giovedì 4 febbraio 2010

Day Hospital

DAY HOSPITAL
Le 7.30 di un mattino d’inverno.
Fuori fa un freddo cane.
La stilo di Saverio è ferma vicino il cancello della mia abitazione.
Lui è tutto imbacuccato. Una coppola grigia giù sino agli occhi, la sciarpa di lana blu come l’impermeabile imbottito, pantaloni di velluto e stivaletti marroni.
Penso che abbia anche camicia, maglione e giacca, ma non li vedo.
Salgo in macchina al richiamo del clacson. Dentro c’è un bel calduccio: Saverio ha avviato il climatizzatore che ora, all’interno, dà circa 28 gradi. Fuori la temperatura ne segna appena 2.
Lo saluto. Il vapore esce dalla mia bocca e appanna il parabrezza: ciao, socio, andiamo!
Saverio non mi risponde e dà di gomito sul vetro; termina l’operazione e sorride sornione: quante ore avevi oggi?
Cinque… e tu?
Cinque – mi risponde felice.
La Stilo corre veloce per i viali della città ancora assonnata.
Un ciclista si ferma al semaforo dove c’è un giovane che distribuisce City.
Ci fermiamo anche noi e chiedo due copie. Tanto – penso – avremo tempo per leggere.
Riprendiamo il percorso verso il Policlinico. Chissà se ci faranno entrare.
L’accesso, infatti, è vietato ai veicoli privati.
Proviamo al primo ingresso. Ci rimandano indietro.
Al secondo mi sdraio sul sedile con un fazzoletto premuto sul naso.
Prontosoccorso! – grida il mio socio.
Ci fanno passare.
L’area che occupa l’ospedale consorziale è immensa, eppure pare che non ci sia un buco per parcheggiare.
I posti per gli invalidi superano di un buon cinquanta per cento quelli per gli addetti ai servizi.
I primari hanno tre metri quadri ciascuno per i SUV parcheggiati a cazzo di cane.
Giriamo indolentemente per una ventina di minuti; stiamo per arrenderci quando un mezzo dell’Amniu si stacca dal marciapiede: è fatta.
Saverio nota che si tratta di un parcheggio riservato alle autorità. Gli faccio notare che siamo Collaboratori del Preside. Più autorità di questa…
Saverio annuisce: è vero, non ci avevo pensato.
Ora dobbiamo cercare il centro dell’Ipertensione.
Cacchio, ce ne sono sei! – ci dice un infermiere.
Quale sarà quello giusto?
Padiglione Chini, ci suggerisce una suora nero vestita.
Andiamo!
Nella portineria non c’è nessuno. Una vecchietta seduta sui sedili di legno marrone snocciola un rosario perché compaia un dottore che le indichi il gabinetto d’analisi.
Giriamo come automi nel deserto più assoluto.
Finalmente un essere umano!
Lo abbordiamo. E’ un anziano infermiere. Vuol essere coccolato. Si lamenta con noi del lavoro stressante cui è sottoposto a un anno dalla pensione. Gli dolgono le gambe e i piedi e sente freddo sotto il naso per i baffi che sono due ghiaccioli.
Gli suggeriamo di tagliarseli, ma lui ci guarda storto – è un voto per la squadra del cuore.
Finisce l’idillio. Ci manda affanculo senza darci l’informazione.
La tensione è diventata ipertensione. Si affetta come una ricottina quando ci rendiamo conto che sono le otto e non abbiamo la più pallida idea di quale sia la nostra meta.
Saverio batte i denti, io le mascelle. Che cazzo di freddo proprio oggi!
Ci pare un miraggio ma non lo è: è un dottore in carne e ossa che ci viene incontro tirando come un forsennato lunghe boccate a una sigaretta slim sul punto di spegnersi.
Facciamo per chiedergli, ma lui ci precede: una sigaretta vera e sarò vostro schiavo per tutta la vita.
Con un sorriso largo quanto la Stilo di Saverio tiro fuori il pacchetto delle Marlboro Light.
Il medico lo guarda concupiscente e tende la mano.
Alto là – dico io – prima l’informazione!
Tutto ciò che vuole.
Il centro d’ipertensione.
