la mia fervida fantasia (ero su una spiaggia hawaiana, circondato da uno stuolo di bellissime figliole sorridenti che mi coccolavano massaggiandomi e infarcendomi di profumati frutti esotici, mentre Gianni Estroverso e Ofelia Bonelli, nudi e di spalle, legati ad un palo, con i fondoschiena dipinti a cerchi concentrici gialli, verdi e blu in cui era incastonato un pallino rosso centrale, fungevano da bersaglio alle frecce scagliate da ferocissimi indigeni pitturati con i colori di guerra), risposi di non aver capito cosa desiderasse da me, visto che ben quattro docenti se la spassavano in compagnia dei ragazzi.
"Le ripeto- disse Segaioli- non perda tempo e parta!… le diranno poi i colleghi!…"- e interruppe la comunicazione.
Knut scodinzolava presso il mio letto abbaiando e saltellando, con le fauci aperte e la lingua penzoloni, nel tipico atteggiamento del cane rompicoglioni, in attesa della passeggiata mattutina.
Guardai sconsolato il mio " ma che Casio è?" automatico, anni settanta, dotato di sveglia e lancette fosforescenti: le tre del mattino o le ventisette della notte, se più vi piace.
Preparai in fretta il caffè, fumai una sigaretta del mercato parallelo, feci una doccia fredda, urlando bestemmie poiché Sarcinella aveva dimenticato di riaccendere lo scaldabagno, indossai dei jeans neri, una maglietta nera e scarpe da ginnastica e riempii una valigia di tutto ciò che pensavo mi potesse essere utile durante "l'esodo".
Knut mi attendeva sulla soglia della camera guardandomi fisso negli occhi e manifestava la sua impazienza borbottando e sbavando come una medusa su uno scoglio in secca: decisi che l'avrei portato con me. Sarcinella russava beatamente, perciò pensai di non svegliarla e di lasciarle un messaggio.
La mia Lancia Beta è la seconda cuccia di Knut: custodisce, infatti, pietre, sabbia, polvere e peli del mio cane; in corsa mima il ghibli sahariano, tanto da costringermi ad utilizzare una mascherina antismog per evitare che scorie, inorganiche e non, mi penetrino nei polmoni.
Le ruote fischiarono sull'asfalto, quando affondai il piede sull'acceleratore. Un anziano pedone solitario fece appena in tempo a tuffarsi sul marciapiede; rialzandosi mi apostrofò: "Cazzio Nuvolari, non sei ad Indianapolis!…".
Non udii il resto dell'apostrofe poiché ero già sulla circonvallazione prima che l'ironico pedone potesse ripreneder fiato.
Le ore notturne mi danno ebbrezza, guido come un pazzo facendo affidamento sulla mia vista d'aquila. Non temo rivali sin quando spunta il sole. Solo allora decelero e inforco gli occhialoni affumicati da motociclista, ricordo di un flirt studentesco con una supplente di matematica.
Knut, seduto sul sedile accanto al mio, assaporava la brezza notturna a piene fauci e abbaiava furiosamente non appena intravedeva un randagio, cane o gatto che fosse, incazzatissimo di non poterlo raggiungere.
Divorammo la strada in poche ore.
L'alba tingeva appena di rosa le acque dell'Arno quando la Lancia frenò stridendo sull'asfalto davanti al Motel.
L'area di parcheggio era semivuota, quindi mi fu facile individuare il pullman dei gitanti.
Tutt'intorno regnava un silenzio sepolcrale, interrotto di tanto in tanto dallo strombazzare di qualche vettura che transitava sull'autostrada.
Non persi altro tempo e, seguito dal fido Knut, varcai la soglia del Motel.
Il vecchio portiere, che evidentemente era stato avvisato in precedenza del mio arrivo, mi accolse con gran calore, quasi mi conoscesse da una vita, e mi condusse nella hall, invitandomi ad attendere qualche minuto, il tempo di preparare un caffè e di avvisare uno dei miei colleghi. Mi stravaccai su una poltrona di pelle gialla e attesi.
Poco dopo Cassandra Ognimmorti mi corse precipitosamente incontro, tra gridolini di gioia e singhiozzi soffocati, saltellando come un piccolo di canguro. La cosa non fu molto gradita da Knut che balzò verso la mia collega stoppandola ad un passo da me e facendola cadere per terra. Il mio “casinista”, nell’impeto travolse anche il cameriere che, sopraggiunto, stava porgendomi il caffè.
