martedì 8 aprile 2008

SI VIVE DI SOLO PANE_2

COGITO… ERGO SUM
Il marciapiede antistante il nostro Istituto brulicava di docenti di ogni sesso e di ogni età, che blaterando, ridendo e vociando le solite sciocchezze che si dicono sull’utilità e brevità delle ferie, si ammassava nei pressi del cancello che, stranamente, alle otto e trenta, era ancora chiuso.
Il personale addetto alla vigilanza non era presente; Rosina, la cagnetta meticcia che aggredisce coloro che si abbigliano in verde (è un’antibossiana convinta), raspava contro le sbarre del cancello, dall’interno del cortile, poiché aveva individuato il docente di Educazione Fisica, Semprevergine, con indosso un appariscente giubbotto verde pisello e smaniava dal desiderio di saltargli addosso.
Il vicepreside, Antonio Maipago, alto due metri e sottile come un filo di ragnatela, di solito munito delle chiavi del “paradiso”, lamentava con la bellissima segretaria, Lucidia Lestofanti, elegantissima, al solito, di aver dimenticato i contenitori delle liquirizie e dei profilattici, che ha sempre con sé, ma non si decideva ad accostarsi ai catenacci.
Dopo circa mezz’ora d’attesa cominciammo a rumoreggiare, anche perché stava trascorrendo vanamente il tempo che di solito utilizziamo per il caffè.
Minchiuzzi, anziano collega di Genetica Umana, era l’unico a non lamentarsi, anzi ci rincuorava, si accostava di volta in volta presso ciascuno di noi, sfoggiando il nuovo colore dei capelli del suo parrucchino rosso pervinca e si pavoneggiava nella sua sahariana color Sahara. Di tanto in tanto tirava una boccata dalla pipa, tipo On. Marini. Dando poi ad intenderci, pensava lui, di spazzolarsi i calzoni alla cacciatore, si specchiava nei suoi mocassini di vernice gialla nuovi di zecca.
Era per noi uno spettacolo insolito; lo avevamo sempre visto con lo stesso abito liso, di un blu stantio, forse un tempo rigato, le scarpe nere da marmittone, una camicia smerlata, bianca, ingiallita dalla vetusta età e dalla mancanza d’igiene e un papillon rosso deformato e macchiato.
In particolare si soffermava nei pressi dei “volti nuovi” che, come ogni anno, stanno ad indicare il pensionamento di qualche vecchio collega o la sostituzione, per trasferimento ad altra sede, di qualcuno di noi, stanco del clima che agita il nostro Istituto, il “Benpensante”.
Gianni Estroverso, collega di chimica e amico da sempre (che tutti chiamiamo don Giovanni, per la facilità con cui riesce a farsi mandare a fare in culo, quando abborda una qualsiasi delle donne che popolano la nostra scuola), ed io notammo che Minchiuzzi, di solito attaccato alle nostre chiappe, non appena riusciva ad avviare il benché minimo approccio, tirava fuori da uno dei tasconi della giacca un blocchetto, strappava un foglio e lo porgeva al suo interlocutore, ricevendo, in cambio, sperticati ringraziamenti e strette di mano.
La faccenda c’incuriosì.
Continuando a passeggiare, discutendo del meno più che del più, con non chalance gli si avvicinammo e spiammo le sue mosse.
Una collega, giovanissima, biondissima, pallidissima, magrissima, con le gambe che parevano due Würstel scottati, tutta tesa nell’affannoso tentativo di rompere il ghiaccio e di inserirsi educatamente nel contesto del “Benpensante”, timidamente cercava di avviare una conversazione con una prof. grassottella, rossa di capelli, di gote, di labbra e di vestimenti, anche lei a noi sconosciuta.
Non appena a tiro del buon Minchiuzzi, fu abbordata con un gran sorriso e una stretta di mano cameratesca. Subito dopo il buon Egidio, nome di battesimo del collega di Genetica, tirò fuori il famigerato blocchetto da cui strappò uno dei tanti strani foglietti e lo consegnò a Geltrude (questo il nome della pallida collega): “La sventurata rispose”, direbbe il Manzoni buon’anima.