Ma ce ne sono sei!
Noi vogliamo il nostro.
Mi dia un indizio – dice sofferente il cerusico e non muove lo sguardo dal mio pacchetto.
Siamo ipertesi.
Anch’io – e brandisce lo stetoscopio.
Siamo ipertesi – ripeto – ma non tanto da darle le sigarette senza una contropartita.
Capisco. Oltre l’ipertensione cos’altro accusate?
Freddo.
E’ normale. Ma parlatemi dell’anormale.
Guardo Saverio.
Anche il seguace di Ippocrate lo fissa dritto negli occhi e: Neurologia. Dite che vi mando io.
Se mi dice il nome…
Se mi dà il pacchetto…
Ci guardiamo con sospetto, poi concordiamo. Scambio mano bocca.
Pronuncia Poniello mentre gli scivola nelle mani il pacchetto di Light.
Saverio apprezza il mio sacrificio e mi dice che quando usciremo, se usciremo, contribuirà all’acquisto di un nuovo pacchetto.
Glielo faccio giurare.
Lui giura.
Andiamo in Neurologia – dico tranquillo.
Sì, ma dov’è? Replica Saverio.
Con uno scatto di reni recupero Poniello che sta tirando come un drogato.
Dice di seguirlo, tanto è lui il primario.
Divento cortese soffocando il desiderio di soffocarlo (cazzo, non poteva dirlo prima?) e gli offro un altro pacchetto di Light, tanto ne ho una scorta in macchina.
Sorride felice e aspetta che ci raggiunga Saverio.
Il tragitto è breve. Una costruzione a cinque piani ci mostra le finestre illuminate al neon.
Il cielo è color grigio lupo.
L’indagacervelli si ferma: andate avanti – ci dice – io me ne faccio un’altra.
Se ci fermano?
Poniello, dite Poniello.
Poniello è primario del quinto piano.
L’ascensore non funziona. L’unico a scassare i timpani col suo rumore di ferraglia ha bisogno della chiave.
E’ il turno di Saverio: si porta il fazzoletto al naso e finge di perdere sangue.
L’ambulanza lo porta al Pronto Soccorso.
Io tallono la vettura con il fiato a metà. Ho vinto il freddo: sudo.
Finalmente l’autista si ferma e tira fuori la barella su cui è il mio socio; lo distraggo mentre Saverio prende la fuga.
Siete due pezzi di merda! – ci grida il dipendente sanitario.
Ma a noi non ce ne frega un cazzo.
Poniello sta appallottolando il primo pacchetto quando ci ritroviamo davanti a Neurologia.
Come mai ancora qui?
Col fiato corto gli rispondiamo che abbiamo voluto aspettarlo, per delicatezza.
Bravi, andiamo.
Lui ha la chiave e saliamo. L’ascensore si ferma al terzo piano.
Il primario ci spiega che la tromba delle scale al quarto e al quinto si restringe e la cabina non passa. In pratica, bisogna farseli a piedi, gli ultimi due. I gradini misurano ognuno mezzo metro. Poniello tira, noi non molliamo, gli stiamo dietro. Se fossimo nel presepe Gesù bambino avrebbe un caldo d’inferno.
La sala d’attesa è gremita. I pazienti, eccetto uno che sorride con ghigno diabolico, hanno il volto sofferente e si tengono con il destro il braccio sinistro. Un batuffolo di cotone impregnato di sangue poggia sull’incavo, dove è stato fatto il prelievo.
Siamo gli ultimi ma al tempo stesso i primi.
Varchiamo la soglia del gabinetto d’analisi. Ci stoppa un’infermiera. Niente più analisi per oggi: la dottoressa è stata ricoverata in ortopedia.
Ne capiamo il motivo.
Ci raggiunge una dottoressa giuliva. Sorride non appena ci scorge e ci domanda: i raccomandati?
Saverio ed io ci guardiamo: E da chi?
Ma da Poniello. Vi adora! Su, venite facimm’ ambress’.
Per una volta al di là della cattedra, la dott. ci sottopone a un fuoco di fila di domande su tutta la parentela.
Ma non si può fare i cazzi suoi? – penso.
