un caso di malasanità: la supplentite
È una malattia poco conosciuta, ma non rara. Colpisce in particolare i docenti di merceologia, ma è pericolosamente contagiosa.
Non sono pochi, infatti, i proff. che ne sono colpiti, alcuni in modo grave, altri in forma lieve.
Purtroppo non esiste vaccino.
Mocchh’ a chi v’è murt’.
È Sandrino Tullìolo, che si presenta, più o meno così, ogni mattina.
È con noi da un lustro abbondante.
Medio-basso, brizzolato, carnagione gelso bianco maturo, coppola mafiosa, occhi strabordanti, dentatura a fessure, è dotato di una delicatezza senza pari.
Si presenta ogni mattina, rumoroso come un elefante in un deposito di tegami di ferro, animato da un’unica intenzione: supplire a pagamento tutto e tutti, anche il preside, se fosse possibile.
Sappiamo che il suo primo pensiero, non appena desto, è rivolto affettuosamente a noi, al corpo docente cioé.
Il suo ingresso in segreteria è preceduto da una sosta in portineria, al cui sportello, su una mensola, è il registro delle assenze.
Passa in rassegna prima quelli che il giorno prima avevano dato segno di essere in odore di influenza porcina, poi quelli che avevano lamentato mal di schiena e scricchiolio delle ossa, poi i docenti provvisti di 104 per la tarda età dei parenti stretti e, infine, quelli più anziani, i pensionandi.
Augura a tutti un impedimento legato a morte prematura, morte matura, morte degli avi per ictus, infarto, o che so io, e, dulcis in fundo, ripercorre a mente i nomi dei colleghi quotidianamente sulla circonvallazione, perché non si sa mai, un incidente può sempre capitare.
Certo, più serio è l’intoppo più si allungano i tempi di assenza: che siano almeno tre, però, ma anche uno non guasta.
Eh sì, perché Sandrino ha dato la sua disponibilità tutti i giorni, in tutte le ore di buco e no.
Qualcosa – pensa – deve pur uscire.
Il morbo lo attanaglia in modo feroce e, quando entra in crisi d’astinenza, sfodera un repertorio in lingua indigena che la Zanichelli dovrebbe approfittarne per tirar fuori l’ennesimo dizionario.
A fine quadrimestre si ritrova con un monte ore di supplenza che supera quello curriculare; tanto c’è il compresente, Masino Lafaina, con cui divide fughe e imboscamenti.
Perché, dovete sapere, Lafaina è pure lui gravemente ammalato.
La malattia si presenta in varie forme; quella di Masino è supplentite paraculata.
Chi ne è portatore mostra grande cortesia, sfodera sorrisi a iosa, saluta.
Purtroppo il morbo in soggetti di questo tipo è subdolo, nascosto, ma estremamente letale.
Come complicanza ha la chiarchiarite, che trasforma il portatore in (si spera) innocuo iettatore.
Con fare nonchalantico (neologismo di origine barbarica), Lafaina, non appena c’incontra (ma noi pensiamo che faccia apposta a incontrarci), s’informa se tutto sia a posto, se deve sostituire qualcuno, che glielo si dica in tempo altrimenti ha da fare, se i suoi teorici, lui che è un pratico, sono presenti o se deve sciroppare in solitudine le ore di lezione.
Poi, dando a intendere che ha dimenticato qualcosa in portineria, si avvicina alla sacra bibbia e fa scorrere gli occhi a fessura sulle stanche pagine. Mostra sommo gaudio se vede il suo nome tra i tanti prescelti e va in classe con aria sconsolata se manco un’ora gli è stata attribuita. Però si rassegna e poco dopo, se t’incontra nuovamente, ti risaluta a occhi bassi con un lieve sorriso che gli increspa le labbra.
È lì che entra in gioco la chiarchiarite: chissà che maledizione sta invocando su di te!
Per fortuna ricorrono vari rimedi per non essere toccato dal maleficio: il più efficace consiste nel toccarsi contando sino a 13 e mezzo, ma ve ne sono altri, anch’essi efficaci. È sufficiente, di solito, impugnare saldamente un mazzo di chiavi, incrociare le dita, stringere cornetti e gobbetti nel palmo della mano. Solo come estrema ratio occorre segnarsi con un aglio ed esclamare a alta voce vade retro satana.
Quest’ultimo rimedio è però vivamente sconsigliato perché gli agnostici ti prendono per pazzo.
Lafaina si accompagna spesso a Tonio Hazzone (perché lo pronunciamo alla toscana), uomo di non gradevolissimo aspetto per la consuetudine che ha, da quando ha contratto la malattia, di sfregare energicamente il suo posteriore. Ovviamente nessuno di noi è disponibile a scambiare con lui strette di mano e, quando proprio non ne possiamo fare a meno, subito dopo corriamo in bagno a lavare i nostri arti prensili.
Anche Hazzone ha crisi di astinenza, specie in prossimità delle feste natalizie quando, magicamente, cessano le assenze e con esse le supplenze. L’anno scorso Tonio ha trascorso la vigilia in sala operatoria per la più grave crisi avuta in corso di supplentite. Prese a grattare con tale veemenza il suo posteriore da irritare irrimediabilmente le emorroidi, tanto che fu necessario l’intervento. Per più di un mese non è venuto a scuola ed è stato supplito per lo più da colleghi non affetti dal morbo. Il primario ci confessò che quello è stato il periodo più terribile per Tonio, che voleva venire a scuola a supplire se stesso. Una fiala al giorno di valium per via rettale di solito era sufficiente a calmare la sua frenesia. A volte, però, i medici sono stati costretti a inc… insuflarlo per ben due volte al dì.
L’altro caso disperato è quello di Water (ci fu un errore anagrafico: i genitori dichiararono all’ufficiale anagrafico Walter, ma il colletto bianco, premonitore, omise la elle) che porta il nome di un imperatore: Vespasiano. Comunque è un uomo famoso: Vespasiano è scritto su tutti i cessi della città.
Ebbene, Vespasiano è affetto da una forma complessa e anomala di supplentite. È esplosa all’inizio dell’anno, anche se i prodromi risalgono a un paio d’anni fa, come si rileva dall’anamnesi verbalizzata da un medico psichiatra in crisi, marito di una collega in crisi perché impossibilitata a gestire una casa di 200 metri quadri, se non con un orario ad personam.
Noi non abbiamo potuto prendere visione della perizia per via della privacy, che mai come in questo caso è appropriata, ma sono stati i fatti successivi a rendere chiara la sua patologia.
È accaduto, infatti, di recente, che siano cresciute nella classe di concorso di merceologia quattro ore da assegnare a un docente precario. Beh, Vespasiano, che sin allora non aveva dato cenni manifesti di malattia, è stato preso da attacchi di pettegolite, una complicanza della supplentite. Come una gestante presa dalle voglie alla conta dell’ultima settimana, ha dato in smanie, straparlando contro la dirigenza, perché il surplus orario fosse affidato a lui e a lui soltanto. Cosa che, chiaramente, non è accaduta.
Ha preso, così, a snocciolare rosari a bassa voce, specie quando c’incontra, e non appena gli voltiamo le spalle ci fa le corna.
La cosa, ovviamente, ci ha arrecato grande disagio.
Come cacchio ha fatto a sapere i fatti nostri? – ci siamo chiesti sorpresi.
Abbiamo pensato, allora, di rivolgerci al presidente della Regione, il dott. Ricchiuti, perché si desse una mossa e vedesse di arginare questi casi di supplentite, ormai a rischio di divenire pandemia.
Il presidente ha risposto alla nostra interrogazione chiedendo a sua volta se tra i monattati vi fosse almeno un omosessuale o, nel peggiore dei casi, qualche docente con due orecchini, altrimenti gli sarebbe stato impossibile intervenire presso il ministro della Salute Pubblica per avviare una ricerca farmacologica.
Disgraziatamente, per i dati ufficiali tra noi non vi sono pederasti dichiarati, c’è solo qualcuno delle nuove leve che si fregia di un orecchino, però sospettiamo che una discreta percentuale sia sulla strada della pederastite.
Ricchiuti ci ha risposto incazzato: No ricchioni, no party!
Il potere della pubblicità!
Ancora una volta è stato dimostrato quanto le strutture pubbliche siano inefficienti per la scarsa attenzione che i politici dedicano ai gravi problemi che attanagliano il Paese.
Ormai siamo in piena pandemia, Il morbo si diffonde rapidamente. La triste previsione, tragicamente confortata dall’indagine demoscopica affidata al dott. Mannheimer di Porta a Porta, è che avrà un breve intervallo durante la Pasqua del Signore, per riprendere, flagellante, sino al 30 di Giugno.
Poi tutti al mare!
lunedì 7 dicembre 2009
martedì 1 dicembre 2009
Cose che capitano
COSE CHE CAPITANO
Beato chi può!
Io non può, evidentemente.
Cavolo, ero lì a lavorare con Porzia e Del Cozo l’Africano, quando entrò in vicepresidenza Fallonio, o come fallo si chiama, il nuovo collega di Fisica, con aria dispiaciuta, anzi imbronciata.
Era infagottato in un cappotto marrone, non so se di capra o di bisonte, la barba appena accennata sul volto e gli occhi bassi, come lui, del resto. Mi pareva Brunetta casual.
– Piccolo, che ti succede? – gli chiese Porzia, tutta materna.
Fallonio la guardò, poi spostò lo sguardo su Del Cozo e me, senza parlare.