Non appena la collega si rese conto di cosa avesse avuto, con gli occhi che le lucevano per la gioia, ringraziò Egidio e lo abbracciò.
S’innescò, quindi, un meccanismo perverso che coinvolse, pian piano, tutto il corpo docente, il personale A.T.A. e persino qualche operatore ecologico che, stranamente, stava ripulendo il marciapiedi antistante la scuola dalla montagna di rifiuti accumulatasi nel corso dei mesi estivi.
Vecchi e nuovi docenti si affollarono intorno a Minchiuzzi, che distribuiva affannosamente foglietti verdi, rossi e gialli con tanta magnanimità da spingere anche coloro che non erano mai stati del suo partito a profondersi in ringraziamenti e a magnificarlo, untuosamente, con lodi esagerate.
Capitò anche tra le mie mani uno dei misteriosi foglietti (Minchiuzzi me lo passò velocemente con una strizzatina d’occhi). Non appena ebbi la possibilità di leggerlo, dopo averlo difeso strenuamente dall’assalto di cinque colleghi e tre applicati di segreteria, lanciando pugni e calci e tirando fuori il temperino che porto sempre con me, con un urlo alla Tarzan, mi lanciai nel groviglio umano che circondava Egidio.
Il poverino, quasi a secco di foglietti, si difendeva dall’assalto giurando che l’indomani ne avrebbe portati più ancora, di altri colori, e implorava che non gli tirassero la giacca, che non gli si aggrappassero ai pantaloni, che non gli mettessero le mani in saccoccia: via, che lo lasciassero in pace!
Certamente pentito della sua iniziativa, cercò scampo nella vecchia “seicento” color sterco di canguro diabetico, venato di verde, che lo scarrozza da circa trent’anni.
I più scalmanati, però, lo inseguirono, circondarono la vettura e cominciarono a farla ondeggiare tra cori osceni e fischi, dapprima lentamente, poi sempre più velocemente.
Minchiuzzi, con gli occhi sbarrati, pieni di terrore, pregava che lo lasciassero andare, prometteva balle di fogli variopinti a tutti e regali consistenti per chi lo aiutasse a togliersi da quel pasticciaccio.
Sotto una spinta più forte la “600” cigolò, singhiozzò, mandò fuori tutti i liquidi in sua dotazione e si capovolse.
Egidio si ritrovò a testa in giù, con la sahariana che gli copriva il volto e impediva a noi di apprezzare la paura, il dolore e l’odio che trasudava il nostro collega.
Alle sue urla disperate fece eco la sirena del “113”.
Una “volante” della polizia frenò alla disperata e speronò ciò che restava della “seicento”, facendola capovolgere nuovamente e spingendola contro il cancello dell’istituto che, come nella favola di “Alibabà e i quaranta ladroni”, schiuse i suoi battenti.
Infischiandoci di quanto stava accadendo e dimenticando il povero Minchiuzzi, come un sol uomo attraversammo il cortile.
La porta a vetri che introduce all’interno della scuola era fortunatamente aperta per cui, senza fatica, raggiungemmo la “sala professori” e occupammo ciascuno i propri scranni. I nuovi occuparono i posti vuoti.
Completamente dimentichi di quanto era avvenuto poc’anzi, discutevamo piacevolmente dei nostri casi, quando la sala fu invasa da cinque poliziotti e quattro carabinieri.
Con sguardo truce e voce arrogante chiesero i nomi di tutti, li appuntarono sui loro taccuini, ci voltarono le spalle e andarono via.
A quel punto cominciammo a preoccuparci e a chiederci che fine avesse fatto Egidio. Non vedendolo arrivare, “alla spicciolata” uscimmo dall’Istituto e attraversammo il cortile.
Minchiuzzi era lì, accoccolato sul marciapiedi, che piangeva di rabbia raccogliendo i suoi preziosi foglietti gialli, verdi e rossi, sparsi dappertutto.
Gianni ed io lo aiutammo a rimettersi in verticale e mentre gli spazzolavamo con frenetiche pacche la sahariana, inavvertitamente facemmo cadere dalla tasca interna della giacca un fascio dei famigerati foglietti.
Una folata di vento fece il resto.


