venerdì 18 luglio 2008

Il Buco

IL BUCO
La mia residenza estiva (il “buco”, per intenderci) è ricavata in un'ala di un vecchio castello ristrutturato, situato nella periferia del centro storico del mediterraneo paesino che mi ospita. Costeggia il mare.
Purtroppo (ma forse no, dopo tutto), il resto del castello è di proprietà di ben cinque famiglie rumorose, pettegole e rompiscatole, a me affezionate.
E’ inutile che vi dica che uno dei lotti è occupato dal mio inseparabile dott. Enea Priamoide.
Nei saloni del castello, nei tempi andati, bizantini, saraceni e francesi gozzovigliarono, dando sfogo, in preda al vino genuino delle nostre parti, ai loro "medio-bassi" istinti, le cui tracce sono ancora visibili nelle segrete, non più segrete da quando una traccia di umidità sul pavimento della cantina ne ha rivelato l'esistenza.
Asce, fruste, coltelli, scimitarre e pugnali, stendi ossa e fornaci annerite dall'uso frequente mostrano in tutto il loro splendore il sapore d'antico che traspira con l'umido della terra battuta.
Non nascondo che quando sono "incazzato" contro qualcuno mi rifugio in quegli antri bui e severi a rimuginare vendette e olocausti.
Il trentuno agosto, quando idraulici e urologi, meccanici e ortopedici, operatori ecologici ed enterologi, dentisti e autodemolitori, chirurghi e macellai, avvocati e secondini, ingegneri e muratori erano ancora sotto l’ombrellone a gustare gli ultimi sprazzi di sole e di libertà, Ofelia ed io eravamo chiusi nel mio ripostiglio- studio, ricavato da uno dei locali sotterranei, a cercare di buttare giù quella che sarebbe dovuta essere la colonna vertebrale dell’orario del nuovo anno scolastico, anticipando la richiesta del preside.
Sudammo come pazzi nel tentativo di assemblarci un orario uguale, ma alla fine i nostri sforzi trovarono la loro significazione: lunedì prime tre ore; martedì ultime tre; mercoledì prime due; giovedì ultime cinque, con un’ora di disposizione centrale per eventuale caffè; venerdì idem come sopra; sabato libero.
Il mio cellulare ad un tratto squillò.
La voce di Cassandra, petente e rogante, mi proponeva di sostituirmi alla sua famiglia, scomparsa nei flutti marini vent'anni prima per una gita andata assai male, e di farle da fratello, padre, zio e nonno in occasione della venuta di Ulrico, desideroso di infognarsi in un nuovo matrimonio.
Feci presente alla collega che la presenza di Ofelia le avrebbe garantito anche una sorella, una madre, una zia ed una nonna oltre che l'ospitalità nel mio "albergaccio".
Cassandra, pimpante come un ferragosto bagnato da una pioggerellina rinfrescante, accettò entusiasta.
Felici come due vigilie di Pasqua, Ofelia ed io facemmo una doccia fredda, mica tanto veloce, alternando giochi infantili ad altri ben più piacevoli, accompagnati dalla riprovazione per nulla silenziosa di Sarcinella, che spiandoci dal finestrino che dà nel “bagno” ci apostrofava con epiteti che è meglio non riferire.
La tavernetta riluceva di palloncini fluorescenti incollati al soffitto dall’ossigeno che li gonfiava, in perfetta sintonia con ciò che pensavo del mio amico “made in Deutchland”.
Candelieri d’argento e in silver illuminavano strategicamente i quattro angoli del locale, mettendo in risalto un grande tavolo ricoperto da una tovaglia allegramente variopinta e circondato da innumerevoli festoni colorati.
Antipasti di ogni genere, invece, erano poggiati su di un lungo buffet e troneggiavano risvegliando l’atavico istinto predatore del buon Knut, che con la bava alla bocca e la lingua penzoloni, di tanto in tanto si contorceva leccandosi i baffi e bagnandosi la pancia nella pozza di saliva che si allargava sempre più sul pavimento.
Nell’angolo mancino della parete opposta alla porta di ingresso della tavernetta, racchiuso in una nicchia, il mio vecchio pianoforte faceva mostra di sé in compagnia di una delle innumerevoli chitarre che uno dei miei otto fratelli, Vitulio (il “santo” per i parenti e gli amici), lascia presso di me, per assordarmi, quelle rare volte che viene, con il ritmo sfrenato della musica Jazz e del Rock and Roll.
Sul lato destro, in alto, era ben visibile un cesto di basket ( con cui mi alleno quando mi accorgo che è tempo di smaltire un po’ di grasso superfluo); la parete opposta, quella d'ingresso, invece, era parzialmente coperta, vicino la porta, da una sagoma per tiro al bersaglio, due carabine e due revolver ad aria compressa, che utilizzo di tanto in tanto, per essere pronto ad ogni eventualità.
In accappatoio e con i capelli ancora bagnati, Ofelia ed io ci sedemmo, vicini, su uno dei lunghi scanni di tipo francescano, che attorniano il tavolo dello stesso stile.
In quel momento fece il suo ingresso Cassandra con una coppa fumante colma di risotto ai funghi. Non appena ci scorse, conciati come se fossimo in una sauna tailandese, s’incavolò di brutto e ci spedì, di corsa, a rivestirci in modo consono alla circostanza.
“Siete due bastardi!” ci disse fra il serio ed il faceto.
Sghignazzando e borbottando allo stesso tempo, obbedimmo.
Non appena in camera mia, tirai fuori un sospensore e uno slip donatimi da Ulrico e l’indossai; tolsi dal “Foppa-Pedretti” un pantalone beige e una camicia a quadratini bianchi e rossi, spolverai un paio di stivaletti in pelle bordeaux e raccolsi un bandana sul verde penicillina dall’ultimo cassetto della scrivania. Accesi un sigaro avana, pregiato, ma ugualmente puzzolente e, così conciato, con fare texano, ridiscesi nella tavernetta.
Ofelia, invece, aveva indossato un abito che pareva “fine ottocento”, con trine e pizzi che venivano fuori da ogni parte, ma che, per ammissione della Ognimmorti, era adatto alla circostanza. Cassandra, infatti, lodò la scelta della Bonelli e guardò me con la solita aria che assume durante i "Consigli di classe" quando mi estraneo dal resto del mondo e vado dietro i miei pensieri. Allora, sì, vuol mandarmi a “quel paese”.
Per non farla innervosire più di quanto già lo fosse, misi via bandana e sigaro e tirai giù le maniche della camicia.