Porzia ripeté: – Piccolo, c’è qualcosa che non va, guai in famiglia, la mamma non sta bene, il piccolo del piccolo è ammalato?
Fallonio si prese una pausa di riflessione.
Noi eravamo in ansia per lui.
Ehi, piccolo, parla, sei tra amici.
– Questa è una grande famiglia, – incalzò Del Cozo, – sii franco!
Franco Carbonchio si affacciò nella stanza: se è per una supplenza, oggi non posso; devo fare l’evacuazione.
– Evacua pure, – intervenni, – come ha detto Saverio, questa è una grande famiglia, patriarcale, anzi; un po’ d’olio di ricino non si nega a nessuno.
Franco, da quando si è rifatto gli occhi, è diventato birichino. Dice che vede tutto sotto altra luce e che non è disposto a fare il tappabuchi, ora che i buchi degli occhi glieli hanno allargati.
Mi guardò in tralice e poi, con quell’affetto che traspare dal suo volto ogni volta che teme che qualcuno lo voglia gabbare, mi mandò affanculo: sempre voglia di scherzare, mi disse poi, passandosi una mano sulla pelata nel vano tentativo di mandare indietro capelli che non ha mai avuto.
Porzia lo rassicurò: – Non devi tappare nulla, parlavamo con Fallonio.
– Come si chiama?
Fallonio venne fuori dalla trance e borbottò qualcosa come «Eduardo Fallonio» o, almeno, così volemmo sentire.
Poi ingrugnì: – Non ti piace?
– Per carità, – sbottò Franco, – abbiamo i colleghi Budellazzi, Cazzolla e Pompilio… cosa vuoi che ci faccia un Fallonio in più!
Il collega di Fisica ricadde in trance.
– Piccolo, Franco scherza. Come ti ho detto, questa è una famiglia.
Un rosato non si nega a nessuno.
In effetti, Concetta era sulla soglia, non che aspettasse che le si desse il permesso di entrare, ma per questioni di spazio. La vicepresidenza, infatti, è un bugigattolo piccolo, stretto e con intonaco gonfiato per le infiltrazioni che provengono dal bagno di servizio attiguo, ma climatizzato. Come dicevo, la Rosato confortò il nuovo acquisto assicurandogli che Franco è come Gorbaciov, sembra cattivo, ma è un pezzo di pane, un po’ rancido, ma sempre pane è.
Eduardo si riscosse per la seconda volta e ci disse che voleva un po’ di privacy.
La privacy non si nega manco al peggior nemico, perciò pregammo Franco e Concetta di lasciare che il nuovo assunto si confessasse con la sola triade, cioè Porzia, Saverio e io.
Non appena soli, Eduardo aprì il suo caier de lagnance.
Ci disse, il fisico, che la sua situazione era drammatica, unica e non assimilabile ad alcun’altra.
Lo esortammo e preparammo i nostri scottex.
Il poverino ci confessò di abitare in una grande villa nella foresta in cui svettava un solo albero, un banano. L’ unico mezzo di trasporto, sino alla prima carrabile, erano le liane. Per tanto, sin quando smetteva l’habitus tarzaniano, metteva a cuccia Cita, rimpinzava di banane il gorilla guardiano, rassicurava la moglie e distribuiva lecca lecca ai bambini, si facevano le 21 serotine. Ciò rendeva impossibile la sua presenza ai collegi e ai consigli di classe che inopinatamente il preside, senza chiedere un suo autorevole parere, destinava dalle 17.00 in poi. Quindi, data l’illogicità delle decisioni dirigenziali, egli, l’Eduardo, si sentiva in dovere di sottolineare il comportamento irresponsabile del capo d’Istituto, ne chiedeva l’immediata destituzione e si dichiarava disponibile a sostituirlo.
Brunetta Secondo terminò il pistolotto tra le nostre lacrime che gocciolavano dagli scottex ormai inservibili.
Mi asciugai le lacrime e pensai che anche io possedevo una foresta con un albero quasi in fin di vita, ma la villa , quella, cazzo, no!
Guardai Saverio e capii che eravamo sulla stessa scia di pensiero. Lui, infatti, se è pur vero che la villa ce l’ha, ha però perso da tempo foresta e albero!
Ci consultammo con Porzia.
La nostra è una triade di pensiero e di azione, come Mazzone, cioè Mazzini, e decidemmo: l’ammutinamento sarebbe stato più feroce di quello del Baunty.
Congedammo il gerarca al grido di Eia, Eia mio capitano!
Fallonio ha ricevuto una riservata personale con tanto di timbro della Repubblica Italiana.
Beato chi può!
Io non può, evidentemente.
Cavolo, ero lì a lavorare con Porzia e Del Cozo l’Africano, quando entrò in vicepresidenza Fallonio, o come fallo si chiama, il nuovo collega di Fisica, con aria dispiaciuta, anzi imbronciata.
Era infagottato in un cappotto marrone, non so se di capra o di bisonte, la barba appena accennata sul volto e gli occhi bassi, come lui, del resto. Mi pareva Brunetta casual.
– Piccolo, che ti succede? – gli chiese Porzia, tutta materna.
Fallonio la guardò, poi spostò lo sguardo su Del Cozo e me, senza parlare.
Porzia ripeté: – Piccolo, c’è qualcosa che non va, guai in famiglia, la mamma non sta bene, il piccolo del piccolo è ammalato?
Fallonio si prese una pausa di riflessione.
Noi eravamo in ansia per lui.
Ehi, piccolo, parla, sei tra amici.
– Questa è una grande famiglia, – incalzò Del Cozo, – sii franco!
Franco Carbonchio si affacciò nella stanza: se è per una supplenza, oggi non posso; devo fare l’evacuazione.
– Evacua pure, – intervenni, – come ha detto Saverio, questa è una grande famiglia, patriarcale, anzi; un po’ d’olio di ricino non si nega a nessuno.
Franco, da quando si è rifatto gli occhi, è diventato birichino. Dice che vede tutto sotto altra luce e che non è disposto a fare il tappabuchi, ora che i buchi degli occhi glieli hanno allargati.
Mi guardò in tralice e poi, con quell’affetto che traspare dal suo volto ogni volta che teme che qualcuno lo voglia gabbare, mi mandò affanculo: sempre voglia di scherzare, mi disse poi, passandosi una mano sulla pelata nel vano tentativo di mandare indietro capelli che non ha mai avuto.
Porzia lo rassicurò: – Non devi tappare nulla, parlavamo con Fallonio.
– Come si chiama?
Fallonio venne fuori dalla trance e borbottò qualcosa come «Eduardo Fallonio» o, almeno, così volemmo sentire.
Poi ingrugnì: – Non ti piace?
– Per carità, – sbottò Franco, – abbiamo i colleghi Budellazzi, Cazzolla e Pompilio… cosa vuoi che ci faccia un Fallonio in più!
Il collega di Fisica ricadde in trance.
– Piccolo, Franco scherza. Come ti ho detto, questa è una famiglia.
Un rosato non si nega a nessuno.
In effetti, Concetta era sulla soglia, non che aspettasse che le si desse il permesso di entrare, ma per questioni di spazio. La vicepresidenza, infatti, è un bugigattolo piccolo, stretto e con intonaco gonfiato per le infiltrazioni che provengono dal bagno di servizio attiguo, ma climatizzato. Come dicevo, la Rosato confortò il nuovo acquisto assicurandogli che Franco è come Gorbaciov, sembra cattivo, ma è un pezzo di pane, un po’ rancido, ma sempre pane è.
Eduardo si riscosse per la seconda volta e ci disse che voleva un po’ di privacy.
La privacy non si nega manco al peggior nemico, perciò pregammo Franco e Concetta di lasciare che il nuovo assunto si confessasse con la sola triade, cioè Porzia, Saverio e io.
Non appena soli, Eduardo aprì il suo caier de lagnance.
Ci disse, il fisico, che la sua situazione era drammatica, unica e non assimilabile ad alcun’altra.
Lo esortammo e preparammo i nostri scottex.
Il poverino ci confessò di abitare in una grande villa nella foresta in cui svettava un solo albero, un banano. L’ unico mezzo di trasporto, sino alla prima carrabile, erano le liane. Per tanto, sin quando smetteva l’habitus tarzaniano, metteva a cuccia Cita, rimpinzava di banane il gorilla guardiano, rassicurava la moglie e distribuiva lecca lecca ai bambini, si facevano le 21 serotine. Ciò rendeva impossibile la sua presenza ai collegi e ai consigli di classe che inopinatamente il preside, senza chiedere un suo autorevole parere, destinava dalle 17.00 in poi. Quindi, data l’illogicità delle decisioni dirigenziali, egli, l’Eduardo, si sentiva in dovere di sottolineare il comportamento irresponsabile del capo d’Istituto, ne chiedeva l’immediata destituzione e si dichiarava disponibile a sostituirlo.
Brunetta Secondo terminò il pistolotto tra le nostre lacrime che gocciolavano dagli scottex ormai inservibili.
Mi asciugai le lacrime e pensai che anche io possedevo una foresta con un albero quasi in fin di vita, ma la villa , quella, cazzo, no!
Guardai Saverio e capii che eravamo sulla stessa scia di pensiero. Lui, infatti, se è pur vero che la villa ce l’ha, ha però perso da tempo foresta e albero!
Ci consultammo con Porzia.
La nostra è una triade di pensiero e di azione, come Mazzone, cioè Mazzini, e decidemmo: l’ammutinamento sarebbe stato più feroce di quello del Baunty.
Congedammo il gerarca al grido di Eia, Eia mio capitano!