La calda bibita sciolse le sue lacrime su tutti noi e si confuse col manto nero focato del mio cane.
Riuscii a salvare jeans e maglietta, ma non le scarpe, fortunatamente blu scuro, grazie ad un salto da circo, a cui mi alleno da quando sono negli organici della Pubblica Istruzione.
Il contegnoso comportamento del cameriere fece da contraltare alle mie imprecazioni e ai grugniti di Knut, che tentava di annullare gli effetti deleteri della bevanda dal suo pelo, con lunghe e sistematiche slinguate.
Cassandra non si lasciò intimorire dai miei sproloqui, ignorò il cane e mi investì con un fiume di parole che, nei suoi intenti, avrebbero dovuto chiarire l'urgenza della mia presenza: non capii un cacchio!
Finalmente, quando si fu calmata, mi riferì in modo quasi comprensibile cosa fosse accaduto.
"Non eravamo neppure partiti - ricominciò Ognimmorti- che l'autista, un energumeno di oltre cento kg, alto due metri, mezzo ubriaco, a torso nudo, in short e ciabatte, con un tappeto di peli che lo copriva dalle punte degli alluci al collo e un odoraccio rancido di sudore e di pesce, pretese che qualcuno di noi docenti gli si sedesse accanto poiché aveva bisogno di parlare per non addormentarsi, poiché era appena tornato dalla Danimarca dove aveva dovuto scaricare baccalà mediterraneo e caricare baccalà danese. Sebbene l'assurdità della richiesta, per non mettere in allarme i ragazzi, facemmo una conta veloce e toccò alla Bonelli. Ofelia, vincendo il ribrezzo, si sistemò sul sedile accanto a quello dell'autista e dette il via alla collaborazione verbale.
Lo squittire di Ofelia ci dette ad intendere che tutto andava per il meglio e ci addormentammo tranquilli.
Purtroppo non era così ! La Bonelli, per non indispettire lo scimmione, che pure si concedeva delle libertà inconcepibili, continuava a stargli accanto anche se con grande disagio.
Quando le "attenzioni" divennero manipolazioni, sfregamenti, strusci volgari e insistenti, complimenti grossolani, non sussurrati, ma urlati, Ofelia non ne poté più e, dopo aver dato al satiro una gomitata in bocca e un pugno sulle palle, tirò il freno a mano e scese dal pullman urlando e imprecando contro l’energumeno.
I ragazzi, svegliati di soprassalto, non appena capirono cosa fosse successo, accerchiarono Pasquale Scivolo, sì, l'autista, insomma, intenzionati a sbudellarlo, ma intervenne Gianni Estroverso che affermò che era una questione che spettava a lui affrontare.
Invitò l'autista, che si contorceva dal dolore sul sedile di guida, a seguirlo in strada e senza attendere che rispondesse all'esortazione gli rifilò un altro fendente sugli zebedei.
A quel punto lo Scivolo reagì: afferrò Gianni per il collo e lo scaraventò fuori dal pullman, poi scese precipitosamente, lo riagguantò per la cintola dei calzoni e lo lanciò, come fosse un disco, oltre la collina. Fatto questo, si allontanò a piedi e da allora non l'abbiamo più rivisto.
Noi eravamo come impietriti, impotenti di fronte a quella forza scatenata della natura; gli stessi ragazzi che poco prima erano decisi a vedersela con Pasquale assistettero ammutoliti all'uscita di scena dell'autista, sordi alle invocazioni d'aiuto che ci giungevano dal di là della collina.
Quando ci riavemmo, raccogliemmo il povero Gianni, che per fortuna era caduto su di un terreno erboso, ma zeppo di ortiche e, messo al volante Orsobruni, ci dirigemmo verso il primo posto abitato.
La traversata non fu semplice e indolore: Leonardo è un pessimo autista; abbiamo rischiato più volte di restare coinvolti in incidenti mortali.
A circa dieci Km da qui, abbiamo forato. L'autobus ha cominciato a sbandare in modo pauroso: si è fermato solo quando ha investito un cellulare dei carabinieri, che traduceva in carcere un pericoloso malvivente, il quale, per giunta, è riuscito a fuggire.
Abbiamo trascorso circa due ore a raccontare le nostre disavventure ad un capitano dell'Arma, che sospettava fossimo complici del prigioniero evaso.
Solo dopo aver telefonato al preside si è chiarita la nostra situazione e siamo stati scortati sin qui, con l'obbligo di non muoverci perché testimoni di vari fatti di rilevanza penale.