Mi ha letto nel pensiero: È per l’anamnesi, sussurra e scodinzola.
Entra lo psicologo, ci guarda e dice: ora siete miei, andiamo!
Il suo è un bugigattolo con una finestra, una scrivania, una poltroncina (per lui) e una sedia per noi.
Ci accomodiamo occupando mezzo sedile ciascuno.
Il dott sorride: no, uno per volta.
Facciamo la conta: tocca a me.
Mi racconta una storiella che devo tenere a mente per riassumerla, cosa che mi accingo a fare.
Invece no, più tardi! Ora devo leggere in fretta alcune lettere con grafica colorata in cui, ad esempio, il verde è scritto in rosso, ed io devo leggere rosso e non verde. Che casino! Ma io, che son un gran casinista, nel casino mi ci trovo e le azzecco tutte.
Per ultimo affrontiamo il discorso sul pisello. Cazzo, vuol sapere se è ancora attivo! Gli racconto una mezza bugia. Sto per andar via quando si ricorda della storiella. Mi accorgo che manco lui se la ricorda e gliene invento una di sana pianta.
Dice che va bene, che sono attivo più di un vulcano spento.
Mi sta prendendo per il culo.
Poi tocca a Saverio e giù altre cazzate.
Torniamo da Giuliva (per distinguerla). Ci fa spogliare, chiede la nostra altezza (spariamo cazzate), misura il nostro peso, la massa magra (a Saverio solo quella grassa), la pressione al braccio. Ci fa distendere su un tavolaccio, in canottiera, e c’incatena con quattro misuratori ai polsi e alle caviglie.
Fuori il freddo si fa sempre più pungente, mezzi nudi lo avvertiamo anche noi.
Finalmente ci rivestiamo quando la pelle è lì lì per assumere il colore bluastro.
Ci attende una dottoressa dall’aria svogliata: Siete voi che dovete fare l’elettrocardiogramma?
Un sì ugulato all’unisono accende di cupidigia gli occhi della seguace di Ippocrate: spogliatevi!
Come, ancora?
E se no come vi faccio l’elettro.
Anche i pantaloni? Azzarda Saverio.
Se ha il cuore nei reparti bassi, anche quelli.
Il freddo continua a farsi sentire e la nostra pelle si ritinge di blu.
Avanti il primo!
Tolga anche la canottiera!
Virilmente obbedisco.
Si distenda sul lettino!
Cazzo, voglio vedere se Garibaldi avrebbe continuato a dire Obbedisco.
Torno subito – mormora la cardiosotutto.
Torna dopo dieci minuti, quando io sono ormai un lombo refrigerato.
Su, che non è niente, non tremi!
Mi scuso. È per il freddo.
Aah!...
Mi poggia gli elettrodi un po’ dappertutto.
Le ventose sembrano refrattarie alla mia pelle, per il sottile strato di ghiaccio che la ricopre.
Massaggi il torace e le caviglie! Ecco, bravo, così!
Torno rosato come un porcellino appena nato.
La macchina segna battiti e sbalzi sulla carta pseudo pergamenata.
Attenda qualche secondo…
Fa non so cosa, poi torna e: Si rivesta!
Gongolo al pensiero che Saverio subirà lo stesso martirio.
Invece no! Cazzo che fortuna ha quell’uomo!
In quattro e quattrotto ha finito e, a sfottò, mi sorride col medio alzato.
Torniamo in sala d’attesa.
Giuliva è contenta. Ci guarda e dice: Lattanzi alla schermografia, Del Sole all’ecocardiogramma.
Da buon fumatore guardo sempre con sospetto alla trapanazione radiografica. Saverio, invece, è preoccupato per questo nuovo esame cardiologico.
Ci guardiamo, poi decidiamo di confortarci a vicenda.
Lo accompagno. Il padiglione Chini è questa volta quello giusto.
Ormai lo conosciamo bene. C’inoltriamo nel deserto.
Cacchio, è diventata l’unica carovaniera. Ci facciamo largo tra le spinte che riceviamo e ricambiamo, sino alla stanza del dott. Iacovo. Un pigolio intenso trasuda dalla porta d’ingresso. Siamo in un pollaio industriale.