Fallonio ha ricevuto una riservata personale con tanto di timbro della Repubblica Italiana.
venerdì 13 novembre 2009
L'ORIENTAMENTO
Eppure la circolare specificava nell’oggetto: Organizzazione dell’orientamento
Cazzo, pensai, proprio me doveva chiamare il preside, io o me che non mi oriento manco con la bussola!
Piegai il foglio in quattro e lo misi in saccoccia. Lo avrei letto a casa, con calma.
Non ho familiarità genetica con gli elefanti e quando cambiai giubbotto dimenticai il vademecum.
Saverio mi telefonò alle 16 e 35
Minchia fai ancora a casa? Qui c’è la riunione, corri!
Quale Saverio- mi dissi chiudendo il cellulare- Del Ciole o Del Cozo l’Africano? Optai per l’ultimo, tanto è sempre la stessa persona. Comunque fu la minchia a farmi decidere.
Cavolo, vengo subito, ma non mi sono organizzato!
Ma dai, non ci pensare, vieni che stiamo per cominciare!
E che mi frega- pensai- cominciassero pure ma io senza organizzazione col cavolo che mi presento!
Mi battei una mano sulla fronte: l’ipercoop!
Proprio quella mattina avevo trovato nella buca della posta, dove avevo scritto che non accettavo pubblicità, la pubblicità di un Tom Tom a sottocosto.
Cazzo, li avrei fregati tutti!
Arrivai che non c’era un cazzo di posto. Mi guardai attorno: niente vampiri. Parcheggiai sulle strisce.
Manco il tempo di chiudere la macchina che un fischio mi trapanò i timpani.
Ecco gli stronzi, erano coperti dagli alberi! Mi vennero incontro con il taccuino delle multe ridotto agli ultimi fogli. Portarono la mano alla visiera e mi chiesero i documenti. Lessero il mio nome e quello scritto sulle strisce pedonali e dettero di gomito.
Cacchio, avevo coperto con la ruota anteriore sinistra proprio la N. Si leggeva per terra “atale sei grande”, con tanto di punto esclamativo.
Loro, gli sbirri, invece, giuravano che c’era scritto anale.
Mostrai la patente e la tessera sanitaria col codice fiscale: cercavano Lattanzi Anale e non lo trovarono.
Sui documenti c’è scritto Natale, ma loro mi chiesero se natale e anale fosse uguale. Io dissi di no. E che cazzo, non si capisce che una cosa è il Natale e ben altro è l’anale?
Chiarirono che l’avevano chiesto agli altri dell’Istituto ma che tutti avevano detto che il Natale non era ancora arrivato.
Cavolo, siamo a novembre, bella scoperta!
Capii che mi cercavano non per il parcheggio, ma per la scritta che, per loro, solo un imbranato come me poteva aver vergato proprio sulle strisce.
Io feci l’offeso e chiarii che non avevo bombolette spray e che se proprio avevo bisogno di gas me lo produceva a gratis la mia colite spastica.
Poi dissi che ero un docente, ma loro mi risposero che l’avevano capito dal mio ventre gonfio come quello dei bambini del Biafra.
Mi asciarono andare e mi dettero 1 Euro ciascuno.
Che culo, ragazzi!
Del Cozo l’africano e Cazk il polacco avevano occupato con borse e piumini un posto per me. Quando mi ci sedetti sembravo un regista tanto era alta la poltroncina.
Il preside mi sorrise sornione: hai la febbre di crescenza?
Sottrassi velocemente dal mio posteriore gli appannaggi degli amici e il panino ai Wurstel che Cazk aveva portato per merenda e sollevai fiero il mio Tom Tom bello, bellissimo nel suo cartone colorato da una terra celeste e un infinito nero.
Dissi: Ce l’ho!
Tutti gli sguardi si spostarono su di me e il Tom Tom fece il giro dell’assemblea con commenti ammirati.
E’ mio- gridai orgoglioso- l’ho comprato!
Il preside mi guardò, sospirò e mugugnò: mi fa piacere.
Ma come, non gioiva con me? E io che come lo stronzo mi ero fatto gonfiare la milza nella corsa all’ipermercato per arrivare preparato!
Come dicevo- riprese il preside- siamo giunti alla presentazione delle cartoline.
Cazzo come erano belle! anche loro celeste e nero come il mio Tom Tom.
Eh- dissi a Cazk- vedi che ho avuto buon fiuto?
Il preside, frattanto continuava: più ne daremo più ricco sarà il nostro premio.
Io alzai la mano e chiesi quando si dovesse tenere l’estrazione.
All’Epifania! Mi rispose incazzatoi il dirigente.
Ma perché s’incazzava, non era legittima la mia domanda?
Anche Cazk e Del Cozo ci rimasero male.
Il preside chiarì: le cartoline sono per gli studenti.
E qui scoppiò la bagarre.
Tutti insieme ci alzammo e sottolineammo l’ingiustizia.
Cazzo, anche noi, una volta tanto avremmo dovuto avere il diritto di competere per l’assegnazione dei premi!
Il preside inaspettatamente ci dimostrò che non solo Dante aveva studiato al trivio e ci mandò a fanculo in gruppo.
Niente più orientamento!
E ci sta bene!- dicemmo in coro
Capimmo che i premi erano già assegnati, sì a lui e alla sua famiglia.
E va be’ che lui ha il coltello dalla parte del manico, ma che debba fare la parte del leone, cazzo,no!
Cazzo, pensai, proprio me doveva chiamare il preside, io o me che non mi oriento manco con la bussola!
Piegai il foglio in quattro e lo misi in saccoccia. Lo avrei letto a casa, con calma.
Non ho familiarità genetica con gli elefanti e quando cambiai giubbotto dimenticai il vademecum.
Saverio mi telefonò alle 16 e 35
Minchia fai ancora a casa? Qui c’è la riunione, corri!
Quale Saverio- mi dissi chiudendo il cellulare- Del Ciole o Del Cozo l’Africano? Optai per l’ultimo, tanto è sempre la stessa persona. Comunque fu la minchia a farmi decidere.
Cavolo, vengo subito, ma non mi sono organizzato!
Ma dai, non ci pensare, vieni che stiamo per cominciare!
E che mi frega- pensai- cominciassero pure ma io senza organizzazione col cavolo che mi presento!
Mi battei una mano sulla fronte: l’ipercoop!
Proprio quella mattina avevo trovato nella buca della posta, dove avevo scritto che non accettavo pubblicità, la pubblicità di un Tom Tom a sottocosto.
Cazzo, li avrei fregati tutti!
Arrivai che non c’era un cazzo di posto. Mi guardai attorno: niente vampiri. Parcheggiai sulle strisce.
Manco il tempo di chiudere la macchina che un fischio mi trapanò i timpani.
Ecco gli stronzi, erano coperti dagli alberi! Mi vennero incontro con il taccuino delle multe ridotto agli ultimi fogli. Portarono la mano alla visiera e mi chiesero i documenti. Lessero il mio nome e quello scritto sulle strisce pedonali e dettero di gomito.
Cacchio, avevo coperto con la ruota anteriore sinistra proprio la N. Si leggeva per terra “atale sei grande”, con tanto di punto esclamativo.
Loro, gli sbirri, invece, giuravano che c’era scritto anale.
Mostrai la patente e la tessera sanitaria col codice fiscale: cercavano Lattanzi Anale e non lo trovarono.
Sui documenti c’è scritto Natale, ma loro mi chiesero se natale e anale fosse uguale. Io dissi di no. E che cazzo, non si capisce che una cosa è il Natale e ben altro è l’anale?
Chiarirono che l’avevano chiesto agli altri dell’Istituto ma che tutti avevano detto che il Natale non era ancora arrivato.
Cavolo, siamo a novembre, bella scoperta!
Capii che mi cercavano non per il parcheggio, ma per la scritta che, per loro, solo un imbranato come me poteva aver vergato proprio sulle strisce.
Io feci l’offeso e chiarii che non avevo bombolette spray e che se proprio avevo bisogno di gas me lo produceva a gratis la mia colite spastica.
Poi dissi che ero un docente, ma loro mi risposero che l’avevano capito dal mio ventre gonfio come quello dei bambini del Biafra.
Mi asciarono andare e mi dettero 1 Euro ciascuno.
Che culo, ragazzi!
Del Cozo l’africano e Cazk il polacco avevano occupato con borse e piumini un posto per me. Quando mi ci sedetti sembravo un regista tanto era alta la poltroncina.
Il preside mi sorrise sornione: hai la febbre di crescenza?
Sottrassi velocemente dal mio posteriore gli appannaggi degli amici e il panino ai Wurstel che Cazk aveva portato per merenda e sollevai fiero il mio Tom Tom bello, bellissimo nel suo cartone colorato da una terra celeste e un infinito nero.
Dissi: Ce l’ho!
Tutti gli sguardi si spostarono su di me e il Tom Tom fece il giro dell’assemblea con commenti ammirati.
E’ mio- gridai orgoglioso- l’ho comprato!
Il preside mi guardò, sospirò e mugugnò: mi fa piacere.
Ma come, non gioiva con me? E io che come lo stronzo mi ero fatto gonfiare la milza nella corsa all’ipermercato per arrivare preparato!
Come dicevo- riprese il preside- siamo giunti alla presentazione delle cartoline.
Cazzo come erano belle! anche loro celeste e nero come il mio Tom Tom.
Eh- dissi a Cazk- vedi che ho avuto buon fiuto?
Il preside, frattanto continuava: più ne daremo più ricco sarà il nostro premio.
