
A
Giorgio, Adamo,
ai miei fratelli
Lello,
Nino, Pupa, Cocca, Enzo
e alla
loro progenie
INTRODUZIONE
Dar vita a questo nuovo libro sulla scuola e altro è
necessario per chiarire alcuni punti essenziali riguardo l’Istruzione Pubblica,
così come è stata voluta e decisa dal nostro Parlamento.
Si ha voglia a discutere sulla bontà della riforma
Gelmini, che di suo ci ha messo, probabilmente, solo la firma (poverina sa di
scuola, quanto io di matematica!), quando appare chiaro l’ulteriore grado di
disfacimento a cui ha condotto. Appare chiaro, altresì, quanto poco siano
interessati i nostri governanti a fare dei nostri giovani la futura classe
dirigente politicamente responsabile.
La scuola è divenuta un enorme asilo nido, dove i ragazzi
soggiornano, bivaccano, si divertono e non studiano. Per carità le pecore
bianche esistono ancora, anche se si nascondono nel buio profondo della enorme
moltitudine delle nere. Ma così va bene perché
abbattere il carrozzone della
Pubblica Istruzione è un doppio affare: ridà alla scuola privata il compito di
formare i futuri dirigenti e rimpingua le casse dei partiti che, a destra come
a sinistra, si spartiscono la torta.
Per cui, fare ricorso a una nuova pubblicazione che
chiarisca il concetto di scuola degli ultimi vent’anni, se non di più, ritengo
sia cosa utile particolarmente ai genitori dei ragazzi delle nuove generazioni
che affollano le aule.
A me è capitato, come a tanti insegnanti, di vedere torme
di genitori indiavolati per un quattro sul pagellino bimensile o sulla pagella
quadrimestrale. Eppure erano consapevoli che a casa i loro figlioli non
studiavano, erano consapevoli dell’enorme bontà dei docenti ligi al dettato del
dottor Spock.
Bene, per tornare al primo assunto: a che, quindi questo
nuovo romanzo? Non a disquisire se adottare anche negli istituti di istruzione
secondaria, o Superiore, come oggi si dice, il
metodo Montessori, che quello, per volontà politica è già in corso d’opera,
ma se tornare a dare dignità alla classe docente fornendole gli strumenti per
non essere più micragnosa, permettendole un vero e proficuo insegnamento riducendo il numero degli studenti per
classe, consentendo di mettere il sapere a disposizione dei giovani, esigendo
una disciplina che ora è pura utopia, incrementando il numero di insegnanti (e
non riducendolo come si è fatto sino a un minuto fa), consentendo un
aggiornamento adeguato e non basato su stupide sperimentazioni che altro non
fanno che rimpinguare lo tasche di qualche dirigente senza scrupoli, dando al
precariato, senza il quale la Scuola non va, dignità di ruolo e, infine, ma non
per ultimo, portare gli stipendi a livello europeo e non da quarto mondo.
I brevi racconti che seguono costituiscono uno spaccato
dell’attuale condizione di questa bistrattata classe docente che, per
sopravvivere, poiché non c’è più soddisfazione nell’insegnamento vero, spesso,
ricorre a mezzucci atti a soddisfare piccoli desideri che il misero stipendio
altrimenti non consentirebbe.
Ho aggiunto, quasi in appendice, alcuni brevi racconti di
spaccato familiarmente quotidiano di cui uno, Giudizio Universale, mi è
particolarmente caro per averlo scritto a quattro mani con mio fratello Lello
che, purtroppo, non è più. A lui e a altri miei cari dedico questa piccola
opera.
Il
laboratorio multimediale
La prima volta che misi piede nel laboratorio
d’informatica mi sembrò di entrare nel mondo delle meraviglie. Io ero, solo per
rispettare la favola, Alice, e il coniglio bianco era il tecnico di
laboratorio, Osvaldo La Gomma, che tutti per affetto chiamiamo Capitan Uncino,
ma di solito solo Uncino, per l’odio che nutre per il mondo ittico. I computer
erano nuovi di zecca, i monitor erano altrettanti specchi a sfondo nero, le
tastiere bacchette magiche che producevano il reale e l’irreale, il mouse il
solito topaccio di fogna che percorreva le distanze speculari per inseguire,
come pezzi di formaggio, lettere e immagini che correvano sui video. Ma non
basta. Persino il pavimento della sala era tirato a lucido con quegli stupendi
prodotti chimici che ragazze svestite pubblicizzano sulle nostre televisioni.
Ero stupefatto. Pur avendo poche o nulle nozioni d’informatica, mi trasformai
in mr. Hyde e produssi con i miei alunni decine di CD con progetti sperimentali
sull’hinterland barese. Poi la scuola s’ingrandì, s’ingigantì anzi; non eravamo
più io e qualche altro docente di buona volontà a varcare la soglia di quel
magico mondo, divenimmo duecento a contendercene il possesso, sia pure temporaneo.
