mercoledì 16 luglio 2008

De Vulgari Eloquentia

“DE VULGARI ELOQUENTIA”

Mi risvegliai, come dicevo, recitando il “Magnificat”.
La Bonelli reggeva una borsa di ghiaccio sul mio capo, imitata da Irene Belfagor che faceva altrettanto con Carlo.
Un bozzo enorme deformava la mia bella fronte spaziosa e mi procurava un mal di testa feroce.
Carlo, al contrario, sembrava rinato.
Non solo non ricordava come fosse finito in astanteria, ma addirittura pensava che non per lui ma per me l’intero collegio del “Benpensante” si fosse trasferito nel reparto psichiatrico del “Fate Bene Cognati”, vecchio e glorioso ospedale, fondato da Bonifacio VIII, poco prima di “trasferirsi” ad Avignone, “ospite” di Filippo il Bello, per farsi curare una fistola anale recidivante.
Sacramentando, gli feci presente che se un pazzo vi era tra noi quello certamente non ero io, ma la sua esimia persona e, offeso, gli girai le spalle e feci per uscire dalla stanza.
Immediatamente Carlo si sottrasse alle cure della sua samaritana e, libero della camicia di forza, corse ad abbracciarmi con una delle sue solite strette che ti incrinano le costole.
Tra vari scricchiolii di ossa lo scusai e mi scusai (insomma, ci salameleccammo) e lo invitai a riaccasciarsi perché le rispettive ci ricoccolassero.
Un fremito improvviso alla colonna montante della mia anatomia e un violento sommovimento intestinale mi spinsero, però, a volare verso il wc..
Mi accoccolai sul water, compressi il capo tra le mani e detti libero sfogo allo shock puteolente che venne espulso tra uno scoscio di applausi tutti interni al mio intestino per nulla riluttante a lasciarsi evacuare.
Impressionata dal fragore, Ofelia bussò alla porta del bagno e si tranquillizzò quando le risposi che finalmente mi ero liberato dagli incubi e che fumavo una rilassante Marlboro Light.
Il mio riposario, la mia stanza prediletta, ovunque mi trovi, il mio pensatoio si ottimizzò col fumo profumato che veniva fuori dalle sigarette che fumavo una dietro l’altra, mentre mi dedicavo alle riflessioni sul nostro essere, persistere, propugnare e pugnare per cose vacue ed effimere come la constatazione della vanità dell’opporsi all’opposizione del muro, l’impiego statale, le sessantanovate goderecce, la vita, la morte, il fumo, l’alcool, le multe prese per non aver voluto raccogliere la cacca di Knut, i sindaci pdellini e pdiessini artefici del dissanguamento dei cinofili, la contestazione di Moretti, il picconatore della dirigenza di sinistra colpevole di aver dato la precedenza a destra, i mori in patria, gli albanesi e gli extracomunitari necessari per il lavoro nero, la raccolta dei pomodori e la manovalanza della “mala”, lo sciopero generale, l’esercito professionistico, l’abolizione della leva, il servizio militare professionistico in terra “straniera”, inventato per incrementare gli introiti della Telecom per le lunghissime telefonate all’144 personalizzato (il numero telefonico della morosa), la giovinezza perduta sgobbando sui libri per uno stipendio di merda, Roma, Regina Coeli, il capitano Movais.
Immediatamente realizzai che eravamo ancora nella “città eterna”, che non avevamo fatto un cacchio di quanto ci eravamo proposti prima della partenza e che ci trovavamo in una clinica psichiatrica.
A simboleggiare la nostra pazzia, la nostra follia, madre matrigna e benevola, sorella di Alzaimer e cugina di Parkinson, era il disegno impossibile di cambiare il costume, tutto italico, di credersi dei padreterno non appena varcate le soglie di Montecitorio con tanto di blasone stampato sul culo.
Terminate le abluzioni di rito, venni fuori dal cagatoio avvolto in una nebbia tutta light che nascondeva le mie fattezze michelangiolesche.
Minchiuzzi, credendomi una apparizione di Allah, si prostrò ai miei piedi, ma fu subito preso a calci nel sedere da Gianni che già altre volte aveva assistito al “miracolo”.
Il rumore delle mandibole che sbattevano contro il pavimento fu seguito dal sibilo della chiostra dentaria di manifattura artigianale che volava sotto l’armadietto metallico in dotazione alle formiche e ai ragni dell’ospedale affinché potessero fornicare lietamente nelle segrete del buio artificiale.
