sabato 16 febbraio 2008

Cara, vecchia malasanità

In questa sezione pubblico un saggio della mia scrittura ironico-satirica

CARA, VECCHIA MALASANITA’

Non so come, mi risvegliai sul tavolo chirurgico di un “pronto soccorso”.
“Strozza?”- querelava una voce.
“Non strozza”- affermava un essere in camice bianco.
“Ma se strozza?” -neniava il proprietario invisibile del primo messaggio fonetico.
“Se strozza, strozza”- rispondeva in monocorde l’imbiancato.
A quel punto tornai padrone di me stesso e mi appellai ai diritti del paziente. Pretesi a gran voce che mi si facesse un’eco o una “rx” per capire cosa diavolo mi stesse accadendo, minacciando denunce a tutto spiano.
L’incamiciato, con calma olimpica, si assunse l’onere di spiegarmi l’accaduto e, in linguaggio medicamentoso, mi comunicò che il mio inguine, a destra, si era gonfiato come una mongolfiera, probabilmente per un’ernia.
Mi consigliò di acquistare un paio di pantaloni di cinque taglie più grandi della mia solita e di tornarmene a casa per farmi “guardare” dal mio medico di base.
L’altro, l’uomo invisibile, per intenderci, intervenne per consigliarmi, invece, un ricovero urgente e un’operazione immediata, pena lo strozzamento dell’ernia e un handicap permanente al pisello.
Le sue ultime parole furono determinanti.
Urlai come un maiale sgozzato che fossi visitato da un vero chirurgo e dissi che non mi sarei mosso di lì sin quando non avessero provveduto alla bisogna.
Un ago mi punse nel posteriore e mi addormentai.
Mi risvegliai in un letto dalle candide lenzuola con un medico al mio capezzale.
In termini crudi mi si spiegò che mi sarebbe stata aperta la pancia, che mi sarebbe stata infilata nello “spacco” una retina di non so quale materiale e che sarei stato ricucito a “roastbeaf” per impedire alla mongolfiera di recidivare.
Con gli occhi sbarrati per il terrore acconsentii a che mi si rosolasse.
A sera giunse un altro incamiciato che si qualificò per anestesista e mi chiese se volessi sognare in epidurale, generale o locale.
Sulle prime non capii, ma quando mi si spiegò che si trattava delle tre varietà di anestesia a mia disposizione, scelsi la locale perché mi sembrava la meno dannosa.
“Locale no!”- sentenziò il taumaturgo.
“Ma che cacchio me l’hai proposta a fare?” – pensai; poi, a voce poco più che sommessa gliene chiesi spiegazione”
“Perché non pensavo me l’avrebbe richiesta” – fu la laconica risposta.
Sconcertato, optai per l’epidurale, che poi non è che una volgarissima lombare.
Fregandosi le mani il clinico approvò.
Immediatamente un’infermiera entrò nella stanza e, “ex abrupto”, mi schiaffò nello sfintere anale la canna lunga tre metri di un clistere di cinque litri.
Imprecando con voce baritonale andai di corsa a far conoscenza dei servizi igienici dell’ospedale senza nome.
Gettai fuori anche la mia coscienza sporca resa candida dal diluvio di glicerina.
Quando, finalmente, mi tranquillizzai, fui posto su una lettiga e trasportato in sala “parto”.
Lo stanzone era freddo come un freezer, tanto che mi si offrì una copertina che copriva solo le mie parti più intime, per ripararle dal gelo che sembrava venir fuori della porosità dei muri imbiancati.
Un infermiere mi spiegò con un sorriso malvagio che mi trovavo nell’anticamera dell’inferno, per la preanestesia; poi, quando seppe che sarei stato sottoposto all’epidurale, mi trasferì nella sala operatoria.
“Le faremo una punturina e non sentirà per un paio d’ore le parti al di là del tronco” mi annunciò il sonniferaio fregandosi ancora le mani.
La sua contentezza m’insospettì e mi fece rimpiangere di non aver ascoltato il consiglio del terapeutico del “pronto soccorso”.
“Si metta seduto!” –imperò il drogaiolo.
Rassegnato, obbedii.
Come tigri affamate si lanciarono su di me due infermieri forzuti che mi avvinghiarono per le spalle, mi bloccarono le braccia e mi spinsero il mento sul petto.
Poco dopo un ago di venti centimetri cominciò a sforacchiarmi la spina dorsale all’altezza della decima vertebra.
“Oh cacchio, non entra!- disse De Sade- proviamo un po’più a sinistra!”
L’ago penetrò per la seconda volta.
“E no! Lei deve rilassarsi!- proviamo più a destra! Cacchio, non passa! Cambiamo vertebra!”
Una scossa elettrica percorse tutta la mia spina dorsale, scese per la gamba che si sollevò di scatto per un riflesso involontario e colpì negli zebedei l’infermiere più vicino.
L’urlo del mercenario coincise con un altro affondo dell’ago in non so quale mia vertebra.
“Cazzo, ma questo ha il nervo spostato! È un caso particolare, degno di studio!”.
I miei testicoli furono percorsi da una scarica elettrica, poi da un’altra, poi da un’altra.
Non ne potetti più: sudavo freddo per il dolore e la tensione, mentre quel disgraziato di mediconzolo era tutto entusiasta della novità che gli era davanti.
“E basta, ora! - gridai soffocando un urlo di dolore- smettiamola di fare esperimenti! Le ho chiesto di farmi la locale e me la faccia! L’anestesia dovrebbe servire a non sentire dolore, mentre qui mi occorre l’anestesia per non sentire il dolore dell’anestesia!”.
“La locale no!” –risentenziò il sadico.
“E allora mi faccia la generale – protestai io con quanto fiato mi restava in corpo.
Deluso, lo scienziato pazzo, sollecitato anche dai suoi colleghi assistenti, aderì alla mia richiesta.
Mi addormentai cullato dalle note di una ninna nanna che venivano fuori da una mascherina anestetizzante che un pietoso infermiere cominciò a far scorrere sul mio viso.
Mi lasciai andare ai ricordi d’infanzia che di solito avverto con grande nostalgia, mi rifugiai nel sogno e tornai in seno alla mia famiglia.


