venerdì 14 marzo 2008

Il professor Colabrisi


IL PROFESSOR COLABRISI

Era una tranquilla giornata di scuola: gli alunni in ritardo, i professori al bar, i bidelli a fumare, leggere il giornale, confezionare maglioncini ecc..., il preside a brontolare sconsolato, all’ingresso dell’Istituto.
La caccia allo studente, come il solito, cominciò alle 08.’35.
Professori e vicepreside, sguinzagliati sui lunghi marciapiedi antistanti la scuola, presi dal solito rito mattutino, ripetevano i consueti gesti giornalieri, minacciando (a voce poco più che sommessa) sette in condotta, due in italiano, zero in matematica.
Alle 08.’55, tutto, puntualmente, era in ordine.
Gli alunni, non appena in classe, portarono le loro richieste: necessità corporali, lista delle colazioni, urgenza di certificati di frequenza per il rinvio del servizio di leva ed altro ancora.
Alle 9’15, la campanella annunciò la fine della prima ora e le lezioni cominciarono.
Il professor Colabrisi, ultrasettantenne, docente di Genetica, ricacciato in classe da non so quale decreto di non so quale ministro della Pubblica Istruzione (ne cambiamo con la stessa frequenza con cui cambiamo i calzini), sebbene le proteste di tutto il comparto scuola, fece il suo ingresso in Istituto, come il solito, con un sigaro puzzolente tra le labbra e una mano sulla vita dei calzoni che, come ogni giorno, avevano ceduto all’epa straripante.
Il cappellaccio schiacciato sulla fronte bassa e cespugliosa impediva di scorgere gli occhi iniettati di sangue e il naso bitorzoluto, arrossato dalle continue e abbondanti libagioni.
Come il solito agitò in alto il bastone che reggeva nella mano sinistra in segno di saluto e si avviò verso l’ascensore facendo avvertire la flatulenza che, purtroppo per chi gli era vicino, lo accompagnava da circa sessant’anni. Come il solito tutti i presenti, in segno di rispetto per la veneranda età, risposero in coro al saluto turandosi il naso.
Immediatamente dopo, un bidello, Fontani, che aveva perso il senso dell’olfatto durante un’assemblea sindacale, si chiuse nell’ascensore e lo disinfestò con incenso e oli profumati.
Giunto al primo piano, Colabrisi ordinò al bidello di turno di indicargli il laboratorio di informatica, in cui non aveva mai messo piede, e con fare perentorio ne spalancò la porta. Subito vi fu un fuggi fuggi generale di alunni e docenti, che, quasi impazziti, cercarono scampo nelle aule adiacenti, chiudendosi e barricandone gli ingressi.
Ma il professor Colabrisi non cercava vittime; come capimmo in seguito, voleva solo diffondere al mondo intero la grande scoperta che, secondo lui, avrebbe sconvolto tutte le teorie sull’evoluzione.
Il tecnico di laboratorio, il signor Magnesia, di origine siciliana, come Anastasia (tutte le parole che terminano in “sia” provengono dalla Sicilia: vossia, maisia, trasformatosi in mai-fia e poi in Mafia per contrazione di forze dell’ordine e di magistrati), non riuscì a mettersi in salvo perché costretto da Colabrisi ad avviare un computer e a fungere da navigatore nel gran mare di Internet.
La porta blindata del laboratorio di informatica impediva a me e ai tanti altri curiosi di capire cosa stesse accadendo al di là di quelle lastre d’acciaio, perciò, sebbene stupiti e incuriositi, non ci restò che aspettare pazientemente che l’uscio si schiudesse.
Finalmente, dopo alcune ore, quando già gli alunni, impazziti di gioia per aver saltato le lezioni, scendevano urlando, sghignazzando, spintonandosi e palpandosi per le scale dell’Istituto, la porta si aprì e mostrò il volto raggiante del collega Colabrisi e quello devastato del signor Magnesia: tutto era compiuto!
Nello stesso istante, tutta rossa in volto e affannata, salì precipitosamente le scale l’applicata di segreteria, Eufania, avvisandoci che la presidenza era stata invasa da un mare di fax che chiedevano, da tutte le parti del mondo, un urgente incontro con Colabrisi, per un confronto e un conforto con le teorie di alcuni dei più noti scienziati del pianeta.
Il preside in persona, abbandonando la caccia alle coppiette che pomiciavano nelle aule vuote, coprendosi con fare da “raffreddato” il naso, si avvicinò al vecchio docente e lo invitò a metterci al corrente della sua scoperta, gratificandolo con un pubblico encomio.
Colabrisi si commosse, si tenne ancor più strette le brache , tolse il cappellaccio dalla fronte cespugliosa e raccontò tossendo, sputacchiando e, per fortuna, affumicandoci col suo sigaro:
“Amici cari, tutti noi siamo stati presi in giro dalla favola che ci hanno raccontato i preti, per generazioni, all’infinito. Solo attraverso la mia scoperta, finalmente, si saprà come veramente si siano popolate le regioni del nostro mondo. Ora vi narro la vera storia dell’uomo!”
“Un ooooh…” corale allargò le nostre bocche.
“Dio- raccontò Colabrisi, compiaciuto dell’interesse suscitato- creò prima Adamo e poi, da una sua costola, Eva: tutto vero! L’inghippo viene dopo!
Adamo ed Eva, quando capirono che era più logico e più piacevole copulare piuttosto che strapparsi le costole, misero al mondo due figli: Carino e Abele. Si, avete capito bene, Carino e Abele, non Caino e Abele; né ebbero altri figli”.
La platea rumoreggiò tra l’incredulo e il sorpreso.
“Quando Abele sparì – continuò il flatulente- si disse che fosse stato ucciso da Carino, il quale prima negò e poi confessò. Tra le lacrime il giovane disse di essere stato violentato dal fratello, che gli faceva il filo sin da quando erano fanciulli. Carino e non Caino- sottolineò Colabrisi- raccontò, sempre piangendo, che non gli era mai dispiaciuta la corte di Abele, anzi di averlo incoraggiato, a volte, poiché avvertiva in sé una natura se non diversa almeno duplice, di cui quella maschile fortemente sopita.