Io alzai la mano e chiesi quando si dovesse tenere l’estrazione.
All’Epifania! Mi rispose incazzatoi il dirigente.
Ma perché s’incazzava, non era legittima la mia domanda?
Anche Cazk e Del Cozo ci rimasero male.
Il preside chiarì: le cartoline sono per gli studenti.
E qui scoppiò la bagarre.
Tutti insieme ci alzammo e sottolineammo l’ingiustizia.
Cazzo, anche noi, una volta tanto avremmo dovuto avere il diritto di competere per l’assegnazione dei premi!
Il preside inaspettatamente ci dimostrò che non solo Dante aveva studiato al trivio e ci mandò a fanculo in gruppo.
Niente più orientamento!
E ci sta bene!- dicemmo in coro
Capimmo che i premi erano già assegnati, sì a lui e alla sua famiglia.
E va be’ che lui ha il coltello dalla parte del manico, ma che debba fare la parte del leone, cazzo,no!
martedì 28 aprile 2009
Lo stupro
TRE
Francesco si avvicinò all’armadietto dei medicinali. Aprì l’anta e osservò. Ce n’ erano di tutti i tipi, dagli antibiotici agli antinevralgici, alle supposte antireumatiche, ai normali antidolorifici, soprattutto Aspirine. Un po’ più in fondo le gocce per l’ipertensione. Quasi nascosti, finalmente, due piccoli clisteri di glicerina.
Gli occhi spenti per le cataratte ebbero un barlume di luce.
Proverò con questi- si disse speranzoso.
Le fitte addominali divenivano sempre più frequenti e gli impedivano anche i movimenti più semplici; per non parlare dell’ernia inguinale, divenuta un pallone per il timore di sottoporsi all’operazione.
Michela, vieni ad aiutarmi!
Michela, chiusa com’era nella sua demenza e nella sordità che la rendeva assente alla vita del mondo circostante, non udì l’invocazione del marito.
Facendo forza su se stesso Francesco si avvicinò alla cucina. Michela era intenta alla lettura di una rivista femminile. Guardava le immagini, poi scorreva con l’indice destro le righe dell’articolo. Si illudeva di essere ancora giovane e si rispecchiava nelle donnine che venivano rappresentate in abiti alla moda, truccate e spumeggiati nella loro giovinezza.
Francesco la fissò; era lì lì per rimproverarla, come il suo solito, quando una fitta lancinante lo accasciò, seduto, sul pavimento. Gli mancava il fiato, non riusciva ad emettere alcun suono se non un grugnito accompagnato da una smorfia di dolore. Le feci abbondanti, coagulate nell’intestino spingevano sull’ernia procurandogli spasmi lancinanti che risalivano sino alle reni. Si rassegnò ad aspettare che Michela volgesse lo sguardo verso di lui.
Michela sorrideva scorrendo le pagine illustrate e di tanto in tanto si passava una mano tra i capelli.
La bocca priva di dentatura sembrava una voragine scura, con la lingua rosso scuro che guizzava come la coda di un serpente.
Francesco riandò con la mente al giorno del loro primo incontro.
Bruna nei capelli corvini e negli occhi, leggermente scura di carnagione, Michela aveva fatto un inchino tenendo le falde della gonna e si era seduta composta tra il padre e Lucrezia.
Dio, quanto è scura! – aveva pensato Francesco e l’aveva confrontata con Lidia.
Oh Lidia dai capelli biondi, dagli occhi celesti come il cielo, dalla pelle bianca e profumata!
Avrebbe voluto fare un balzo e scomparire, andare lontano, tornare a dieci giorni prima, quando sembrava dovesse sposare la sua Lidia, la donna che aveva corteggiato per due anni, che aveva baciato e tenuto stretta a sé; avrebbe voluto uccidere suo padre che l’aveva costretto ad abbandonare il suo tenero amore per rincorrere una dote di cui non gli importava nulla. Era stato Domenico, infatti, a scrivere quella maledetta lettera. L’aveva mandata con un bidello della scuola. Era indirizzata al cav. Carlo Di Nunno, padre di Lidia, a cui chiedeva in dote un appartamento per i due ragazzi, senza il quale non sarebbe stato possibile stipulare il contratto di matrimonio. L’aveva fatto a sua insaputa, senza chiedergli quanto fosse forte il legame che lo univa a Lidia, quanto desiderasse quella e solo quella donna. Del resto, pensava Francesco, tutta la vita di Domenico Civita era stata improntata al pragmatismo, se non a un cinismo crudele, comprovato da decisioni ignobili portate a termine con determinazione. Aveva costretto la cognata, Annunziata, sua madre, non quella vera, che anche lei era morta in giovane età, a sposarlo nonostante il voto di castità, la rinuncia alla vita mondana, la dedizione al laicato cristiano. Annunziata gliel’aveva raccontato il giorno prima che si recassero a casa di Michela lo stratagemma, l’odioso sotterfugio che aveva utilizzato per farla sua sposa.
Erano i primi del Novecento, il tempo della Belle époque, quando nei teatri si esibivano le sciantose che mostravano le gambe perfette e sensuali in calze nere a rete e giarrettiera rossa. Ma era anche il tempo in cui le donne timorate di Dio ignoravano come si generasse un bambino. Così era Nunziatina. Quando morì sua sorella Ottavia, mettendo al mondo l’ultimo figlio, Giuseppe, si offrì di allevare tutta la nidiata, da zia devota e affezionata. Domenico, invece, aveva un altro progetto, la voleva in moglie per affidarle l’educazione dei cinque figli, per affidarsi anche lui a una compagna che non l’avrebbe mai abbandonato. Un mese dopo la morte di Ottavia ebbe un burrascoso incontro con la cognata che rifiutò energicamente la proposta di matrimonio. Domenico non si dette per vinto; simulò di accettare il diniego per prendersi una rivincita terribile.
Trascorsero così due settimane in cui tutto sembrava scorrere senza scossoni. Poi, un sabato mattina, Domenico rientrò a casa prima del previsto, in compagnia di suo fratello Antonio, arciprete nella cattedrale di Palo del Colle. Finse una fretta del diavolo e chiese a Nunziatina di prepararsi a uscire per recarsi in chiesa dove il fratello avrebbe impartito al piccolo Giuseppe il sacramento del Battesimo. Nunziatina se ne stupì, ma non obiettò. La carrozza attendeva davanti al portone, con, al seguito, un calesse con l’arciprete e una coppia di giovani sposi. Lei pensò che fossero i prossimi padrini del piccolo. Arrrivati in una strada di campagna, a circa dieci km dal paese, la carrozza si fermò. Il vetturino si allontanò dando ad intendere che doveva soddisfare un bisogno personale. Anche i due giovani scesero dal calesse, aprirono la porta della carrozza e strapparono dalle mani di Nunziatina il piccolo Giuseppe. Poi, correndo, rimontarono sulla vettura e partirono a spron battuto, incuranti di Don Antonio che piangeva. Nunziatina urlò con quanto fiato aveva in gola, tra l’indifferenza di Domenico. Solo quando il cognato le si avvicinò capì cosa stava per accaderle. Il disgusto le provocò un conato di vomito. Non oppose resistenza. Domenico la stuprò. Lei chiuse gli occhi e subì silenziosamente la violenza. Le nozze furono celebrate tre mesi più tardi, quando nel grembo le si agitava una nuova vita.
Tratto da "i dolori della nonna" di Natalino Lattanzi
Francesco si avvicinò all’armadietto dei medicinali. Aprì l’anta e osservò. Ce n’ erano di tutti i tipi, dagli antibiotici agli antinevralgici, alle supposte antireumatiche, ai normali antidolorifici, soprattutto Aspirine. Un po’ più in fondo le gocce per l’ipertensione. Quasi nascosti, finalmente, due piccoli clisteri di glicerina.
Gli occhi spenti per le cataratte ebbero un barlume di luce.
Proverò con questi- si disse speranzoso.
Le fitte addominali divenivano sempre più frequenti e gli impedivano anche i movimenti più semplici; per non parlare dell’ernia inguinale, divenuta un pallone per il timore di sottoporsi all’operazione.
Michela, vieni ad aiutarmi!
Michela, chiusa com’era nella sua demenza e nella sordità che la rendeva assente alla vita del mondo circostante, non udì l’invocazione del marito.
Facendo forza su se stesso Francesco si avvicinò alla cucina. Michela era intenta alla lettura di una rivista femminile. Guardava le immagini, poi scorreva con l’indice destro le righe dell’articolo. Si illudeva di essere ancora giovane e si rispecchiava nelle donnine che venivano rappresentate in abiti alla moda, truccate e spumeggiati nella loro giovinezza.
Francesco la fissò; era lì lì per rimproverarla, come il suo solito, quando una fitta lancinante lo accasciò, seduto, sul pavimento. Gli mancava il fiato, non riusciva ad emettere alcun suono se non un grugnito accompagnato da una smorfia di dolore. Le feci abbondanti, coagulate nell’intestino spingevano sull’ernia procurandogli spasmi lancinanti che risalivano sino alle reni. Si rassegnò ad aspettare che Michela volgesse lo sguardo verso di lui.
Michela sorrideva scorrendo le pagine illustrate e di tanto in tanto si passava una mano tra i capelli.
La bocca priva di dentatura sembrava una voragine scura, con la lingua rosso scuro che guizzava come la coda di un serpente.
Francesco riandò con la mente al giorno del loro primo incontro.