IL RISVEGLIO

“Ti dico che gliel’avrebbe fatta! Altri cinque o sei tentativi ed avrei azzeccato la vertebra giusta!” – si lamentava il “droghiere”.
“Non dire cazzate!- rincagnava il chirurgo – un altro buco e l’avresti steso!”
“Esagerato… che cazzo dici!”.
“Guarda come l’hai ridotto…”
“E’ vivo e vegeto!”
“Sì, ma per quanto?”
“Se mi vuoi sfottere…”.
“Ehi, amico, qui non si tratta di sfottò… ti dovevi fermare! Hai provato una, due volte, basta, passa alla generale”.
“Ma, secondo te, quando imparo io a fare la lombare se non provo sui pazienti?”.
“Ma non su quello! Mi era stato raccomandato da un amico… prova con il prossimo, tanto di quello non mi frega niente”.
“No! Quello è stato raccomandato a me da mio fratello. Poi che gli dico?…”
“Allora non tentare più. Facciamo a tutti direttamente la totale e non se ne parli più”.
“La totale, la generale… se sbaglio quella sì che sono cazzi amari!”
“Insomma lo vuoi capire che non puoi andare così alla cieca?”
“Alla cieca?- ma se ho seguito il manuale”.
“Il manuale… il manuale…la teoria è una cosa la pratica è un’altra”.
“ Va be’… con te non si può discutere. La prossima volta farò a modo mio”.
“Fai come cacchio vuoi, ma non quando opero io”.
“Ma sì… è arrivato Barnard!…”.
“Non ne parliamo più! – frenò il chirurgo- Sei bravo… bravissimo”.
“Vero! Io certe cose le faccio ad occhi chiusi…”:
“Questo è assodato! Lo diceva anche il prof Arpino che dormivi durante le lezioni di Anatomia. Vorrei proprio capire come cazzo hai fatto a superare quell’esame”.
“Oh bella, stronzo! E tu come hai fatto? Ho seguito la prassi: mi son fatto raccomandare…”.
“Si, va be’!… sei proprio un caso particolare”.
“Pensa ai casi tuoi!… che poi non sei tanto meglio di me! Guarda che squarcio gli hai fatto nella pancia per un’ernietta da quattro soldi! Dall’ombelico al pisello…”.
“Beh, cambiamo argomento…- ribatté “Jack lo squartatore”- piuttosto ci vediamo domani per la solita partita?”.
“Cerrrrto!” – rispose tutto allegro il sonniferaio, felice di chiudere la squallida discussione.
Con gli occhi semichiusi, ancora sotto l’effetto dell’anestesia, seguivo il dialogo tra il dottor Jekil e lo scienziato pazzo, con una gran voglia di balzare per terra e mettermi a correre verso casa mia.
Niente! il mio corpo non rispondeva ai comandi del cervello: era come paralizzato, indifferente all’ansia che veniva giù a fiotti dai miei neuroni.
Rincoglionito più del solito, mi rassegnai e aspettai che le funzioni vitali si ridestassero dal torpore in cui li aveva sprofondati lo stregone.
Finalmente le palpebre dettero segno d’indipendenza, seguite, di lì a poco, dal resto del corpo.
“Contento? –mi interrogò giulivo Toro Seduto fissandomi negli occhi - è andato tutto bene ”.
Inebetito e impaurito da quelle che avrebbero potuto essere le decisioni dei due intimi di Ade, soffocai il diluvio di imprecazioni che si affollavano con estrema spontaneità nella mia mente, sbattei le palpebre e, come segno di felicità estrema, abbozzai un timido sorriso; quindi finsi di riaddormentarmi.
Che mai l’avessi fatto!
Immediatamente fui preso a ceffoni dai due figli degeneri di Ippocrate che, preoccupati, mi scossero sollecitandomi a svegliarmi per non sprofondare nel coma.
Con le guance dolenti riaprii gli occhi e feci cenno con le dita della mano destra che tutto era ok, anche se mi sembrava di essere ko.
Rassicurati, i cerusici mi affidarono alle cure di due infermieri, “Ercole e Golia”, affinché fossi condotto nel mio letto.