I PRIMI SARANNO GLI ULTIMI




Il nostro bar, dovete sapere, è rinomato in tutta la città per il gestore che, ovviamente, lo gestisce: Leonzio, ovvero il gobbo di “Notre Dame”, come lo chiamiamo noi.
Ci è affezionatissimo, ci fa sconti anche sull’acqua di rubinetto (solo cinquecento lire il bicchiere), è pronto a procurarci di tutto, dalle sigarette di contrabbando ai filmini pornografici, alle pistole e ai bazooka; non vende droga per principio: si farebbe “pere” giorno e notte. Sa tutto di tutti e ciò che non sa lo inventa. E’ gobbo, basso, scurissimo di carnagione, di baffi e di barba, veste di rosso e nero ed è tifoso del Milan. Nato a Siviglia, parla un linguaggio strano, che lui definisce “muquelas” e che ci traduce, quando lo ritiene opportuno, in dialetto sardo. Ci ha fregato su tutto sin quando non è giunto il bidello Elias Porcu, il quale gli si è associato con discreto profitto. Ora sono in due a fregarci.
Elias risponde pienamente al suo cognome: è alto due metri, bruno in tutto, un po’ perché così ha voluto madre natura, molto per sua scelta. E’ sporco come pochi ed emana un fetore che guai a trovarsi sottovento; veste alla marinai francesi, con pantaloni larghi e corti alle caviglie su dei sandalacci schifosi che porta in ogni stagione e una maglietta di cotone a strisce bianche (si fa per dire) e rosse, con maniche corte.
Leonzio, per fortuna, non c’era. Potemmo, così, forzare i lucchetti delle vetrinette e dei frigoriferi, per procedere al rinvigorimento nostro e del preside.
Niente da fare: Leonzio aveva portato tutto via; le bottiglie esposte in vetrina erano vuote, mentre nel frigorifero c’erano solo due ragnetti che si accoppiavano contorcendosi e tessendo la tela della loro alcova.
Sconsolati, ma solo per non aver potuto usufruire gratis delle consumazioni, tornammo dal capo d’istituto che, seduto su un vecchio sgabello, si teneva il capo, con la mano sulla fronte e il gomito sul ginocchio.
Sembrava invecchiato di cent’anni, con la barba ispida e il bavero della giacca alzato. I calzoni sgualciti e la camicia, senza cravatta, chiusa sul collo, gli stringeva la gola e lo riduceva al rango di povero mortale, come noi, che, per sua costrizione, lo veneravamo come un dio. Gli occhi semichiusi lasciavano trasparire due lacrimoni che lentamente gli scendevano lungo le gote, rallentando sui ciuffi più folti di barba e correndo veloci, una volta superato l’ostacolo, lungo i solchi profondi delle rughe.
Geltrude, desiderando accattivarsi la simpatia del preside, gli era accanto e cercava di consolarlo massaggiandogli le clavicole e sussurrandogli parole di conforto, ma senza risultato.
Il vice Maipago, a quel punto, prese in pugno la situazione e, mostrando una sicurezza che tira fuori solo quando deve appiopparci le supplenze, con voce forte, dette due pacchette sulla spalla del preside (a nostro beneficio, ma soprattutto di Minchiuzzi, il rivale, a mostrare quanta confidenza lo legasse al capo), e lo rincuorò: “Suvvia, solo alla morte non c’è rimedio!”
A quelle parole il preside scoppiò in un pianto dirotto, senza freni, incontenibile, straripante come i fiumi della Padania, quando vogliono fottere Bossi o il Governo.
“Solo alla morte non c’è rimedio? -singhiozzò il preside- Ma che sai tu che cacchio mi è accaduto... solo alla morte non c’è rimedio, dice questo stronzo.
Io ho perso tutto! (poi quasi sottovoce) non ho più niente…
Nel mese di luglio, quando ero qui a scuola, mentre voi ve la stavate grattando al mare, in montagna, ai laghi, chiesi a Leonzio di acquistarmi un “gratta e vinci”, così, per gioco. Quel figlio di puttana me ne rifilò subito uno che, a suo dire, aveva preso per sé. Pagai le due mila lire che mi chiedeva e mi chiusi in presidenza a sfogliare la margherita della fortuna: cazzo! Tre miliardi, diceva il biglietto... avevo vinto tre miliardi!”