Bruna nei capelli corvini e negli occhi, leggermente scura di carnagione, Michela aveva fatto un inchino tenendo le falde della gonna e si era seduta composta tra il padre e Lucrezia.
Dio, quanto è scura! – aveva pensato Francesco e l’aveva confrontata con Lidia.
Oh Lidia dai capelli biondi, dagli occhi celesti come il cielo, dalla pelle bianca e profumata!
Avrebbe voluto fare un balzo e scomparire, andare lontano, tornare a dieci giorni prima, quando sembrava dovesse sposare la sua Lidia, la donna che aveva corteggiato per due anni, che aveva baciato e tenuto stretta a sé; avrebbe voluto uccidere suo padre che l’aveva costretto ad abbandonare il suo tenero amore per rincorrere una dote di cui non gli importava nulla. Era stato Domenico, infatti, a scrivere quella maledetta lettera. L’aveva mandata con un bidello della scuola. Era indirizzata al cav. Carlo Di Nunno, padre di Lidia, a cui chiedeva in dote un appartamento per i due ragazzi, senza il quale non sarebbe stato possibile stipulare il contratto di matrimonio. L’aveva fatto a sua insaputa, senza chiedergli quanto fosse forte il legame che lo univa a Lidia, quanto desiderasse quella e solo quella donna. Del resto, pensava Francesco, tutta la vita di Domenico Civita era stata improntata al pragmatismo, se non a un cinismo crudele, comprovato da decisioni ignobili portate a termine con determinazione. Aveva costretto la cognata, Annunziata, sua madre, non quella vera, che anche lei era morta in giovane età, a sposarlo nonostante il voto di castità, la rinuncia alla vita mondana, la dedizione al laicato cristiano. Annunziata gliel’aveva raccontato il giorno prima che si recassero a casa di Michela lo stratagemma, l’odioso sotterfugio che aveva utilizzato per farla sua sposa.
Erano i primi del Novecento, il tempo della Belle époque, quando nei teatri si esibivano le sciantose che mostravano le gambe perfette e sensuali in calze nere a rete e giarrettiera rossa. Ma era anche il tempo in cui le donne timorate di Dio ignoravano come si generasse un bambino. Così era Nunziatina. Quando morì sua sorella Ottavia, mettendo al mondo l’ultimo figlio, Giuseppe, si offrì di allevare tutta la nidiata, da zia devota e affezionata. Domenico, invece, aveva un altro progetto, la voleva in moglie per affidarle l’educazione dei cinque figli, per affidarsi anche lui a una compagna che non l’avrebbe mai abbandonato. Un mese dopo la morte di Ottavia ebbe un burrascoso incontro con la cognata che rifiutò energicamente la proposta di matrimonio. Domenico non si dette per vinto; simulò di accettare il diniego per prendersi una rivincita terribile.
Trascorsero così due settimane in cui tutto sembrava scorrere senza scossoni. Poi, un sabato mattina, Domenico rientrò a casa prima del previsto, in compagnia di suo fratello Antonio, arciprete nella cattedrale di Palo del Colle. Finse una fretta del diavolo e chiese a Nunziatina di prepararsi a uscire per recarsi in chiesa dove il fratello avrebbe impartito al piccolo Giuseppe il sacramento del Battesimo. Nunziatina se ne stupì, ma non obiettò. La carrozza attendeva davanti al portone, con, al seguito, un calesse con l’arciprete e una coppia di giovani sposi. Lei pensò che fossero i prossimi padrini del piccolo. Arrrivati in una strada di campagna, a circa dieci km dal paese, la carrozza si fermò. Il vetturino si allontanò dando ad intendere che doveva soddisfare un bisogno personale. Anche i due giovani scesero dal calesse, aprirono la porta della carrozza e strapparono dalle mani di Nunziatina il piccolo Giuseppe. Poi, correndo, rimontarono sulla vettura e partirono a spron battuto, incuranti di Don Antonio che piangeva. Nunziatina urlò con quanto fiato aveva in gola, tra l’indifferenza di Domenico. Solo quando il cognato le si avvicinò capì cosa stava per accaderle. Il disgusto le provocò un conato di vomito. Non oppose resistenza. Domenico la stuprò. Lei chiuse gli occhi e subì silenziosamente la violenza. Le nozze furono celebrate tre mesi più tardi, quando nel grembo le si agitava una nuova vita.
Tratto da "i dolori della nonna" di Natalino Lattanzi
domenica 26 aprile 2009
La proposta di matrimonio
DUE
Siamo temporaneamente assenti- vociò la segreteria telefonica- se credete lasciate un messaggio. Vi richiameremo.
Francesco ascoltò con espressione indurita. I denti malfermi scricchiolarono per la tensione dei muscoli facciali. Chiuse il telefono.
Sii stramaledetta- disse fra sé. Poi si lasciò andare sulla poltrona di vimini.
Riandò con la mente agli anni della sua giovinezza, quando bastava un suo sguardo per far tremare Michela e i quattro figli, per metterli sugli attenti, come diceva ridendo ai suoi colleghi durante le pause di servizio. Era fiero del potere che oltretutto aveva conquistato senza fatica, anzi gli era giunto per eredità dalla seconda moglie di Lorenzo, la matrigna di Michela, che aveva tirato un sospiro di sollievo il giorno delle nozze.
Si era presentato in divisa, accompagnato dal padre, preside di liceo, a quel tempo tra i personaggi più in vista della città.
Lorenzo vedeva di buon occhio quel partito che introduceva lui, più contadino che proprietario terriero, nell’alta società e che lo liberava dall’essere ossessionato da Lucrezia, la moglie di secondo letto, che gli aveva dato tre figli, due femmine e un maschio, a cui indendeva andasse l’intero asse ereditario. Michela, in fondo, aveva di che vivere. Tutto il patrimonio di Rosaria, morta in giovane età, sarebbe stato suo. Non che Lorenzo non amasse Michela, ma il suo amore paterno veniva soffocato da Lucrezia che lo ricattava cacciandolo dal letto ogni qual volta mostrava interesse per la sua primogenita. Era giunto persino a disinteressarsi del patrimonio della sua prima moglie, tanto da lasciare che Agata, la sorella, s’impossessasse senza colpo ferire di una ampia e lussuosa villa al mare che altrimenti sarebbe toccata in eredità a sua figlia. Francesco gli aveva tolto le castagne dal fuoco, oltretutto gli era sembrato la persona giusta: serio, di ottima famiglia, ufficiale dell’Esercito Italiano, in ottima salute fisica, figlio di uno dei cittadini più illustri. Cos’altro poteva pretendere lui, ma anche sua fglia. Mica la dava in moglie a un carrettiere, un bifolco, a un uomo di rango inferiore.
Michela, invece, non desiderava quel matrimonio. Era stata affidata, piccina, a una sorella di suo nonno, Amalia, donna pia e devota ai santi Medici, ai quali aveva innalzato vari altarini, illuminati da grandi ceri che contribuivano a rendere luminosa una casa che non conosceva ancora la luce elettrica. Ma non se ne lamentava. Lei era per una vita allegra, spensierata, forte dei suoi venticinque anni, della sua vita universitaria trascorsa tra Napoli e Roma, senza il controllo di alcuno, in compagnia della “baronessa”, Adriana, amica d’infanzia, di giochi, di piccoli e ingenui flert amorosi, quando guardare una foto significava dedicare tutto se stessi a quell’immagine bianco e nera. In fondo lei sì, l’aveva un amore. Era quel giovane aviatore che le faceva il filo già da due anni, che le piaceva tanto da sognarlo di notte, sotto le coltri, con le mani che le correvano su per le gambe, sin tra le cosce con quella sensazione di caldo umido che le faceva arrossire il volto. Rino si chiamava, Rino vattelappesca cos’altro, perché mai avevano avuto modo di restare soli, d’incontrarsi nel buio di un vicolo, nella sala di un cinema, nella platea di un teatro affollato. Eppure gli sguardi erano corsi dall’uno all’altro e i sorrisi soffocati dallo sguardo severo della prozia, responsabile del mandato ricevuto, della preservazione della verginità della nipote messa a repentaglio dalla sua ingenuità e dalla facilità con cui si lasciava coinvolgere in rapporti d’amicizia.
Poi quel giorno era comparso Francesco, ingessato nella sua divisa, con quegli occhi di ghiaccio, con quella carnagione così bianca da sembrare essere stata smacchiata in varechina. Il capo coperto dai corti capelli biondi, rapati quasi a zero, come per consuetudine militare, impettito nel grigioverde con la stelletta di tenente, la prima volta che le aveva rivolto la parola l’aveva rimproverata per aver messo una gonna che aveva una balza appena scucita. Né lei, né sua zia, né Serafina, la vecchia nutrice, si erano accorte di quel l’impercettibile difetto; Francesco, lui sì, l’aveva notato forse per l’abitudine a passare in rivista, prima della libera uscita, i soldati, quel popolo spaurito e inebetito dal bromuro sorbito ogni mattina, a colazione, frammisto al latte e al caffè della naja.
Era venuto con suo padre, il preside Domenico Civita, severo nel severo abito nero. L’incontro era avvenuto a Bitonto, nella casa paterna di Michela, non presente, come di consuetudine, ma che origliava dietro le porte chiuse. Lorenzo e Amalia avevano indossato gli abiti della festa. Un completo marrone bruciato il padrone di casa, una lunga veste nera a fiorellini gialli la moglie. Dopo le presentazioni e le cortesie di rito, come obbligava il cerimoniale del tempo, Lorenzo aveva chiesto il motivo della gradita visita. Domenico giocherellava con la pipa che gli sbucava dal taschino esterno della giacca quando Lucrezia lo aveva invitato a fumare se ne avesse avuto voglia. Con gesti lenti e misurati l’anziano preside aveva preso la pipa in radica, ne aveva caricato il fornello dalla tabacchiera d’argento che portava sempre con sé, e aveva avvicinato il volto alla mano del padre di Michela che gli tendeva il lungo fiammifero acceso.