Il cigolare di uno stipite ci mostra il volto incartapecorito di un camice bianco.
Chi è Del Sole?
Saverio si toglie la coppola e si fa avanti.
Venga!
La porta si chiude.
Non so cosa avviene in quell’alcova ovipara, certo il tempo trascorre senza che Saverio ne venga fuori.
Decido all’istante: rompo gli indugi e mi reco nella sala blindata delle radiografie. Tanto siamo nello stesso padiglione. Ci ritroveremo, dove non so, ma un giorno…, il dottor Zivago insegna.
Un tecnico con una cicca spenta tra le labbra è appoggiato indolentemente a uno stipite.
Farò presto – penso.
Mi vede, mi chiede se corrispondo al nominativo che gli hanno citofonato e mi dice di attendere. Tornerà subito.
Aspetto pazientemente per un buon quarto d’ora. Eccolo che torna.
Allora, è pronto?
Da sempre rispondo.
Bene, si spogli, tolga il maglione, la camicia, la canottiera…
La pelle anche?
Le piace scherzare – mi dice mentre appoggio la spalla nuda su una lastra metallica. Un brivido mi fa rizzare… i capelli.
Fermo, così, non respiri!
Non respiro. Cazzo, ma quanto tempo ci mette a scattare la foto.
Sono in apnea da un bel po’, con il volto che nello sforzo di trattenere l’aria è diventato rosso come una mela Star quando mi consente di rimettere in funzione i polmoni.
Il mio è più un lamento, un sospiro liberatorio che un ampio respiro.
Centellino l’aria che vaporizza in effetto condensa.
Ora di profilo con le mani sul capo!
Ho visto molti film polizieschi, per cui mi è facile obbedire.
Non respiri!
Cacchio, spero che questa volta non se la prenda tanto comoda.
Speranza assurda più che vana.
Chiedo, finita l’operazione, quale sia la camera di decompressione.
Allora le piace proprio scherzare! – mi ghigna il tecnico. – Attenda, che le dico .
Attendo e non mi dice. Entra ed esce dalla stanza mordicchiando la cicca e sbattendosene della mia ansia.
Lo attendo al varco e l’abbordo: e allora?
Tutto normale.
Questa volta mando un lunghissimo respiro di sollievo. Si forma una piccola nube che poi si scarica in una pioggerellina marzolina.
Torno in cardiologia. Di Saverio non c’è traccia. Busso.
E’ qui Del Sole?
Silenzio.
Ripeto: il prof. Del Sole è ancora qui?
Si riaffaccia l’incartapecorito: lei chi è, un parente?
Vent’anni d’amicizia mi hanno reso tale.
Sì, il gemello!
Attenda, sta rivestendosi.
Torna il pigolio intenso, si ferma, riprende, poi Saverio.
E’ rosso come un peperone della Cajenna, ma sorride: Tutto a posto. Ora andiamo alla radiografia.
Già fatto – dico soddisfatto – anche a me tutto a posto.
Giuliva ci attende. È il momento dell’olter.
Rassegnati, Saverio ed io, senza aspettare che ce lo si dica, entriamo nella saletta olter e ci togliamo giacca, maglione, camicia e canottiera.
Per il mio socio l’operazione è più lunga perché indossa la maglia della salute che ha un giro collo strettissimo.
Lo aiuto e gli scompiglio quei quattro peli che gli circondano la nuca. Lui si passa una mano sul capo quasi a volersi ricomporre.
L’olter è una macchina rettangolare delle dimensioni di una compatta fotografica. Ha un orologio interno che segna le ore e poi chissà quale diavoleria che registra le pulsazioni cardiache e la pressione arteriosa.
Posizionata in una custodia di materiale sconosciuto, è dotata di una cintura da allacciare i vita, una fascia misuratrice di pressione collegata al marchingegno da un lungo tubicino cavo, che passa intorno al collo a mo’ di collana.
Il posizionamento non sarebbe sgradevole se fosse disposto in stagione primaverile o estiva, ma col freddo che tira ti fa accapponare la pelle che ormai degrada dal blu violetto al grigio topo. E’ necessario, infatti, una volta messo a mo’ di cilicio, resettare il piccolo computer di cui è dotato e riavviarlo dopo due o tre tentativi andati in buca.