EPILOGO?
Lo squillo del campanello annunciò la venuta di Ulrico.
Era vestito di tutto punto: abito blu, camicia celestina, cravatta a fasce trasversali e sottili blu e rosse, scarpe leggere, di foggia inglese, nere. Era sudato in modo indicibile, con i capelli che mandavano giù per il volto, il collo, le spalle, il torace e oltre, acqua e gelatina. Le sue mani, quando strinse le nostre, sembravano due canovacci intrisi di detersivo liquido, tanto erano umide e scivolose.
Faceva tanta pena da far dimenticare tutte le “pene” di cui, sia pur inconsapevolmente, era stato causa.
Persino Knut, che non aveva mai mostrato molta simpatia per il “connazionale”, invece di aggredirlo a morsi e ringhiate, lo guardò con estrema compassione.
“Ch-vesta eshtate è lunca e focozizzima”- esordì Ulrico toccandosi il nodo della cravatta e girando il collo da destra verso sinistra, quasi volesse liberarsi del nodo scorsoio; poi, resosi conto che eravamo rimasti scioccati alla sua umida apparizione, pensando di non essere gradito continuò con tono di scusa, rivolgendosi a me: “ tua crrrande amica, mia dolce Cassandra ha detto essere qui crrande zorpresa per me...”
Capii di non essere stato molto ospitale col mio silenzio, per cui mi scossi dal torpore e lo invitai ad entrare, mentre il cielo si illuminava della luce dei lampi.
Il brontolio dei tuoni lontani accompagnò il teutone nel tinello.
Knut, intanto, cominciava ad innervosirsi per la tempesta che si avvicinava, correndo su e giù per i corridoi e abbaiando in risposta ai rumori della forza della natura.
Cassandra, ultimati i preparativi, ci raggiunse proprio nello stesso istante in cui cominciavamo, con il nostro ospite, a scendere la scalinata che porta alla tavernetta.
Il suo abito lungo e nero, appena scollato, i capelli neri sciolti sulle spalle, le labbra tinte di un verde melanzana, la collana di perle nere, come gli orecchini e l’anello che portava all’anulare destro e gli eleganti sandali, anch’essi neri, a tacco alto, le davano un aspetto tetro, da “vedova nera” (scusate se insisto), pronta a sacrificare sull’altare la vittima prescelta.
Confesso di essere superstizioso, per cui immediatamente mi toccai per gli scongiuri del caso.
“Maine piccola Hitler!- esclamò, invece, commosso ed entusiasta Ulrich il barbaro- maine dolce SS, stupehenda reincarnazzzioone di Efa Braun, maine ariana pruna, fera fig-lia della crrande Orope tetescha!...”
Scosso da singulti di riso che trattenevo a stento, guardai le due donne con fare interrogativo e frenai la prolissità dell’unno senza manifestare i miei più intimi pensieri; poi, per non sembrare scortese, detti una poderosa pacca sulle spalle del nostalgico, segno di benevola amicizia, e lo spinsi verso una sedia stile dogi, che Cassandra gli aveva riservato.
“Main Goth!- reagì Ulrico, battendosi il petto, tossendo e sputando per la saliva di traverso che gli impediva la respirazione.
Non so se vi ho detto quanto sia giocherellone Knut. Insieme facciamo il gioco della lotta, per insegnargli il comportamento da tenere in caso di aggressione al padrone: io con schiaffi, pugni e calci negli zebedei, lui con morsi ovunque capitino.
Beh! pensò che fosse giunto il momento ludico-didattico con un nuovo compagno che, evidentemente, aveva assunto il ruolo dell’aggressore.
Ringhiando e agitando furiosamente la coda, si scagliò, a peso morto, sul povero Ulrico. Sebbene gli urlassi di fermarsi, gli addentò il braccio destro, strappandogli il bell’abito nuovo di zecca, lo trascinò per terra, lo immobilizzò col suo enorme peso e gli afferrò la gola tra le fauci, come aveva visto fare in un film da un cane scapocchione come lui.
Von Peethoven, inebetito dall’assalto, sporco di saliva, lacero, contuso, in lacrime quasi, non potendo utilizzare le sue corde vocali, paralizzate dalla morsa di Knut, con gli occhi supplici, chiedeva aiuto.