Sono qui per i nostri figli.-aveva detto con calma
Una voluta di fumo, liberata nell’aria, aveva mandato il suo profumo sin dietro la porta che nascondeva Michela.
Lorenzo, frattanto, aveva acceso il suo toscano.
Parlo ovviamente- aveva detto con voce grave, dopo una pausa, - di Francesco e Michela- . Mio figlio è un ufficiale. Ha un futuro prestigioso dinanzi a sé. Per la giovane età raggiungerà senza dubbio i più alti gradi, per la sua intelligenza sarà chiamato a ricoprire incarichi gravidi di responsabilità, come già preannuncia il suo ottimo stato di servizio. Ecco, il mio desiderio è che sposi una ragazza degna di lui, sana come lui, ricca di doti etiche e di un discreto patrimonio, come impone il regolamento militare. Dalle informazioni assunte per obbligo, sua figlia Michela corrisponde al modello di donna che prevede la pratica matrimoniale. Io sono qui, con mio figlio, per richiederne la mano, se a voi questa unione arreca l’egual piacere che avverto io.
Lucrezia era rimasta impassibile, ma il cuore le era di certo sobbalzato in petto per la felicità.
Lorenzo con un sorriso compiaciuto aveva chiesto se Il tenente conoscesse sua figlia.
L’ha intravista l’altra domenica in chiesa.
E che dice?
Sono qui per questo- aveva risposto Francesco.
Bene, bene. Chiamo Michela.
Tratto da "I dolori della nonna" di natalino lattanzi
Siamo temporaneamente assenti- vociò la segreteria telefonica- se credete lasciate un messaggio. Vi richiameremo.
Francesco ascoltò con espressione indurita. I denti malfermi scricchiolarono per la tensione dei muscoli facciali. Chiuse il telefono.
Sii stramaledetta- disse fra sé. Poi si lasciò andare sulla poltrona di vimini.
Riandò con la mente agli anni della sua giovinezza, quando bastava un suo sguardo per far tremare Michela e i quattro figli, per metterli sugli attenti, come diceva ridendo ai suoi colleghi durante le pause di servizio. Era fiero del potere che oltretutto aveva conquistato senza fatica, anzi gli era giunto per eredità dalla seconda moglie di Lorenzo, la matrigna di Michela, che aveva tirato un sospiro di sollievo il giorno delle nozze.
Si era presentato in divisa, accompagnato dal padre, preside di liceo, a quel tempo tra i personaggi più in vista della città.
Lorenzo vedeva di buon occhio quel partito che introduceva lui, più contadino che proprietario terriero, nell’alta società e che lo liberava dall’essere ossessionato da Lucrezia, la moglie di secondo letto, che gli aveva dato tre figli, due femmine e un maschio, a cui indendeva andasse l’intero asse ereditario. Michela, in fondo, aveva di che vivere. Tutto il patrimonio di Rosaria, morta in giovane età, sarebbe stato suo. Non che Lorenzo non amasse Michela, ma il suo amore paterno veniva soffocato da Lucrezia che lo ricattava cacciandolo dal letto ogni qual volta mostrava interesse per la sua primogenita. Era giunto persino a disinteressarsi del patrimonio della sua prima moglie, tanto da lasciare che Agata, la sorella, s’impossessasse senza colpo ferire di una ampia e lussuosa villa al mare che altrimenti sarebbe toccata in eredità a sua figlia. Francesco gli aveva tolto le castagne dal fuoco, oltretutto gli era sembrato la persona giusta: serio, di ottima famiglia, ufficiale dell’Esercito Italiano, in ottima salute fisica, figlio di uno dei cittadini più illustri. Cos’altro poteva pretendere lui, ma anche sua fglia. Mica la dava in moglie a un carrettiere, un bifolco, a un uomo di rango inferiore.
Michela, invece, non desiderava quel matrimonio. Era stata affidata, piccina, a una sorella di suo nonno, Amalia, donna pia e devota ai santi Medici, ai quali aveva innalzato vari altarini, illuminati da grandi ceri che contribuivano a rendere luminosa una casa che non conosceva ancora la luce elettrica. Ma non se ne lamentava. Lei era per una vita allegra, spensierata, forte dei suoi venticinque anni, della sua vita universitaria trascorsa tra Napoli e Roma, senza il controllo di alcuno, in compagnia della “baronessa”, Adriana, amica d’infanzia, di giochi, di piccoli e ingenui flert amorosi, quando guardare una foto significava dedicare tutto se stessi a quell’immagine bianco e nera. In fondo lei sì, l’aveva un amore. Era quel giovane aviatore che le faceva il filo già da due anni, che le piaceva tanto da sognarlo di notte, sotto le coltri, con le mani che le correvano su per le gambe, sin tra le cosce con quella sensazione di caldo umido che le faceva arrossire il volto. Rino si chiamava, Rino vattelappesca cos’altro, perché mai avevano avuto modo di restare soli, d’incontrarsi nel buio di un vicolo, nella sala di un cinema, nella platea di un teatro affollato. Eppure gli sguardi erano corsi dall’uno all’altro e i sorrisi soffocati dallo sguardo severo della prozia, responsabile del mandato ricevuto, della preservazione della verginità della nipote messa a repentaglio dalla sua ingenuità e dalla facilità con cui si lasciava coinvolgere in rapporti d’amicizia.
Poi quel giorno era comparso Francesco, ingessato nella sua divisa, con quegli occhi di ghiaccio, con quella carnagione così bianca da sembrare essere stata smacchiata in varechina. Il capo coperto dai corti capelli biondi, rapati quasi a zero, come per consuetudine militare, impettito nel grigioverde con la stelletta di tenente, la prima volta che le aveva rivolto la parola l’aveva rimproverata per aver messo una gonna che aveva una balza appena scucita. Né lei, né sua zia, né Serafina, la vecchia nutrice, si erano accorte di quel l’impercettibile difetto; Francesco, lui sì, l’aveva notato forse per l’abitudine a passare in rivista, prima della libera uscita, i soldati, quel popolo spaurito e inebetito dal bromuro sorbito ogni mattina, a colazione, frammisto al latte e al caffè della naja.
Era venuto con suo padre, il preside Domenico Civita, severo nel severo abito nero. L’incontro era avvenuto a Bitonto, nella casa paterna di Michela, non presente, come di consuetudine, ma che origliava dietro le porte chiuse. Lorenzo e Amalia avevano indossato gli abiti della festa. Un completo marrone bruciato il padrone di casa, una lunga veste nera a fiorellini gialli la moglie. Dopo le presentazioni e le cortesie di rito, come obbligava il cerimoniale del tempo, Lorenzo aveva chiesto il motivo della gradita visita. Domenico giocherellava con la pipa che gli sbucava dal taschino esterno della giacca quando Lucrezia lo aveva invitato a fumare se ne avesse avuto voglia. Con gesti lenti e misurati l’anziano preside aveva preso la pipa in radica, ne aveva caricato il fornello dalla tabacchiera d’argento che portava sempre con sé, e aveva avvicinato il volto alla mano del padre di Michela che gli tendeva il lungo fiammifero acceso.
Sono qui per i nostri figli.-aveva detto con calma
Una voluta di fumo, liberata nell’aria, aveva mandato il suo profumo sin dietro la porta che nascondeva Michela.
Lorenzo, frattanto, aveva acceso il suo toscano.
Parlo ovviamente- aveva detto con voce grave, dopo una pausa, - di Francesco e Michela- . Mio figlio è un ufficiale. Ha un futuro prestigioso dinanzi a sé. Per la giovane età raggiungerà senza dubbio i più alti gradi, per la sua intelligenza sarà chiamato a ricoprire incarichi gravidi di responsabilità, come già preannuncia il suo ottimo stato di servizio. Ecco, il mio desiderio è che sposi una ragazza degna di lui, sana come lui, ricca di doti etiche e di un discreto patrimonio, come impone il regolamento militare. Dalle informazioni assunte per obbligo, sua figlia Michela corrisponde al modello di donna che prevede la pratica matrimoniale. Io sono qui, con mio figlio, per richiederne la mano, se a voi questa unione arreca l’egual piacere che avverto io.
Lucrezia era rimasta impassibile, ma il cuore le era di certo sobbalzato in petto per la felicità.
Lorenzo con un sorriso compiaciuto aveva chiesto se Il tenente conoscesse sua figlia.
L’ha intravista l’altra domenica in chiesa.
E che dice?
Sono qui per questo- aveva risposto Francesco.
Bene, bene. Chiamo Michela.
Tratto da "I dolori della nonna" di natalino lattanzi
mercoledì 25 marzo 2009
domenica 22 marzo 2009
sabato 14 marzo 2009
Chi ha ucciso Fico Beniamino?
Chi ha ucciso Fico Beniamino?
Il primo ad accorgersene fu Mimmo, il factotum, uomo zelante, volenteroso, sempre pronto ad accorrere in aiuto.
Mi dissero che era rimasto sconvolto.
Mi dissero che aveva pianto e asciugato le lacrime con una foglia presa da terra, da quella stessa terra che poi chiama a sé tutti gli esseri viventi.