Giuliva ci raccomanda: Quando sentite che il bracciale si gonfia e diventa tanto duro da farvi dolere il braccio, chiamatemi, così verificherò che tutto funzioni al meglio.
Detto questo, si avvicina a Saverio, lo circonda con le braccia per sistemare in vita la cintura reggente.
Il mio socio è immobile come un fuso.
Poi è il mio turno.
Giuliva mi si avvicina, mi circonda con le braccia e io sento il profumo dei suoi capelli lavati di fresco e shampati di buono.
So che il bracciale comincerà immediatamente a funzionare.
Ora fermatevi nella sala d’attesa e, non fatevi scrupolo, chiamatemi!
La mia previsione non falla: non appena mi seggo sento il bracciale pompare.
Saverio mi dà di gomito: anche a lui.
Il bracciale stringe in modo sorprendente, tira i tendini del braccio sinistro, ne rattrappisce le dita per il formicolio intenso che procura alle falangi e per il sonno in cui è caduto il muscolo estensore del carpo in visita a sua sorella.
Ancora una volta virilmente non emettiamo un solo lamento, confortati come siamo dal sorriso di una suorina che ci siede accanto.
Quando il dolore diviene più acuto, però, ci alziamo e bussiamo alla porta di Giuliva: dottoressa- sussurriamo – è gonfio è duro e ci fa male.
Giuliva non risponde.
Con discrezione riproviamo con un filo di voce: Dottoressa, ci fa male, è gonfio e duro.
Ma la nostra tutrice deve essersi addormentata: la porta resta chiusa.
A quel punto, perso ogni ritegno, gridiamo univocamente: Giuliva, è duro, gonfio e ci fa male.
La suora ci guarda sconvolta, si alza e va a rincantucciarsi, in diagonale, nell’angolo opposto a quello che occupiamo noi.
Anche gli altri pazienti in attesa di essere visitati ci mostrano il loro disprezzo indirizzandoci severe espressioni verbali di rimprovero.
Saverio ed io inebetiamo.
Cosa cacchio vogliono questi stronzi! Non lo sanno che poi verrà il loro turno?
Giuliva apre rapidamente la porta. Nello sguardo c’è un rimprovero frenato solo dall’essere raccomandati dal suo capo. Ci fa entrare nella saletta, controlla senza dire una parola lo stato delle nostre braccia. Si rende conto che qualcosa non va. Resetta il tutto, ci inviata a tornare nella sala d’attesa e ci raccomanda: Non urlate, non parlate, bussate soltanto, date tre forti colpi e vi aprirò.
Nella sala d’attesa tutti i pazienti sono raggruppati in fondo. Al nostro apparire si raccolgono ancor più. La suora ci mostra il suo biasimo non degnandoci di uno sguardo.
Ora il marchingegno va bene. Lo comunichiamo a Giuliva dopo aver quasi sfondato la porta.
Torneremo domani per il prelievo e per l’estolsione dell’olter.

2 commenti:

Psy ha detto...

Mi sa che, se non eravate ammalati prima di entrare, lo siete senz'altro adesso, a forza di "si spogli" con una temperatura appena appena tollerabile ;-)

Anonimo ha detto...

Carissimo zio, ieri ho letto il tuo racconto alla fine di un'intensa giornata di lavoro e devo dire che mi ha portato tantissima freschezza... forse troppa... perché oggi ho un mal di gola b-e-s-t-i-a-l-e! E non scherzo. ^^ Che mi sia identificata troppo in te e il tuo collega?
Cooomunque, murtaccidelraffreddore a parte, mi è piaciuto assaj. Soprattutto mi sembra così diverso dagli altri, più asciutto, incisivo, diretto. Mentre leggevo, ridevo da sola come un'ebete. Io continuo a pensare che tu debba trovare un editore e pubblicare. Certi tuoi racconti sarebbero bellissimi interpretati a teatro! Sei esilarante... fossi un editore ti pubblicherei IMMEDIATAMENTE! Facciamo così: tu metti il capitale per aprire la casa editrice e io ti pubblico. Ce stai? Bacione. Paola