Poco fa è andato via il dottore che ha diagnosticato per Gianni fratture multiple e lieve commozione cerebrale.
La Bonelli è scioccata ; Leonardo è chiuso in un mutismo tombale. Le ultime sue parole sono state a proposito del pullman: “che mi si liquefacciano le palle se ne guiderò più uno" ha detto.
Cassandra terminò il suo racconto affermando che, pur avendo deciso di prendere la via del ritorno per le condizioni dei docenti accompagnatori, la rivolta degli alunni li aveva costretti a rivedere le loro decisioni e a chiedere consiglio al preside circa il da farsi.
“Non più la Germania - aveva ordinato il padre padrone- ma Rimini, a due passi da casa, con l'aiuto di un altro collega.”

RIMINI O MORTE
Si tramanda che andare a Rimini senza prenotazioni comporti due gravi rischi: dormire in spiaggia e nutrirsi di telline per tutta la durata del soggiorno.
Per noi non fu così.
Dopo aver patteggiato con il capitanoBonhomme (è d’origine francese) una dichiarazione di disponibilità a testimoniare nel caso fosse stato riacciuffato l’evaso, ci preparammo per partire alla volta della città romagnola.
Il problema più grave fu costituito dalla ricerca di un nuovo autista.
Poiché ormai gravava tutto sulle mie spalle, montai nella mia Lancia e mi diressi alla volta di Firenze per ingaggiarne uno.
Firenze, voi la conoscete, è una città stupenda: belle strade, bei palazzi, bei parchi, belle chiese, belle femmine.
Non appena individuai la donna dei miei sogni bloccai la vettura con discreto stridore di freni e l’abbordai.
Fui mandato velocemente a quel paese in perfetta lingua toscana con la caratteristica aspirazione della “c”.
Mi specchiai nello speculo posteriore della mia vettura per capire cosa avesse indotto la gentil donna a mandarmi a fare in culo e mi accorsi che l’individuo che rifletteva lo specchio somigliava più a uno spaventapasseri che ad un uomo, tanta era la barbizie incolta che gli circondava il volto sormontato da una incolta e folta capigliatura.
Mi resi conto che mi sarei mandato da solo a raccoglier le olive.
Poiché tengo molto alla mia persona, pensai di fermarmi al primo albergo diurno in cui incappassi per riprendere le fattezze umane.
Avevo appena rimesso in moto che un poliziotto motociclista si accostò alla mia vettura e, senza neppure chiedermi i documenti mi piantò la “beretta” d’ordinanza sulla punta del naso e mi ordinò di scendere.
Firenze è fantastica: nessun capannello, nessun curioso, ciascuno per i fatti propri come se nulla stese accadendo a Torino, Cuneo, Bolzano; Aosta; ma a Firenze no! È la Napoli del centro-nord. E’ una fornace piena di ferro fuso, è gridaiola, monella e simpatica, fiera e passionaria, forte e sbarazzina.
In men che non si dica una folla incredibile circondò me e il poliziotto, tifando chi per l’uno chi per l’altro senza conoscere i fatti.
Una “bischerata…” dicevano i miei partigiani, invitando il policemen a lasciarmi andare.
Un passante frettoloso mi degnò di uno sguardo compassionevole e sussurrò quasi: “Ah, behafiho! Ti se’ fatto prendere, grullo!”(traduzione: Ah, beccafico! Ti sei fatto prendere, scemo!).
L’agente di polizia, per nulla intimorito, mi ammanettò e comunicò per radiomobile al Comando di aver catturato l’evaso.
Capii subito che c’era un equivoco, anche perché dalle mie parti non si arresta un tizio solo per aver tentato di fare il filo ad una donna.
Protestai la mia innocenza a gran voce, sempre nel “disinteresse” generale dei cittadini fiorentini che ci pressavano ormai da ogni parte e, visto che non mi si dava retta, pronunciai la parola magica: “Capitano Bonhomme!”.
Il commisario sopraggiunto proprio in quel momento mi guardò fisso negli occhi e mi chiese: “Conosce mio fratello?”
L’atmosfera divenne tutt’a un tratto meno tesa, quasi sopportabile e, infine, amichevole.
Cacciai dal taschino sinistro della mia maglietta la patente e la carta d’identità e raccontai allo “sceriffo” la disavventura in cui eravamo incorsi noi inquilini part time del “Benpensante”.