FRATELLI D’ITALIA


Gianni Estroverso ed Egidio Minchiuzzi erano nella mia stanza quando fui sbattuto dalla lettiga nel mio giaciglio da infermo.
Non appena gli infermieri si furono allontanati, si congratularono con me per la bella “cera” che mostrava il mio volto sconvolto, mi dettero due tre pacche sull’addome, facendomi rantolare per il dolore, si offrirono come assistenti notturni, per non lasciarmi solo durante il primo giorno di degenza effettiva.
Impotente, acconsentii con un sommesso “va bene”.
Minchiuzzi mi consolò dicendomi che se avessi superato le prime ventiquattro ore dall’intervento ce l’avrei sicuramente fatta, mentre Gianni puntualizzò che di ore ce ne volevano almeno quarantotto perché fossi dichiarato fuori pericolo.
Rinfrancato da quelle informazioni, lasciai che la “caposala”, femmina bassa, torva, tonda, cespugliosa sulle guance e sul mento, occhi di ghiaccio, sorriso alla Frenkestein, m’inzufolasse con un ghigno di soddisfazione gli aghi delle flebo.
Attonito, muto e smunto, mi raggomitolai sotto le coltri.
Gianni, buon parlatore, specialmente quando si tratta di dire cazzate, m’informò che, grazie a me, o meglio, alla mia ernia, il pullman non aveva ancora lasciato la città che da sempre s’interroga, nelle pozze di sangue fraterno, sul dilemma se tifare Roma o Lazio e che l’ospedale che mi accoglieva era lo stesso che aveva raccolto i gloriosi feriti di Porta Pia.
“Anche i medici, i paramedici, le strutture e i supporti ospedalieri- mi sussurrò sorridendo- sono, probabilmente, gli stessi”.
Mentre Estroverso parlava, Minchiuzzi sbirciava dall’uscio della camera: aveva visto avvicinarsi una barella che trasportava un suturato reduce dalla sala operatoria.
Il poverino si lamentava e invocava aiuto; chiedeva che gli fossero tolti i tubi e i tubicini che pendevano dal suo corpo e non si spiegava come l’asportazione di un’unghia incarnita comportasse un foro nell’addome e una voragine nel torace.
Una suorina, bianco vestita, lo confortava assicurandogli che presto sarebbe stato in grado di alzarsi e di apprezzare il miracolo compiuto dai clinici e gli diceva che , anzi, si sarebbe congratulato con loro per l’ottimo intervento, lui che tutti avevano dato per spacciato.
Il “miracolato” rispondeva di non capire, che era stato convocato in ambulatorio per strappare un’unghia che gli dava fastidio, che si era visto, invece, condurre d’urgenza in sala operatoria e addormentare dal pifferaio magico.
Con dolcezza la religiosa replicava che vaneggiava perché era ancora sotto l’effetto dell’anestesia, che era stato operato per quel suo annoso problema al vecchio cuore ammalato e che ora ne aveva uno tutto nuovo, di plastica, ma efficiente.
A quelle parole il cardioestolto assunse il colore bianco di una camicia bianca lavata con candeggina, smaniò, nascose l’iride nell’orbita oculare e perse i sensi.
La suorina sorrise dolcificante e varcò la soglia della mia stanza.
Immantinente, però, intervennero i due infermieri ghignanti per il rituale dei ceffoni sul volto, atti a scongiurare il coma.
Fu un successo: il plastificato pianse persino.
Lo lasciarono inebetito e affranto nella stanza che ospitava il sottoscritto, inebetito e stanco quanto lui.
Non so se per le botte ricevute dal poverino o per il timore di prenderne ancora anch’io, fui preso dall’impellenza di lasciar defluire il mio liquido ammoniacale.
Mi sollevai sui gomiti e feci cenno ai due infermieri di avvicinarsi al mio letto per aiutarmi a varcare la soglia della toilette.
Uno spintone mi ricacciò col capo sul cuscino quindi mi si annunciò che, per ordini superiori, mi era assolutamente vietato alzarmi.
Soluzione: la pala.
“La pala no!- protestai - non ci riesco… debbo stare da solo per concentrarmi…”.
Furono irremovibili: mi portarono il cessetto mobile.