Dopo aver recuperato la dentiera dalle fauci di Knut, comparso all’improvviso sulla scena del delitto, il povero Egidio, graffiato e addentato negli arti e nelle parti nobili del corpo, fu tramortito con un potente calmante, propinatogli dallo “scrollapalle” prontamente accorso, perché, in preda ad un raptus cinocida, agitava contro il “miglior amico dell’uomo” la scimitarra che porta con sé sotto il barracano.
Knut, come suo solito, saltò sul letto e cominciò a lubrificarmi la faccia con la sua abbondante e salivosa saliva, mentre con la coda roteante portava un po’ di refrigerio ad Ofelia che, tutta accaldata, tentava invano di rinfrescarsi con la borsa dell’ex ghiaccio scioltosi al calore delle alitate del mio quadrupede.
Non ebbi la forza d’indagare sul come, quando e perché Knut veleggiasse da quelle parti: mi rassegnai e carezzai i due metri quadrati di cranio del mio cucciolone.
La voce di Priamoide rintoccò per i corridoi della struttura sanitaria come una campana suonata per la Resurrezione ed Enea varcò la soglia della camera di Carlo seguito da uno stuolo di medici che lo ossequiavano come fosse il nuovo messia.
Per nulla stupiti, accettammo la realtà abituati, ormai, alle apparizioni straordinarie dell’ortopedico.
Il “pius”, ci fulminò con lo sguardo fulminante che utilizza quando vuol fulminare, poi, con aria professionale, si avvicinò a Sguizzi, gli pose una mano sulla fronte, ispezionò le tempie ed il cuoio capelluto, fregò la punta del naso, gli martellò le rotule, poggiò l’orecchio sulla spalla abbronzata, gli estorse due respiri profondi, gli strizzò lo scroto con tutto il suo contenuto ormonale, avendone in cambio un calcio nello stinco destro, e profetizzò una rapida guarigione in ambiente familiare senza supporto di alcuna cura psicofarmacosa (non mi guardate schifati: so bene che si dice farmacologia, ma poiché la logica non mi appartiene… non rompetemi i coglioni!).
Tra gli sguardi ammirati dei suoi colleghi, alzò la mano benedicente e andò via senza degnarci di uno sguardo.
I Commentari di Cesare son ben poca cosa raffrontati ai nostri commenti.
Si dice che il generale usasse la terza persona per parlare delle sue gesta e che utilizzasse un eloquio scarno e incisivo nel descrivere avvenimenti e personaggi caduti sotto la sua osservazione.
Beh, noi, utilizzando il”tu”, fummo molto più scarni del dux romano nel mandare benevolmente a fanculo il nostro amico epicureo non appena si presentò a noi nella consueta veste del “pius”.
Gli ricordammo che se Troia aveva dato i natali ai suoi avi, lui era certamente il più degno rappresentante dei figli di Troia tutt’ora esistenti e che eravamo fieri di essere suoi pupilli.
Enea ci guardò stranito, poi dichiarò di non sapere a cosa si riferissero i nostri complimenti.
Più straniti di lui gli raccontammo cosa era accaduto poco prima.
“Alt!- ci disse - ricapitolate! Non capisco un cacchio di ciò che mi dite. Non ero certamente io il primario venuto a visitare Sguizzi”.
“Ma come!- esclamai ridendo- non dire stronzate, ci vuoi prendere per il culo!”.
“No!- urlò Enea- siete voi che volete infinocchiarmi, approfittando del fatto che avrete saputo, non so come, che ho un fratello gemello di cui ho perso le tracce ancora bambino”.
“Ma che cavolo dici?- intervenni piccato- l’unico che avrebbe potuto esserne a conoscenza sarei io, tuo vicino e amico da sempre, ma che non so assolutamente un quiz del tuo gemello”.
“Allora vuoi dire che veramente avete visto il mio alter ego?”.
“Alter che?”- domandò Egidio, ritornando nel mondo dei meno.
Il clone del “pius” fu annunziato dal silenzio tombale che oppresse i corridoi della clinica.
Con passo veloce e sicuro rientrò nella stanza e apostrofò Guizzi ignorando completamente noi che astanteggiavamo: “muova le chiappe e torni a casa, mi occorre la sua stanza!”.
“Paride, sei tu?- bofonchiò Priamoide con voce commossa- sei proprio tu, fratello mio?”.