Mentre parlava il pover’uomo si asciugava il sudore copioso che gli scendeva dalla fronte e faceva gesti sconsolati, agitando le mani freneticamente.
“Per la gioia – riprese dopo una breve pausa, passandosi la lingua sulle labbra aride- ululai come un lupo, corsi fuori della presidenza e baciai Rosina sul muso nero, chiamai Leonzio a gran voce e lo invitai a partecipare alla mia estasi, offrendogli il dieci per cento della vincita e un bitter al banco.
Leonzio dapprima sembrò amareggiato di avermi ceduto il biglietto, ma poi si consolò dicendomi che, comunque, aveva piacere che lo avessi preso io e non un altro. Telefonai immediatamente a mia moglie, che senza emozioni, mi chiese subito due pellicce e una villa al mare.
Non battei ciglio: mi attaccai al telefono e chiamai un ben noto presentatore televisivo affinché mi raccomandasse ai pellicciai che pubblicizza nelle sue trasmissioni. Mi mandò garbatamente a quel paese ma, quando seppe che avevo vinto tre miliardi, mi dette l’informazione che chiedevo, commentando: “Ora è dei nostri, eh? allegriaaa!”.
Subito dopo telefonai alla migliore agenzia immobiliare e prenotai, a scatola chiusa, la villa più bella che avessero. Preso da mania di grandezza, chiamai il segretario del ministro Merlinpace e gli dissi di riferire al suo capo che era un coglione e che mi dimettevo da preside, come specificai nel fax che inviai immediatamente.
Soddisfatto delle mie decisioni, mi precipitai dal rivenditore d’auto americane e acquistai la vettura dei miei sogni: una “Cadillac” gialla! Quando, tutto trionfante, tornai a casa, trovai mia moglie che mi aspettava col telefono tra le mani: Elias Porcu voleva parlarmi. Euforico come non mai, lo salutai con un “ciao, bello!”. Dall’altro capo del telefono, invece, mi rispose una voce impastata, stentata, intimidita e il suo “bbuonggiorno, pressidde” m’insospettì.
Tutto d’un fiato, poi, come per togliersi un macigno dallo stomaco, Porcu mi raccontò, in italo-sardo, che Leonzio aveva acquistato il biglietto del “gratta e vinci” da un distributore abusivo e sospettava che fosse contraffatto, falso.
“Falso?...” – gridai, stringendo la cornetta tanto da romperla. La comunicazione s’interruppe. Corsi all’altro telefono per richiamare il mio dipendente, ma inutilmente, la sua linea dava sempre il segnale di occupato.
Mia suocera, che abita da noi, fu la prima ad accorgersi del terribile stato d’animo che mi attanagliava e, come una Cassandra, quando raccontai tutto ai miei familiari, sentenziò: “sei stato preso per il culo...” Io, al contrario, non ero per nulla rassegnato, forse volevo illudermi, e mi misi alla caccia di Leonzio. Ma niente, scomparso, capite, scomparso era quel disgraziato!
Sebbene il sospetto si fosse insinuato ormai in me, andai in banca e depositai il biglietto, pregando il direttore di svolgere la pratica presso gli organi competenti.
Trascorsi due giorni d’inferno, poi, finalmente, il giorno successivo fui chiamato in banca per riscuotere la vincita.
Felice come non so dire cosa, beffeggiai mia suocera (stronzo!- mi aveva detto- non esiste un gratta e vinci da tre miliardi...), le dissi di cambiare aria, ché non sapevo che farmene della sua pensione di tre milioni mensili.
Fuori, ad aspettarmi, c’erano il direttore e una quindicina di agenti di polizia e della Guardia di Finanza.
Non appena fui a tiro, quattro agenti mi afferrarono per le braccia, gambe, collo e mi ammanettarono.
Non vi dico lo stupore, il dolore che provai; io, Pierpaolo de Fulgentiis, essere ammanettato così, per strada, alla presenza di tanta plebaglia che, incuriosita, mi accerchiava, domandava, ridacchiava non appena sapeva che ero un uomo di cultura, un manager nel mondo della scuola.