C’era un via vai davanti la porta blindata che mai i bagni delle sale
cinematografiche quando si proiettava la
Corazzata Potyonki hanno annoverato. Le fette maleodoranti infilate in scarpe
ginniche 500 € al paio di migliaia di alunni cominciarono a calcare il
magnifico pavimento di marmo insozzandolo con il terriccio esterno che ne
divenne parte integrante, le tastiere furono pestate da centinaia di migliaia
di mani sporche e unte d’olio di focaccine manipolate da Leonzio, il nostro
gobbo di Notre Dame, i monitor divennero specchio per le alunne che dovevano
rifarsi il trucco, mentre per gli
arrapati cronici costituirono il mezzo
virtuale per toccare le tette di qualche fanciulla la cui immagine
compariva d’incanto a schermo intero; i mouse assunsero il compito di supposte
per gli stitici doc. La polvere cominciò, così, ad accumularsi sui banchi,
mentre le vetrate furono coperte da chewingum e sabbia, che il vento di Levante
porta sino a noi, tanto da trasformare il tutto in una camera oscura.
Incurante dei parassiti, dei batteri e delle piattole,
l’altro giorno, precettato Osvaldo, mi sono seduto alla poltrona di comando per
sviscerare ciò che la mia diabolica mente aveva partorito circa l’orario del
corpo docente. Uncino non era solo. Veleggiava, con lui, Rodolfo Lo Smilzo, il
tecnico del secondo laboratorio. C’è da dire che quando i due parlottano tra
loro diviene impossibile decifrare una sola parola. Usano un linguaggio
primordiale, fatto di suoni gutturali, di strofinate di palle con relativo
mugugno di soddisfazione, di masticatura di gomme americane fatte in Cina con
licenza italiana, di gesti inconsulti di solito accompagnati da risolini con
piega amara e sventolio di fazzoletti di cotone per detergere l’abbondante
sudore provocato dal difficoltoso confronto verbale sui rispettivi regni.
M’imbattei in uno di questi momenti. Avrei preferito
scaricare la tensione del lungo lavoro da solo, chiuso nella rabbia che si
manifesta ogniqualvolta mi si presenta le
cahier de doléances dei miei colleghi, amareggiati dai frequenti buchi che
costellano il loro orario. Ma Osvaldo e Rodolfo avevano voglia che io facessi
da arbitro alla loro tenzone verbale. All’oscuro dell’oggetto del contendere,
chiesi che almeno mi si dicesse di cosa stavano parlando. E fu un errore. Uno
da un lato, l’altro dall’altro, mi assalirono con le loro emissioni vocali
incomprensibili, mentre ambedue gocciolavano secrezioni sudoripare da tutti i
pori visibili del loro corpo. Osvaldo va sui toni alti , Rodolfo è il più
ermetico. Tra vari embhè ,e già, uuhmm
, così, perché, quando , quindi, non sono
fesso, che poi ho cinquant’anni, uniche espressioni che riuscii a
comprendere, e gli e già (ne hanno molti in comune) , mo senti, dato che, se vuoi una
gomma, i contributi e dell’altro, non
capii una mazza. Mi sentivo come Paride tra due trans nei panni di Venere e
Giunone,con la voglia di spiaccicare sul loro cranio la mela, per equa divisione, piuttosto che darla a uno dei
due in segno di vittoria. Dopo circa
dieci minuti di questo linguaggio cifrato più consono ai servizi segreti che a
poveri dipendenti della P.I., mi
arresi. Li stoppai e li pregai di tornare al linguaggio originario, anche al
dialetto purché mi si parlasse in modo intellegibile. Si offesero. Mi aggredirono con altri grugniti e squilli
di tromba non identificati, ma che stavano a indicare il disappunto per la mia
rottura di palle. Li mandai affanculo e cominciai a muovere le mie pedine sulla
scacchiera del quadro orario.
Non si persero d’animo. Poco dopo tornarono alla carica,
nonostante inviassi mentali e fervide preghiere per renderli temporaneamente
muti. Al loro indistinto chiacchiericcio si unì, frattanto un fastidioso
parlottio che s’infrangeva sulla porta blindata.
Tra i vari intercalari, sottoponendo la mia corteccia
cerebrale a uno sforzo immane, compresi. Il tutto verteva su alcuni compensi
aggiuntivi, quali quelli relativi ai
corsi POF,PON e POR. Chiedevano a me, che non me ne fotte, se fosse giusto che
un altro aiutante tecnico godesse di privilegi a loro sempre negati, nonostante
vantassero una maggiore anzianità di
servizio nel Benpensante. Cercai di calmare la loro animosità, che si
manifestava con un effluvio di parole smozzicate, sputacchi di saliva sul mio
giubbino, pugni sulla scrivania in truciolato, calci alle poltroncine delle
postazioni di computer, motivando le decisioni del preside non come frutto di
partigianeria, ma scelte tecniche, data la diversa attribuzione di mansioni. E
lì sbagliai. Non appena pronunciai diversità
di mansioni, mi assalirono, mi strattonarono per il giubbino, mi spinsero
sulla sedia, mi schiaffarono quasi negli occhi i loro indici per affermare la
loro supremazia in fatto di gestione dei mezzi informatici. Infine conclusero: il loro rivale era, a detta dei
due, il favorito di Porfido Valà. Per stemperare l’atmosfera con fare sornione
chiesi se volessero sottintendere che Porfido fosse gay. Per loro ridere a
crepapelle è mostrare appena le dentiere quotidianamente lucidate. E lo
fecero. Il luccichio del sole sugli
incisivi durò una decina di secondi, poi, calmatisi, mi chiesero, a gesti più
che a parole, di essere portavoce del loro scontento. Bontà loro, ero adatto ad assumere il ruolo di patrocinante
dei diseredati, come essi ritenevano di essere. Confessai la mia impotenza. Mi
assalirono ancora. Mi arresi. Zittirono.