Il silenzio troneggiò sui nostri volti stupiti, istupiditi, e rigati di lacrime, di rimmel e di fard delle proff. che assistevano alla scena.
Il primario si girò verso il podologo, lo guardò fisso negli occhi, scolorò in viso e: ”porca vacca!”- esclamò tutto d’un fiato- sembra mio fratello gemello!”.
Enea, che non stava più nella pelle per l’emozione, con voce rotta dal riso violento, gli si lanciò contro per abbracciarlo.
Il primario, con una veronica alla Dominguin, lo schivò.
L’armadio metallico emise un gemito metallurgico quando il corpo di Enea gli si spalmò contro.
“Si contenga, signore! –pronunciò con voce severa il primario- non la conosco, non so chi lei sia, non me ne frega un cacchio di chi lei è. Io sono il primario Paride d’Albalonga, nativo di Roma, figlio dei marchesi d’Albalonga, nipote del generale Ippolito d’Albalonga, zio del ministro Osvaldo d’Albalonga, padre di due stupendi gemelli di nome Eurialo e Niso d’Albalonga, in onore di due miei fieri cugini banchieri, morti durante una battuta di caccia per mano di due guardacaccia che li aveva scambiati per bracconieri ”.
Enea a quel punto, piccato, si ricompose e si qualificò.
“Io sono- disse, gonfiando il petto- Enea Priamoide, primario ortopedico dell’Università di Bari, figlio di Troia, nella Daunia, prole di Ilio Priamoide, marchese di Troia, nipote del dott. Astianatte Priamoide, primario veterinario dell’Università di Urbino, zio di Ilione Priamoide, direttore dell’Istituto di Araldica di Castelfranco Veneto, celibe con nutrice a carico”.
“Nobile stirpe, certamente, ma mai coverta”- sibilò il primario dei fuori di testa.
“Mai coverta anche la sua! –si offese il mio amico- ciò non toglie che, purtroppo, ci somigliamo tremendamente…appurerò le sue origini, caro marchese!”.
“Ed io appurerò le sue!”.
La porta si chiuse violentemente alle spalle del mattologo.
Nella stanza il silenzio si tagliava come quelle belle fette di mortadella di puro suino, spesse un cm e profumate da far venire l’acquolina in bocca…
L’abbaiare furioso di Knut ci restituì alla vita.
Guardammo Enea e sbottammo in una risata generale.
“Che cazzo ridete?- ci apostrofò - non immaginate neppure un po’ quanto mi stia sul pisello quel cialtrone!… ma andrò a fondo della questione… Per quello che mi diceva mia zia Andromaca sui vari rami della famiglia, quello stronzo sarà certamente il nipote del cugino di mio nonno. Un montato del cazzo mi sembra…”
“Dai, non te la prendere-lo interruppe Ofelia, che aveva una certa familiarità con il mio amico- che t’importa chi sia?”.
“Che m’importa, dici?…non mene sbatte una mazza!… ma è la prosopopea che mi dà fastidio, la mancanza di educazione, la superbia, la coglionaggine, insomma!”.
La Tontac, che sino allora aveva taciuto, non ne poté più e: “Ma sì, ha ragione Enea,- sbottò- quello è un montato scemo e ha bisogno di una lezione! Marchese di qua, marchese di là…va a vedere che ce l’ha lui il marchese!… che stronzo!…”.
Il sommesso bussare alla porta interruppe le nostre rimostranze, ma scatenò l’ira di Knut che corse furioso alla parta abbaiando come una muta di cani all’inseguimento della volpe in una battuta di caccia.
Gianni, vista la mia impossibilità a trattenere la belva, mi sostituì beccandosi un ‘addentata all’avambraccio.
Sacramentando come un confratello di Ochalan, dette un calcione nelle terga di Knut, che venne da me a chiedere vendetta, e aprì la porta.
Per nulla turbato, un infermiere, smilzo come un grissino, somigliantissimo a Stanlio, il compare di Ollio, con fare riguardoso, si affacciò all’interno della camera e annunciò:
“Il primario, dott., prof., grand’Uff., cav. e comm. della Repubblica italiana, si onora di invitarvi a cena, nel refettorio della clinica, stasera alle diciannove e trenta. Ah, dimenticavo, le bevande sono a vostre spese”.
“Girò i tacchi” e andò via.
tratto da Si Vive di Solo Pane- Noi del Benpensante di natalino lattanzi

1 commento:

Tittyna ha detto...

Onorata, del tuo passaggio e della stima.
Grazie, grazie di cuore.