Fui malmenato, palpato e perquisito negli anfratti più reconditi del corpo, spinto in una vettura dei finanzieri e tradotto in una questura di periferia.
M'inchiodarono, mentre io protestavo a viva voce la mia innocenza, su una sedia sgangherata presso una scrivania vecchia e puzzolente, dietro la quale sedeva un commissario di polizia arcigno, strabico e armato di un manganello che batteva ripetutamente, con violenza, sul palmo della mano.
All’improvviso mi appiccicò sugli occhi una lampada da duemila Watt e mi bersagliò di domande su chi mi avesse dato quel biglietto, quando lo avessi avuto, se conoscessi “Ciccio il guercio”, di che famiglia mafiosa facessi parte, quanto mi fruttassero il toto nero, lo spaccio della droga, la tratta delle bianche e la prostituzione.
Un giovane magistrato che assisteva all’interrogatorio mi accusò di aver preso parte a tutte le stragi compiute nel Paese prima e dopo la seconda guerra mondiale; un altro, venuto per caso in questura, vedendomi affranto, con la barba non fatta, la camicia sbottonata e senza cravatta, m'imputò la diffusione di videocassette di contrabbando, il commercio di organi umani e mi tacciò di pedofilia...
Mi crocifissero –disse dopo una breve pausa, mentre si passava una mano tra i capelli improvvisamente ingrigiti.- Per fortuna- riprese immediatamente- Leonzio, rintracciato da mia moglie attraverso un boss mafioso suo amico, si presentò “spontaneamente” in caserma, con le due braccia ingessate e un'appariscente fasciatura al capo, e mi scagionò, assumendosi la responsabilità del biglietto della lotteria, e sostenendo che si era trattato di uno scherzo (ma che scherzo!) ai miei danni.
Ovviamente nessuno gli credette; ci furono indagini, altri interrogatori, minacce, diffide, ma, alla fine, il ventotto agosto mi lasciarono libero.
Non mi sono ancora ripreso da quella disavventura scioccante, da incubo! Sto cercando di correre ai ripari col Ministero della Pubblica Istruzione, anche se pare che non ci sia niente da fare: sono in quiescenza, senza stipendio per non raggiunti limiti d’età e di servizio!
Mia suocera, frattanto, ha fatto le valige ed è andata a convivere con l’avvocato che abita nella nostra stessa palazzina e che è un mio acerrimo nemico.
Sono disperato, rovinato! I miei debiti hanno raggiunto un tetto da modulo satellitare, mia moglie ha deciso di stabilirsi presso il boss suo amico, i miei figli fingono di non conoscermi...
Ho coinvolto tutte le amicizie importanti che credevo di avere ancora, ma niente... c’è un muro tra me e il mondo esterno” concluse l’ormai ex preside.
A quel punto Maipago e Geltrude si ritrassero dal diseredato e lo guardarono con commiserazione mista a ripugnanza e disprezzo, quasi fosse un appestato.
Il silenzio scese pesante come una balla di merda di vacca: ci guardavamo interrogandoci con gli occhi, senza sapere che fare e che dire.
Elias Porcu ci riportò alla realtà, con il suo solito rumoroso annunciarsi: “bbuonggiorno a tutti!- disse con voce ululante, mentre per la sua immensa presbiomiopia, mai corretta da alcun tipo di lenti, travolgeva docenti e sedie che intralciavano il suo cammino- hho fatto un incciddente, ma ssonno rriuscitto a schivvarre tre autto e ccinque ppeddoni!”.
La sua, infatti, è un’avventura quotidiana; non riusciremo mai a capire come faccia ad arrivare sano e salvo a scuola e a non investire i poveri disgraziati che sono sulla sua strada.
“E’ arrivvatto l’ispettorre centralle?- continuò, masticando una gomma americana- dovvevva esserre qui alle nnovve.”.
“L’ispettore centrale?- farfugliò con timore l’ex preside- a che fare?”
“E cche nne sso iio?- rispose Elias- ccossì hha detto al telleffono”- e si ritirò nel suo bugigattolo, lasciandoci tutti di stucco.
Il silenzio scese tra noi come due balle di cacca di elefante.



tratto da Homosex - Si vive di solo pane di Natalino Lattanzi

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