Abele, però, non solo lo prese, un giorno, con violenza in un prato, mentre era chinato a cogliere un fiore, ma si vantò con la natura circostante di quanto fosse stato bravo e del piacere che aveva provato. A quel punto, preso dall’ira, con un tremendo colpo di clava sugli “ zebedei”, Carino aveva ucciso Abele che, beato, disteso sul prato, fumava della canapa indiana.
Non si sa bene come, il delitto di Carino in breve fu sulla bocca di tutti gli animali del Creato e suscitò tanto scalpore da costringere il povero giovane ad abbandonare i genitori e a addentrarsi nel giardino dell’Eden solo ed impaurito.
A sera, quando si udiva solo il canto delle cicale che flirtavano con i grilli, Carino si lasciò andare sotto l’ombra di un platano e si addormentò”.
Il silenzio nella sala si tagliava come una fetta di prosciutto da seppellire in un sandwich imburrato.
“Il mattino seguente, quando si risvegliò, l’abelicida si trovò circondato da un branco di scimmie, la maggior parte femmine, sbavanti e desiderose di stabilire un contatto sessuale con il giovane umano.
Carino, impaurito dalle avances plateali di alcune gorilla, salì velocemente in cima all’albero, ma fu presto raggiunto. Urlò, si disperò, tentò di far capire che lui aveva poco da dire e da dare in fatto di virilità, ma le scimmie, raggiuntolo, continuavano a palparlo per tutto il corpo, mostrando di gradire ciò che trovavano.
Un vecchio scimmione che assisteva alla scena scotendo il capo in segno di disapprovazione, comprendendo la sofferenza del povero Carino, ad un certo punto lanciò un urlo terribile e fece fuggire tutto il branco di femmine. Da un guscio di noce di cocco, che aveva vicino a sé, tirò fuori una polpetta di erbe e di muschio, una specie di “Viagra”, per intenderci, e lo cacciò nella bocca spalancata per il terrore di Carino e gliela fece ingoiare, dandogli una manata sulle spalle.
Dopo circa mezz’ora avvenne il mutamento: Carino fu costretto ad indossare delle foglie di fico, per coprire la sua inconsueta virilità.
Da quel giorno non ebbe più tregua: tutte le gorilla più belle furono sue e dettero alla luce un'enormità di piccoli esseri pelosi che popolarono il mondo, spargendosi per i cinque continenti.
Così, amici miei, -concluse Colabrisi - sono nate le razze umane, e non come ci ha detto la Chiesa o come poi ci ha spiegato Darwin con la sua teoria sull'evoluzione, che risponde al vero solo in minima parte!”.
Tutti noi, che avevamo ascoltato in religioso silenzio l’esposizione del vecchio docente, alla conclusione del racconto esplodemmo in un fragoroso applauso, lanciando fischi di approvazione e facendo volare in aria libri, quaderni, registri, penne e matite.
Solo Minchiuzzi, collega di Genetica del Corso F, non unì la sua voce alla nostra, ma, con piglio severo, livido per l’invidia, ci richiamò alla realtà, invitando Colabrisi a dimostrare ciò che diceva.
Le gote del vecchio docente s’imporporarono, gli occhi brillarono, i pantaloni si gonfiarono per uno scoppio di flatulenza, dovuto all’emozione, alla gioia per l’occasione che gli offriva il rivale e, asciugandosi il sudore che gli scendeva copioso dalla fronte, che gli bagnava spudoratamente le ascelle e il cavallo dei calzoni, esclamò: “Ho trovato Carino! lui era lì, murato nello scolo del mio water, ed io non lo sapevo. L’ho scoperto solo l’altro giorno quando, per un improvviso e tremendo mal di pancia, ho dovuto cacciar fuori violentemente tutta l’aria che mi gonfiava l'addome: la cintura, pensate, è volata via in mille pezzi. Per la deflagrazione è crollato il muro che reggeva la colonna montante: son caduto giù, nello scantinato e poi ancora più giù, sino a che ho perso i sensi. Al mio risveglio non ero più solo. Avevo accanto a me Carino, o meglio, ciò che resta di Carino, con la parete della caverna, apertasi sotto di me, istoriata a raccontare la sua vicenda. E’ un reperto che stravolgerà la scienza, cambierà i costumi, segnerà quest’epoca come la sola che abbia veramente dato al genere umano la consapevolezza della sua origine, l’orgoglio e l’essenza dell’essere... ho concluso”.
Un nuovo più forte scroscio di applausi, fischi e lanci più fitti di cassini, gessetti colorati e vecchi gettoni della “SIP”, con mani screpolate per la vigoria del battito, ululati di consenso e solidarietà si levarono verso Colabrisi: la perfezione, per la prima volta nella storia dell’uomo, non era più un mito.
Il prof. Minchiuzzi, il mio caro Minchiuzzi, ancora lui, manifestò, più triste che mai, con voce rotta dal pianto, nel tripudio generale, unico e solo, il suo scetticismo e, arricciandosi i baffi alla Vittorio Emanuele, chiese di vedere i reperti.
Colabrisi fu scosso da un tremito, cominciò a strabuzzare gli occhi, divenne paonazzo, poi pallidissimo, si lasciò cadere sul pavimento con una mano sul cuore che gli batteva all’impazzata e balbettò: ”Li... li... li vedrai...”
Sommessamente, con i pantaloni che gli erano diventati enormi, quasi per magia, per la completa scomparsa della pancia, si sollevò da terra e, scortato da un esercito di nuovi fans, s'incamminò verso l’uscita della scuola bofonchiando: “Ho scoperto l’homosex e te lo dimostrerò, brutto invidioso, te lo dimostrerò...”.
Da quel giorno non l’abbiamo più visto, sappiamo solo attraverso i giornali che è diventato giovane, alto, bello, biondo, occhi azzurri e forte, circola in Ferrari “Testa Rossa”, attorniato da uno stuolo di stupende fanciulle che lo sbaciucchiano dappertutto.
Minchiuzzi non è più solo...