La Bonelli, che come Ulrico non conosce l’intima indole gioiosa di Knut, urlava spaventata di fare qualcosa per salvare il pover’uomo.
Io, al contrario, tranquillissimo, poiché so che il mio cane, per sbranare gli indesiderati, ha bisogno del comando, detto con tono secco e imperioso: “squarta!”, lasciai che Knut desse libero sfogo all’inesauribile energia di cui è dotato. Quando mi accorsi, però, che Ulrico era lì lì per soffocare , biascicai: “molla!”e liberai lo straniero.
La Bonelli scandalizzata dal mio atteggiamento, dopo avermi etichettato barbaro e sadico, salì di corsa le scale che conducono al piano superiore e aprì la porta per andare via.
Aveva, però, fatto i conti senza Enea e tutti gli altri condomini del palazzaccio che, come avvoltoi, erano tutti dietro il nostro ingresso, attirartidall’abbaiare furibondo del mio cucciolone e dalle urla stridule di Ofelia. Come un fiume in piena, travolsero la mia collega, respingendola in casa, e affollarono il tinello circondandoci e subissandoci di domande. Cassandra, intanto, pallida come un bianco di uovo sodo, inebetita, come la maggior parte dei parlamentali che affollano le nosre due Camere, senza parole, addossata ad uno stipite, piano piano scivolava verso il pavimento quasi priva di sensi.
La Bonelli, intanto, riappropriatasi dello spirito rivoluzionario che è caratteristica imprescindibile del suo essere, montò sul tavolo e cominciò ad arringare la folla, aizzandola contro di me, colpevole di non saper gestire un mostro (Knut) e di sadismo nei confronti dell’umanità. Ma i miei condomini, allettati da tutto il ben di Dio che vedevano lì, sul buffet, pronto per essere divorato, parteggiavano per noi (Knut ed io, voglio dire), per cui accolsero le sue parole con manifesta disapprovazione, battendo i pugni sul tavolo e i tacchi per terra, sbeffeggiandola e intimandole di smetterla di profanare il suolo che le offriva ospitalità, pena un solenne “mazziata”.
Consapevole del rischio che correva, Ofelia dette una brusca svolta alla sua concione e cominciò a parlare anche dei meriti che avevo acquisito nei suoi confronti, dicendosi pronta non solo a scusare i miei piccoli difetti, ma anche a difendermi con le unghie e con i denti da coloro che approfittavano del mio buon cuore.
L’assemblea rumoreggiò, questa volta favorevolmente; si alzò persino qualche grido “viva la prof”, seguito da qualche timido applauso, poi condiviso da quasi tutti gli astanti. Infervorata dalle sue stesse parole, passò poi a vantare i meriti del proletariato sfruttato dai capitalisti, a lamentarsi dei bassi stipendi degli insegnanti, del costo della vita sempre più esoso, della Sanità e della Previdenza Sociale e della voracità degli industriali come Ulrico, che spolpano sino all’osso le capacità produttive degli operai, senza retribuirne gli straordinari. I condomini, tutti di sinistra, entusiasmati dall’orazione sindacale, dimenticarono me, Cassandra e Knut e, come un sol uomo si unirono in applausi fragorosi e ovazioni indirizzati alla Bonelli.
Enea, che aveva bevuto quasi tutto il contenuto di una bottiglia di brandy, sollevò di peso Ofelia e la portò in trionfo, mentre tutti gli altri guardavano con disprezzo il povero Von Peethoven che, spinto, accompagnato da cori di”buuuh, carogna, sfruttatore, aguzzino, stronzo” e altro che ora mi sfugge, zoppicante, pallido e intimorito, lasciò la mia magione.
Il cielo mandava giù torrenti d’acqua quando il meschino salì a bordo della sua Mercedes, accompagnato dagli ululati di Knut che cercava la luna e dal pianto disperato di Cassandra.

tratto da Homosex- Si vive di solo pane di natalino lattanzi

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