domenica 26 aprile 2009

La proposta di matrimonio

DUE
Siamo temporaneamente assenti- vociò la segreteria telefonica- se credete lasciate un messaggio. Vi richiameremo.
Francesco ascoltò con espressione indurita. I denti malfermi scricchiolarono per la tensione dei muscoli facciali. Chiuse il telefono.
Sii stramaledetta- disse fra sé. Poi si lasciò andare sulla poltrona di vimini.
Riandò con la mente agli anni della sua giovinezza, quando bastava un suo sguardo per far tremare Michela e i quattro figli, per metterli sugli attenti, come diceva ridendo ai suoi colleghi durante le pause di servizio. Era fiero del potere che oltretutto aveva conquistato senza fatica, anzi gli era giunto per eredità dalla seconda moglie di Lorenzo, la matrigna di Michela, che aveva tirato un sospiro di sollievo il giorno delle nozze.
Si era presentato in divisa, accompagnato dal padre, preside di liceo, a quel tempo tra i personaggi più in vista della città.
Lorenzo vedeva di buon occhio quel partito che introduceva lui, più contadino che proprietario terriero, nell’alta società e che lo liberava dall’essere ossessionato da Lucrezia, la moglie di secondo letto, che gli aveva dato tre figli, due femmine e un maschio, a cui indendeva andasse l’intero asse ereditario. Michela, in fondo, aveva di che vivere. Tutto il patrimonio di Rosaria, morta in giovane età, sarebbe stato suo. Non che Lorenzo non amasse Michela, ma il suo amore paterno veniva soffocato da Lucrezia che lo ricattava cacciandolo dal letto ogni qual volta mostrava interesse per la sua primogenita. Era giunto persino a disinteressarsi del patrimonio della sua prima moglie, tanto da lasciare che Agata, la sorella, s’impossessasse senza colpo ferire di una ampia e lussuosa villa al mare che altrimenti sarebbe toccata in eredità a sua figlia. Francesco gli aveva tolto le castagne dal fuoco, oltretutto gli era sembrato la persona giusta: serio, di ottima famiglia, ufficiale dell’Esercito Italiano, in ottima salute fisica, figlio di uno dei cittadini più illustri. Cos’altro poteva pretendere lui, ma anche sua fglia. Mica la dava in moglie a un carrettiere, un bifolco, a un uomo di rango inferiore.
Michela, invece, non desiderava quel matrimonio. Era stata affidata, piccina, a una sorella di suo nonno, Amalia, donna pia e devota ai santi Medici, ai quali aveva innalzato vari altarini, illuminati da grandi ceri che contribuivano a rendere luminosa una casa che non conosceva ancora la luce elettrica. Ma non se ne lamentava. Lei era per una vita allegra, spensierata, forte dei suoi venticinque anni, della sua vita universitaria trascorsa tra Napoli e Roma, senza il controllo di alcuno, in compagnia della “baronessa”, Adriana, amica d’infanzia, di giochi, di piccoli e ingenui flert amorosi, quando guardare una foto significava dedicare tutto se stessi a quell’immagine bianco e nera. In fondo lei sì, l’aveva un amore. Era quel giovane aviatore che le faceva il filo già da due anni, che le piaceva tanto da sognarlo di notte, sotto le coltri, con le mani che le correvano su per le gambe, sin tra le cosce con quella sensazione di caldo umido che le faceva arrossire il volto. Rino si chiamava, Rino vattelappesca cos’altro, perché mai avevano avuto modo di restare soli, d’incontrarsi nel buio di un vicolo, nella sala di un cinema, nella platea di un teatro affollato. Eppure gli sguardi erano corsi dall’uno all’altro e i sorrisi soffocati dallo sguardo severo della prozia, responsabile del mandato ricevuto, della preservazione della verginità della nipote messa a repentaglio dalla sua ingenuità e dalla facilità con cui si lasciava coinvolgere in rapporti d’amicizia.
Poi quel giorno era comparso Francesco, ingessato nella sua divisa, con quegli occhi di ghiaccio, con quella carnagione così bianca da sembrare essere stata smacchiata in varechina. Il capo coperto dai corti capelli biondi, rapati quasi a zero, come per consuetudine militare, impettito nel grigioverde con la stelletta di tenente, la prima volta che le aveva rivolto la parola l’aveva rimproverata per aver messo una gonna che aveva una balza appena scucita. Né lei, né sua zia, né Serafina, la vecchia nutrice, si erano accorte di quel l’impercettibile difetto; Francesco, lui sì, l’aveva notato forse per l’abitudine a passare in rivista, prima della libera uscita, i soldati, quel popolo spaurito e inebetito dal bromuro sorbito ogni mattina, a colazione, frammisto al latte e al caffè della naja.
Era venuto con suo padre, il preside Domenico Civita, severo nel severo abito nero. L’incontro era avvenuto a Bitonto, nella casa paterna di Michela, non presente, come di consuetudine, ma che origliava dietro le porte chiuse. Lorenzo e Amalia avevano indossato gli abiti della festa. Un completo marrone bruciato il padrone di casa, una lunga veste nera a fiorellini gialli la moglie. Dopo le presentazioni e le cortesie di rito, come obbligava il cerimoniale del tempo, Lorenzo aveva chiesto il motivo della gradita visita. Domenico giocherellava con la pipa che gli sbucava dal taschino esterno della giacca quando Lucrezia lo aveva invitato a fumare se ne avesse avuto voglia. Con gesti lenti e misurati l’anziano preside aveva preso la pipa in radica, ne aveva caricato il fornello dalla tabacchiera d’argento che portava sempre con sé, e aveva avvicinato il volto alla mano del padre di Michela che gli tendeva il lungo fiammifero acceso.
Sono qui per i nostri figli.-aveva detto con calma
Una voluta di fumo, liberata nell’aria, aveva mandato il suo profumo sin dietro la porta che nascondeva Michela.
Lorenzo, frattanto, aveva acceso il suo toscano.
Parlo ovviamente- aveva detto con voce grave, dopo una pausa, - di Francesco e Michela- . Mio figlio è un ufficiale. Ha un futuro prestigioso dinanzi a sé. Per la giovane età raggiungerà senza dubbio i più alti gradi, per la sua intelligenza sarà chiamato a ricoprire incarichi gravidi di responsabilità, come già preannuncia il suo ottimo stato di servizio. Ecco, il mio desiderio è che sposi una ragazza degna di lui, sana come lui, ricca di doti etiche e di un discreto patrimonio, come impone il regolamento militare. Dalle informazioni assunte per obbligo, sua figlia Michela corrisponde al modello di donna che prevede la pratica matrimoniale. Io sono qui, con mio figlio, per richiederne la mano, se a voi questa unione arreca l’egual piacere che avverto io.
Lucrezia era rimasta impassibile, ma il cuore le era di certo sobbalzato in petto per la felicità.
Lorenzo con un sorriso compiaciuto aveva chiesto se Il tenente conoscesse sua figlia.
L’ha intravista l’altra domenica in chiesa.
E che dice?
Sono qui per questo- aveva risposto Francesco.
Bene, bene. Chiamo Michela.
Tratto da "I dolori della nonna" di natalino lattanzi

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