Tratto dal romanzo di Natalino Lattanzi Homosex- Si vive di solo pane

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Prof. Lattanzi mi ha fatto morire dalle risate! Sono anch'io un professore, insegno a Padova all'Itis, ma la cosa più bella è che al nord e al sud la scuola è uguale. Bellissimo. Mi ci sono ritrovato al massimo. Che risate. Io insegno meccanica-macchine, ma di romanzi ne ho sempre letti a bizzeffe. Il suo mi piace da morire. L'inizio è bellissimo, una tranquilla pazzesca giornata qualunque di scuola, i professori sono "tipi umani" - si dice così? - che si ritrovano anche da me. Il prof. Colabrisi in particolare mi ricorda un sacco un mio collega. E ci sono anch'io. Bravo. Dove si può trovare il suo libro? Bravo prof. Lattanzi, bravo.

Franco Barbieri

Natalino Lattanzi ha detto...

Gentile collega,
ti ringrazio dell'apprezzamento espresso sulla mia scrittura.
Come ben dici, la Scuola (ahimé, come gli striminziti stipendi) è uguale da Nord a Sud. Ciò mi spinge a parlarne con umorismo.
Pubblicherò a breve sul blog altri capitoli del mio romanzo che, purtroppo, non troverai in commercio perché la nostra società ha perso il gusto di una sana risata e si crologia nelle disgrazie che ci crea la classe politica, disquisendo su Veltroni e Berlusconi e su chi dei due ci fregherà più cospiquamente.
Grazie ancora per le tue simpatiche parole. Spero di divertirti ancora con qualche altro pezzo dei miei romanzi.
Ciao.
Natalino Lattanzi

Anonimo ha detto...

Caro professore
tra noi ci si intende. Ma la cosa bella è che con la scrittura, io credo, con l'arte in generale, non ci si intende solo tra simili, ma più in generale tra umani. Ho fatto leggere i suoi scritti non solo ai colleghi (mi sono ricopiato l'indirizzo del sito e l'ho portato a scuola, e non sa che risate anche lì), ma anche al mio migliore amico, che di professione fa l'avvocato penalista. Beh, abbiamo passato una buona mezz'ora a ridere di gusto leggendo insieme i suoi scritti. E inoltre che belle foto. Che bella la sua terra, e con che sguardo la vede lei, direi uno sguardo malinconico ma, allo stesso tempo, creativo. e quindi felice, no?
Continui, continui professore.
Barbieri