Sebbene vari tentativi accompagnati dallo sfottò e dagli psss… di Gianni ed Egidio, non distillai neppure un goccetto, a dispetto della mia vescica che sembrava la vela di una nave col vento in poppa durante una tempesta.
A notte fonda, approfittando del sonno dei miei quattro aguzzini, Minchiuzzi, Estroverso, “l’incredibile Hulk” e Schwarzenegger, distrutto dai lamenti di “senza cuore”, mi alzai e, trascinando l’albero delle flebo, “clam”, andai in bagno: una squallida e male odorante latrina, che manco nei paesi più retrogradi .
La mia vescica aveva assunto proporzioni tipo il seno di Valeria Marini, soda e turgida, bollente e lucida nella pelle che la riveste.
Sebbene le mie torsioni sul water, lo scorrere d’acqua da tutti i rubinetti in dotazione al “bagno” dei maschietti, la lurida borraccia continuò a non mandar fuori il suo umore repellente, lasciandomi in preda alla disperazione più cupa.
Quando ormai non attendevo che lo scoppio delle mie vie urinarie, il giovane medico di guardia, svegliato dal rumore torrenziale dello scorrere dell’acqua, si affacciò nel gabinetto che mi ospitava.
“C’è qualcuno?” –chiese con voce stentorea.
“Tua sorella!”- pensò la mia mente obnubilata, incavolata dalla banalità della domanda.
Non ricevendo risposta, il dottor “Kildare” vinse l’indugio e si avventurò nella latrina.
Non appena mi scorse, mi riconobbe, puntò l’indice verso di me e m’intimò di tornare immediatamente a letto.
Io cercai di spiegargli quale fosse il mio problema, ma non volle sentire ragioni e, urlando come un pazzo, risvegliò i suoi “belli addormentati”, prendendoli a calci e richiamandoli ai loro doveri.
“Teyson e Cassius Clay”, colti in fallo, bestemmiarono e obbedirono.
Fui sollevato come un fuscello, mentre dal mio braccio si sfilavano gli aghi della flebo, e risbattuto nel mio letto senza che neppure mi si augurasse la buona notte.
Gianni ed Egidio, che dormivano sul terzo letto ancora disponibile, nonostante tutto il casino, continuarono a ronfare beatamente.
Tornata la “quiete dopo la tempesta”, il mio augellin non fece festa, anzi, se avesse avuto voce, avrebbe richiamato l’attenzione di tutto il personale sanitario.
Visto che lui taceva, spinsi il pulsante della chiamata d’emergenza.
“Gozilla” e socio mi guardarono in tralice e si avvicinarono al mio baldacchino.
Quasi con le lacrime agli occhi li pregai di fare qualcosa per svuotare la mia vescica e implorai perché richiamassero il farmacologico di turno.
“Kildare”, un po’ scocciato, si staccò dal cellulare che teneva appiccicato alle labbra (stava sussurrando parole tenere e indecifrabili al suo interlocutore, una femmina, come si capiva dal sorriso ebete e sdolcinato che allargava le sue labbra a goniometro), sbuffando mi raggiunse.
Per essere conciso e veloce, feci un gesto con la mano ad indicare il mio basso ventre (cosa che fu interpretata provocatoria tanto da suscitare sulle prime una reazione estremamente volgare dell’ospedaliero) e, quando finalmente chiarii l’equivoco, come contropartita mi si appioppò il catetere.
Non so se vi sia mai stato infilato un catetere nel pisello…
Credetemi è irriverente, mortificante e doloroso.
Il medico viene, guarda con aria professionale il tuo salsicciotto assonnato, lo impugna, lo strapazza quel tanto che basta ad individuare il canale urinario che penetra con una lancia lunga trenta centimetri collegata ad una sacca di plastica, gioisce mentre tu soffri, perché è stato costretto a manipolare il tuo “intimo” e se ne va schifato, imprecando, mentre si toglie coi guanti i guanti che ha utilizzato all’uopo.
Debbo riconoscere, comunque, che l’intervento fu risolutivo; infatti, in men che non si dica, riempii due sacche di plastica di un liquido dapprima rossastro, poi rosé, infine color paglierino.
Tirai un sospiro di sollievo e mi addormentai.