Mi dissero che aveva allertato con solerzia le alte sfere, i dirigenti, che accorsero trafelati al capezzale di Fico Beniamino. Mi dissero, anche, che la commozione si tagliava a fette e che i lamenti erano così alti a invocare vendetta, tremenda vendetta.
Perché è morto Fico Beniamino? E’ stato il fato, il destino o, come tutti pensiamo, vi è una regia nera che agisce nascosta e che ne ha deciso la fine?
Chi ha ucciso Fico Beniamino?
E’ un dilemma ancor oggi irrisolto, ma le indagini proseguono e pare stiano per svelare il malfattore. Gli assassini sappiano, i nodi verranno al pettine e presto cadranno nelle mani della giustizia
L’altro giorno s’è tenuto consulto. Due necrofori hanno confabulato tra loro, si sono seduti a tavolino e hanno deciso per un’autopsia assistita. Le indagini saranno capillari, partiranno dalle radici. Ciò che sfugge all’uno non sfuggirà all’altro.
Fico Beniamino, è certo, è stato assassinato. Probabilmente con del veleno. Da chi? Questo spetterà al tenente Colombo di turno scoprirlo.
Ora tutti siamo contriti; ciascuno pensa di avere qualche responsabilità nella sua fine. E’ vero, avremmo potuto salvarlo, avremmo potuto curarlo, coccolarlo, parlargli, magari fargli ascoltare della buona musica per tirargli su il morale.
Era da un po’ di tempo che lo vedevamo intristire, assumere quel colorito giallastro che indica inequivocabilmente uno stato di salute malferma.
Ma chi poteva pensare che sarebbe andato incontro a una così tragica fine!... Ricordo quando giunse da noi. Lo guardammo tutti con ammirazione. Alto, snello, verde per i giovani anni. I suoi tutori ci dissero: trattatelo bene, è giovane, deve crescere ancora!
Una collega di bell’aspetto lo guardò ammirata e la sentimmo esclamare: Va là, guarda che fusto! Quando si accorse che il suo commento non ci era sfuggito, arrossì, ma ripeté: perché volete dire che non è un bel fusto? Il nostro silenzio significò più di mille parole.
Fu così che lo accettammo, che divenne importante. Gli stessi dirigenti, incontrandolo, gli sorridevano compiaciuti.
Col tempo, però, subentrò l’abitudine.
Come dicevo, le indagini proseguono e non si fermeranno finché il responsabile o i responsabili non cadranno nelle mani della giustizia.
Ma noi come faremo, come sopravvivremo senza Fico Beniamino?
Si avverte nell’aria la sua mancanza, l’ondeggiare della sua folta capigliatura, il suo fruscio gioioso allorquando incrociava qualcuno di noi.
Non che fosse benvisto da tutti; molti, infatti, lo strattonavano, approfittavano della sua inerzia per beffeggiarlo, tirarlo, a volte, addirittura sino a farlo cadere per terra, sicuri che mai avrebbe reagito.
Sono sempre i migliori che se ne vanno!
Oggi, poi, sono arrivate le forze dell’ordine per ascoltare, spiare i nostri volti, riconoscere lo sguardo perverso, gli occhi malandrini, loro che sono avvezzi a individuare, così, a naso, i colpevoli dei più gravi misfatti.
Scusatemi, sento Opunzia, gridare, ora la vedo correre strappandosi in capelli per i corridoi inondati di luce. Un carabiniere la raggiunge, Opunzia si lascia cadere scomposta per terra, il carabiniere la solleva per le spalle,la tiene ferma.
Opunzia si dispera e grida: non sono stata io, cercate Lorenzo… è lui il colpevole!
Lorenzo è in sala informatica, al computer osserva l’andamento delle sue azioni in borsa, quando il maresciallo gli mette le manette e gli ricorda, come nei film americani, i suoi diritti.
Lorenzo non reagisce e confessa: dovevo farlo, non ne potevo più, le sue foglie cadevano non appena finivo di ramazzare… Era un lavoro senza fine!
Da "Racconti" di Natalino Lattanzi
Il primo ad accorgersene fu Mimmo, il factotum, uomo zelante, volenteroso, sempre pronto ad accorrere in aiuto.
Mi dissero che era rimasto sconvolto.
Mi dissero che aveva pianto e asciugato le lacrime con una foglia presa da terra, da quella stessa terra che poi chiama a sé tutti gli esseri viventi.
Mi dissero che aveva allertato con solerzia le alte sfere, i dirigenti, che accorsero trafelati al capezzale di Fico Beniamino. Mi dissero, anche, che la commozione si tagliava a fette e che i lamenti erano così alti a invocare vendetta, tremenda vendetta.
Perché è morto Fico Beniamino? E’ stato il fato, il destino o, come tutti pensiamo, vi è una regia nera che agisce nascosta e che ne ha deciso la fine?
Chi ha ucciso Fico Beniamino?
E’ un dilemma ancor oggi irrisolto, ma le indagini proseguono e pare stiano per svelare il malfattore. Gli assassini sappiano, i nodi verranno al pettine e presto cadranno nelle mani della giustizia
L’altro giorno s’è tenuto consulto. Due necrofori hanno confabulato tra loro, si sono seduti a tavolino e hanno deciso per un’autopsia assistita. Le indagini saranno capillari, partiranno dalle radici. Ciò che sfugge all’uno non sfuggirà all’altro.
Fico Beniamino, è certo, è stato assassinato. Probabilmente con del veleno. Da chi? Questo spetterà al tenente Colombo di turno scoprirlo.
Ora tutti siamo contriti; ciascuno pensa di avere qualche responsabilità nella sua fine. E’ vero, avremmo potuto salvarlo, avremmo potuto curarlo, coccolarlo, parlargli, magari fargli ascoltare della buona musica per tirargli su il morale.
Era da un po’ di tempo che lo vedevamo intristire, assumere quel colorito giallastro che indica inequivocabilmente uno stato di salute malferma.
Ma chi poteva pensare che sarebbe andato incontro a una così tragica fine!... Ricordo quando giunse da noi. Lo guardammo tutti con ammirazione. Alto, snello, verde per i giovani anni. I suoi tutori ci dissero: trattatelo bene, è giovane, deve crescere ancora!
Una collega di bell’aspetto lo guardò ammirata e la sentimmo esclamare: Va là, guarda che fusto! Quando si accorse che il suo commento non ci era sfuggito, arrossì, ma ripeté: perché volete dire che non è un bel fusto? Il nostro silenzio significò più di mille parole.
Fu così che lo accettammo, che divenne importante. Gli stessi dirigenti, incontrandolo, gli sorridevano compiaciuti.
Col tempo, però, subentrò l’abitudine.
Come dicevo, le indagini proseguono e non si fermeranno finché il responsabile o i responsabili non cadranno nelle mani della giustizia.
Ma noi come faremo, come sopravvivremo senza Fico Beniamino?
Si avverte nell’aria la sua mancanza, l’ondeggiare della sua folta capigliatura, il suo fruscio gioioso allorquando incrociava qualcuno di noi.
Non che fosse benvisto da tutti; molti, infatti, lo strattonavano, approfittavano della sua inerzia per beffeggiarlo, tirarlo, a volte, addirittura sino a farlo cadere per terra, sicuri che mai avrebbe reagito.
Sono sempre i migliori che se ne vanno!
Oggi, poi, sono arrivate le forze dell’ordine per ascoltare, spiare i nostri volti, riconoscere lo sguardo perverso, gli occhi malandrini, loro che sono avvezzi a individuare, così, a naso, i colpevoli dei più gravi misfatti.
Scusatemi, sento Opunzia, gridare, ora la vedo correre strappandosi in capelli per i corridoi inondati di luce. Un carabiniere la raggiunge, Opunzia si lascia cadere scomposta per terra, il carabiniere la solleva per le spalle,la tiene ferma.
Opunzia si dispera e grida: non sono stata io, cercate Lorenzo… è lui il colpevole!
Lorenzo è in sala informatica, al computer osserva l’andamento delle sue azioni in borsa, quando il maresciallo gli mette le manette e gli ricorda, come nei film americani, i suoi diritti.
Lorenzo non reagisce e confessa: dovevo farlo, non ne potevo più, le sue foglie cadevano non appena finivo di ramazzare… Era un lavoro senza fine!
Da "Racconti" di Natalino Lattanzi
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martedì 20 gennaio 2009
Ira e Ouzo
Ira E’ Una Coccinella
Voglio parlare di te,
voglio raccontarti a me stesso,
non per ricordarti,
ma per tornare senza dolore ai momenti comuni,
vissuti in un vecchio campo di calcio,
sulla riva del mare, in un campeggio lontano.
Eri una cuccioletta nera, grassottella e mangiona
quando scodinzolando, senza uggiolare
sei entrata nella mia vita,
spavalda e fiera della tua nuova casa.
Come una donnina hai scelto i tuoi spazi,
gli angoli preferiti, le stanze inondate dal sole.
Sulle ginocchia delle mie figlie
hai sentito parlare latino e francese,
inglese e greco e ti sei appisolata,
come dicevano le tue zampette,
nel sonno, in cerca di terra e di erbetta,
sognando le corse nei prati.
Per il possesso di un sasso,
di un rametto piovuto dal cielo,
di una conchiglia sbreccata,
hai giocato e lottato con Shira,
la tua amica preferita,
nella polvere dei campi
e nella sabbia delle rive marine.