Il capitano Bonhomme, tempestivamente chiamato, confermò la mia versione.
Mi si elargirono scuse a più non posso, misi offrì una principesca colazione nella più accorsata pasticceria fiorentina e mi si indicò l’albergo in cui operare la trasformazione.
Quando ne venni fuori ero nuovamente un uomo e non una scimmia.
Il tempo stringeva, perciò decisi di recarmi ad un’agenzia di lavoro interinale nel tentativo di trovare l’autista del mio pulmann.
La signorina allo sportello(com’è piccolo il mondo) era la stessa che avevo abbordato poco prima.
Evidentemente la doccia, la sbarbata, la pettinata, l’alito profumato di dentifricio e la colonia “Sei mia” avevano fatto di me un vero uomo, perché mi accolse con un grande sorriso sulle labbra e una dolcezza che nello “stil novo” solo Dante seppe esprimere “qualche anno fa”.
Non solo la bella mi indicò il nome e l’indirizzo di un autista extracomunitario di sfortuna (aveva appena vinto un terno al lotto e aveva appena perso nello scolo di un tombino la cedola vincente), ma mi dette anche il suo numero telefonico e le sue misure di seno, vita e bacino, che accertai qualche ora dopo nella mia Lancia Beta coupè, divenuta, per l’occasione, comoda quanto una camera d’albergo di periferia.
Vero sera, quando tornai dai miei amici ero distrutto, ma felice ed in compagnia del sospirato autista.
Non appena lasciammo l’autostrada fummo accerchiati da mille procacciatori d’affari del settore alberghiero che ci offrirono a prezzi stracciati lunghi periodi di pensione completa. Trovammo, così, ampia disponibilità di vettovaglie e di posti letto, ma grande indisponibilità ad ospitarci, non appena gli albergatori si resero conto che eravamo in compagnia di cinquanta ragazzi scalmanati e un cancavallo. Come opzione ci fu offerta una masseria fortificata, a due passi dal mare, sprovvista di tutto e bisognosa di restauro.
Non ci restò che accettare con la promessa che avremmo provveduto noi a renderla abitabile e che ci saremmo preoccupati di ristrutturare ciò che ci era possibile nei dieci giorni di permanenza. Stranamente i ragazzi furono d’accordo.
Il trasferimento dal motel alla masseria non fu indolore. Dopo aver pagato tutti i danni che gli alunni avevano prodotto nel giro di una nottata, ci accorgemmo di aver ingaggiato un conducente che non sapeva condurci e che licenziammo dopo appena dieci km perché non sapeva orientarsi sulle strade italiane.
Fui costretto a lasciare la mia "Beta" nel parcheggio del motel e mi misi alla guida dell'autobus.
Fu un viaggio estenuante. La "Firenze-Bologna" era come il solito super battuta: veicoli che sorpassavano a destra, al centro e solo qualche volta a sinistra, tir spaventosi che in galleria correvano a trecento l'ora strombazzando in modo assordante, moto sfreccianti alla Capirossi, guidate da individui che di umano avevano solo il casco agganciato al braccio destro, pullman carichi di stranieri starnazzanti, guidati da autisti pieni di birra sino alla calotta cranica.
Invece che rizzarsi, i miei capelli si ondularono ed io acquistai un certo che di fascinoso, di eccentrico (come dimostravano i fischi prolungati delle mie alunne).
Knut, al contrario, super eccitato, affacciato a un finestrino, abbaiava furiosamente a tutto ciò che si avvicinava al nostro veicolo e di tanto in tanto lanciava un ululato prolungato.
Come Dio volle arrivammo a destinazione e potei finalmente rilassarmi.
Orsobruni, che non aveva aperto bocca per tutto il tragitto, mi si avvicinò e pronunciò le prime parole dopo ore di silenzio assoluto.
"Ti capisco- mi disse- ti capisco " e si lasciò cadere sotto un albero di prugne.
I ragazzi, dopo la delusione della Germania, furono presi da nuovo entusiasmo e si "catapultarono" fuori del pullman gridando da ossessi e capitombolando su un immenso prato verde.
Gianni fu portato fuori a braccia da Cassandra e dalla Bonelli e fu adagiato sul terreno ancora umido di rugiada. Il pover’uomo, lasciandosi cadere sul prato cacciò un mezzo urlo di dolore e prese a grattarsi disperatamente il volto e il ventre.

Tratto da Si vive di solo pane di Natalino Lattanzi

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