SE SON ROSE FIORIRANNO…

Il mattino successivo fui svegliato dai lamenti di “core ingrato”: piangeva e implorava la dolce suorina di porgergli il cellulare per telefonare al suo avvocato.
“Madre Teresa di Calcutta” si trasformò nella “Monaca di Monza”.
“Non rompa le scatole! – gli urlò, seccata, nei padiglioni auricolari- lei non può comunicare con alcuno (in verità disse nessuno, ma io glielo ho segnato blu) e ringrazi il Padre Eterno che non La lego al letto!”
La performance della sposa di Gesù m’impressionò: aveva gli occhi fuori delle orbite e la bava alla bocca.
La bianco vestita, accortasi del mio stupore, mi si accostò e, con voce alterata, mi disse: “Mi perdoni, ma non ne posso più! E’ tutta la notte che mi mette in croce!… non mi ha fatto chiudere occhio… sono stanca…”.
Uscì dalla stanza sbattendo la porta.
Il “petrolchimico” mi guardò esterrefatto: “ma guarda un po’ –dichiarò tra l’offeso e il costernato- io vengo qua, tranquillo tranquillo, ho un’unghia incarnita da strappare, mi consegno nelle mani di questi disgraziati e, invece di essere sottoposto ad un’operazioncina da quattro soldi, mi vedo strappare il cuore…roba da pazzi!”.
“L’interessante è che sia andata bene…”- cercai di consolarlo.
“Ma si rende conto? Andata bene… –s’infuriò il mio compagno di camera- andata bene un corno! Ero un maratoneta, ho gareggiato persino a New York, ho vinto sei medaglie d’oro e cinque d’argento, ho partecipato a tre Olimpiadi… il mio futuro era nello sport. Mi dica Lei- aggiunse sconsolato- ora che farò? Dovrò stare seduto su una sedia a rotelle per non so quanto tempo, poi dovrò fare la riabilitazione che mi consentirà a mala pena delle brevi passeggiate nel parco… e poi?…”.
“Ma con l’unghia incarnita- osai timidamente- non avrebbe potuto gareggiare ugualmente…”.
“Anche Lei è pazzo!- urlò il pover’uomo disperato- sono capitato in un manicomio!”.
Mi accorsi di aver esagerato perché le sue urla destarono Minchiuzzi ed Estroverso.
I due amici si avvicinarono al letto del mio coinquilino e cercarono di calmarlo.
Quando ottennero l’effetto desiderato, gli chiesero cosa fosse accaduto Il malcapitato riraccontò la sua disgrazia, cercando comprensione al suo giusto accanimento contro la struttura sanitaria, pulci del materasso comprese.
Minchiuzzi sbottò in un “per Allah! speriamo non sia biodegradabile!”; Gianni Estroverso, più razionalmente, giudicò che era stata fatta una grave ingiustizia ai danni dell’atleta poiché non gli era stato sostituito il cuore con quello di un altro maratoneta.
Il neo cardiopatico reagì con violenza alle osservazioni dei miei colleghi: sturò con un “blop” la vena inzufolata dagli aghi della flebo e scagliò il boccione contro i due scapocchioni.
Subito dopo impallidì, si portò le mani al petto e biascicò in una smorfia di dolore: “il cuore… il cuore…”.
Ma i suoi lamenti non furono presi in considerazione, poiché in ospedale tutti sapevano che il senzhard era privo del muscolo cardiaco.
La sua invocazione cadde nel nulla: fu interpretata come il ricorrente “mamma, mamma!…” che tutti pronunciamo quando non siamo in piena forma.
Anche Egidio, Gianni ed io ignorammo i lamenti che provenivano da quel corpo quasi esamine e parlammo dei casi nostri dopo esserci sganasciati dalle risate per le disavventure del povero disgraziato.
Non molto più tardi, però, quando i due dinosauri lo riportarono in sala operatoria, raccogliemmo come Tigellino le nostre lacrime di coccodrillo nel lacrimatoio di carta Scottex e recitammo la preghiera dei defunti.
Tornò dopo circa due ore, più incazzato che mai, con l’alluce bendato.













(tratto dal romanzo Noi del Benpensante di Natalino Lattanzi)


1 commento:

Anonimo ha detto...

Ho passato una buona mezz'ora a leggere le sue poesie e i suoi racconti.
Mi sono divertito e commosso come non mi succede spesso.
Grazie!
Fabio