La tua vita è stata breve ma intensa,
come per gli umani, con gioie e dolori;
hai raccolto le lacrime e i pensieri
di una mamma e, mamma tu pure,
hai pianto con lei le sue sventure.
Poi il tuo sguardo si è intristito;
non hai corso più come una volta,
non hai lottato più per la gioia della vittoria,
ma hai lanciato un lungo ululato,
non so se di sdegno, dolore o pietà,
e ti sei spenta dormendo,
cullata dal mio pianto e dalle mie carezze.
Una coccinella si è posata sulla mia spalla:
eri tu, venuta a salutarmi.
Non c’è stato un latrato gioioso,
ma un frullio d’ali, impercettibile, silenzioso,
discreto come la tua vita.
Al mio amico Ouzo
Non so se sei stato felice con me; io lo ero con te.
Ero felice senza saperlo, come accade sempre, senza che mi rendessi veramente conto di quanto fossi importante per me.
Sei stato il mio compagno, il mio amico, il mio amico più caro, se non il mio bambino, il mio monello.
Eravamo uguali e lo sapevamo: irriflessivi, istintivi, a testa bassa, orgogliosi della propria forza, tu generoso, io forse, non tanto.
Abbiamo amato senza riserve le persone che ci hanno voluto bene; abbiamo ignorato con superiorità quelli che non ci ricambiavano.
Ora non ci sei più ed io mi sento solo.
Ti cerco, ti chiamo ma tu non puoi rispondermi, perché se potessi correresti subito da me.
Mi mancano il tuo vocione, i tuoi occhi espressivi, lampeggianti e dolci, la tua testa grande e imponente, il tuo carattere vivace e forte, la tua dedizione, il tuo amore.
Ouzo mio, amico mio, mi manchi.
Al mattino mi sveglio e non so che fare.
Prima ero con te.
Mi svegliavi col tuo musetto umido, mi invitavi ad alzarmi ed io ti dicevo di andare di là, a riposare un altro po’ e tu, ubbidiente, eseguivi.
E’ trascorsa una settimana da quando abbiamo fatto l’ultima passeggiata insieme.
Ora passeggio per casa, senza che tu mi venga dietro.
L’altra sera, dopo aver spento la televisione ti ho sentito sbuffare, come facevi quando capivi che era ora di andare a letto, era ora di separarci sino al mattino successivo: ti ho chiamato, ti ho cercato, ma non c’eri.
Io vorrei incontrarti ancora; non so in quale forma, ma vorrei riconoscerti per carezzarti ancora, per baciare la tua testa grande, come ho fatto l’ultima volta, quando ho deciso il tuo destino.
Perdonami, amico mio!
Ancora oggi non so se ho deciso per il tuo bene, per il mio.
So, però, che, se potessi, tornerei indietro, per egoismo forse, ma certamente per amore.
Voglio parlare di te,
voglio raccontarti a me stesso,
non per ricordarti,
ma per tornare senza dolore ai momenti comuni,
vissuti in un vecchio campo di calcio,
sulla riva del mare, in un campeggio lontano.
Eri una cuccioletta nera, grassottella e mangiona
quando scodinzolando, senza uggiolare
sei entrata nella mia vita,
spavalda e fiera della tua nuova casa.
Come una donnina hai scelto i tuoi spazi,
gli angoli preferiti, le stanze inondate dal sole.
Sulle ginocchia delle mie figlie
hai sentito parlare latino e francese,
inglese e greco e ti sei appisolata,
come dicevano le tue zampette,
nel sonno, in cerca di terra e di erbetta,
sognando le corse nei prati.
Per il possesso di un sasso,
di un rametto piovuto dal cielo,
di una conchiglia sbreccata,
hai giocato e lottato con Shira,
la tua amica preferita,
nella polvere dei campi
e nella sabbia delle rive marine.
La tua vita è stata breve ma intensa,
come per gli umani, con gioie e dolori;
hai raccolto le lacrime e i pensieri
di una mamma e, mamma tu pure,
hai pianto con lei le sue sventure.
Poi il tuo sguardo si è intristito;
non hai corso più come una volta,
non hai lottato più per la gioia della vittoria,
ma hai lanciato un lungo ululato,
non so se di sdegno, dolore o pietà,
e ti sei spenta dormendo,
cullata dal mio pianto e dalle mie carezze.
Una coccinella si è posata sulla mia spalla:
eri tu, venuta a salutarmi.
Non c’è stato un latrato gioioso,
ma un frullio d’ali, impercettibile, silenzioso,
discreto come la tua vita.
Al mio amico Ouzo
Non so se sei stato felice con me; io lo ero con te.
Ero felice senza saperlo, come accade sempre, senza che mi rendessi veramente conto di quanto fossi importante per me.
Sei stato il mio compagno, il mio amico, il mio amico più caro, se non il mio bambino, il mio monello.
Eravamo uguali e lo sapevamo: irriflessivi, istintivi, a testa bassa, orgogliosi della propria forza, tu generoso, io forse, non tanto.
Abbiamo amato senza riserve le persone che ci hanno voluto bene; abbiamo ignorato con superiorità quelli che non ci ricambiavano.
Ora non ci sei più ed io mi sento solo.
Ti cerco, ti chiamo ma tu non puoi rispondermi, perché se potessi correresti subito da me.
Mi mancano il tuo vocione, i tuoi occhi espressivi, lampeggianti e dolci, la tua testa grande e imponente, il tuo carattere vivace e forte, la tua dedizione, il tuo amore.
Ouzo mio, amico mio, mi manchi.
Al mattino mi sveglio e non so che fare.
Prima ero con te.
Mi svegliavi col tuo musetto umido, mi invitavi ad alzarmi ed io ti dicevo di andare di là, a riposare un altro po’ e tu, ubbidiente, eseguivi.
E’ trascorsa una settimana da quando abbiamo fatto l’ultima passeggiata insieme.
Ora passeggio per casa, senza che tu mi venga dietro.
L’altra sera, dopo aver spento la televisione ti ho sentito sbuffare, come facevi quando capivi che era ora di andare a letto, era ora di separarci sino al mattino successivo: ti ho chiamato, ti ho cercato, ma non c’eri.
Io vorrei incontrarti ancora; non so in quale forma, ma vorrei riconoscerti per carezzarti ancora, per baciare la tua testa grande, come ho fatto l’ultima volta, quando ho deciso il tuo destino.
Perdonami, amico mio!
Ancora oggi non so se ho deciso per il tuo bene, per il mio.
So, però, che, se potessi, tornerei indietro, per egoismo forse, ma certamente per amore.
Brindo
Brindo
Io brindo, ebbro,
tre volte all’amore.
Io brindo alla vita
che passa veloce,
brindo ai peccati,
che la fanno più vera.
Brindo anche a te,
Lucifero cornuto,
che, mai pago di vendette
e di feroci crudeltà,
ti crogioli nel fuoco
ridendo del Signore.
Io brindo, ebbro,
tre volte all’amore.
Io brindo alla vita
che passa veloce,
brindo ai peccati,
che la fanno più vera.
Brindo anche a te,
Lucifero cornuto,
che, mai pago di vendette
e di feroci crudeltà,
ti crogioli nel fuoco
ridendo del Signore.
Il Patto
Il patto
Uniti per sempre,
nel bene, nel male.
Legati da un patto immortale
ad un solo destino
salirono, insieme,
le scale del tempo infinito,
sfidando le stelle,
la noia più triste,
i giorni più lunghi.
La luce scomparve,
lasciando la notte nei cuori.
E venne l’inverno dei sogni,
dei baci, del bene.
Ora imperversa,
crudele, implacabile,
il Male soltanto.
Uniti per sempre,
nel bene, nel male.
Legati da un patto immortale
ad un solo destino
salirono, insieme,
le scale del tempo infinito,
sfidando le stelle,
la noia più triste,
i giorni più lunghi.
La luce scomparve,
lasciando la notte nei cuori.
E venne l’inverno dei sogni,
dei baci, del bene.
Ora imperversa,
crudele, implacabile,
il Male soltanto.
La Nenia
La nenia
Malinconica,
dolce, appassionata,
la nenia mi torna nel cuore.
Note di un giorno lontano,
caduto fin ora in oblio.
La pioggia,
battendo sui vetri,
risveglia i ricordi d’un tempo,
sopisce gli affanni presenti,
concede speranza e ristoro.
Malinconica,
dolce, appassionata,
la nenia mi torna nel cuore.
Note di un giorno lontano,
caduto fin ora in oblio.
La pioggia,
battendo sui vetri,
risveglia i ricordi d’un tempo,
sopisce gli affanni presenti,
concede speranza e ristoro.
Tu Sai
Tu sai
Io dissi
due sole parole:
Tu sai.
Ma quante preghiere,
speranze celate,
volevano dire
quei poveri verbi avventati.
Tu sai;
ma non sai quanto grande è la pena,
quanto grande è il dolore,
l’ansia, l’amore,
la voglia d’averti
vicina per sempre.
Tu sai, io dissi,
e scomparvi impacciato
schiacciato
da poche ma vere parole.
Ora, nel buio,
nei raggi del sole,
io prego per noi.
Io dissi
due sole parole:
Tu sai.
Ma quante preghiere,
speranze celate,
volevano dire
quei poveri verbi avventati.
Tu sai;
ma non sai quanto grande è la pena,
quanto grande è il dolore,
l’ansia, l’amore,
la voglia d’averti
vicina per sempre.
Tu sai, io dissi,
e scomparvi impacciato
schiacciato
da poche ma vere parole.
Ora, nel buio,
nei raggi del sole,
io prego per noi.
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