Poi, dopo un attimo di pausa, come due orologi sincronizzati, programmati sullo
stesso orario di sveglia, riattaccarono. Si erano pentiti. Decifrai che mi
pregavano affinché non facessi parola con alcuno, men che meno col preside, del
loro sfogo. Finsi di nicchiare ma, prima che cambiassero idea, aderii alla loro
richiesta. Mi lasciarono solo nella piccola cloaca e scaricai il mio nervosismo
attribuendo prime e seste ore di disposizione ai miei ignari e incolpevoli
colleghi. Frattanto il parlottio al di
là della porta blindata continuava.
Temperai nervosamente la matita. La punta s’incastrò tra la lama e la fessura
che consente ai riccioli di legno di venir fuori. Tirai con forza e trac, castrai l’attrezzo della sua mina
per intero.
Sacramentavo quando Osvaldo rientrò nella stanza: ci
aveva ripensato, Rodolfo no. Mi si avvicinarono, e ripresero a gesticolare e a
grugnire. Mi ricordarono King Kong, il
gigantesco gorilla che si voleva fare la dolce fanciulla bionda. Per fortuna sono bruno, o meglio grigio
brunito, e non una dolce fanciulla.
Si affacciò nella
stanza il prof Del Cozo, mio socio nella redazione dell’orario. Del Cozo, RSU a
tutti gli effetti, deputato a difendere i diritti dei lavoratori, fu la mia
ancora di salvezza.
Del Cozo è flemmatico, per meglio dire è un paraculo.
Dice sì a tutti per non subire pressioni fisiche, più che psicologiche.
Chiaramente il più delle volte viene meno a ciò che promette, ma si giustifica
col sorriso sulle labbra, scaricando la responsabilità su chi è più su o più
giù di lui. Di fronte a questa
assicurazione, la maggior parte dei petenti si rassegna, perché non ha
il coraggio di affrontare vis a vis il gota del Benpensante. Del
Cozo, il piccolo Budda, si assise in
mezzo a lor e con aria da confessionale e li ascoltò. Non capì una mazza
ma, comunque, si dichiarò a loro disposizione. Poi sedette accanto a me.
Osvaldo e Rodolfo frattanto si erano ammansiti; borbottarono ancora vari e già, ho cinquant’anni, non mi prende
nessuno per il culo e altre colorite accezioni e, seduti a due
postazioni per studenti, si dettero alla lettura di City.
Un silenzio chiesastico scese nella sala computer. Del
Cozo ed io ci guardammo sorpresi. Volgemmo lo sguardo alle nostre spalle e
vedemmo i due indefessi lavoratori col capo poggiato su due tastiere, nelle
tenere braccia di Morfeo, dormire come due angioletti.
Il timore di svegliarli ci fece desistere dal continuare
il nostro lavoro. In punta di piedi raggiungemmo l’uscita e li lasciammo ai
loro sogni beati. Il corridoio che permette l’accesso alla sala computer era
bloccato. Decine di colleghi che avevano preso visione dell’ennesimo orario
provvisorio ci attendevano al varco. Non appena ci scorsero ci circondarono.
Avevano tra le mani proposte di orario personalizzato, ciascuno adducendo
inderogabili problemi di famiglia. Duri
più dei protagonisti del film Noi duri
non ci facemmo intenerire né da chi dichiarava di dover lasciare il bambino di
tre mesi fuori dalle cancellate dell’Asilo Nido, a Napoli, alle tre del mattino
per essere puntuali a scuola, a Bari, in prima ora, né da coloro che
vantavano padri, madri, nonni e
zii da dover assistere in ottemperanza alla legge 104. Solo due furono i casi
che prendemmo in considerazione, perché veramente degni di comprensione. Il primo ci fu esposto dalla collega d’Inglese,
Carmen Cugina della Sorella, di antica famiglia nobile originaria di Zollino.
La poverina rappresentava veramente un caso particolare. Con un marito in
pensione e due figli militari di carriera imboscati in fureria, aveva un
appartamento di 230 mq da sistemare ogni mattina con l’aiuto di una sola
cameriera o collaboratrice domestica, come cacchio si usa dire oggi; l’altro
era ben più grave. La prof Scoppola, docente di Matematica, madre di due figli
fuori corso alla facoltà d’Ingegneria Nucleare, aveva grave necessità di non
essere in servizio in sesta ora poiché doveva prelevare i suoi pargoli
all’uscita delle lezioni universitarie. Mostrammo il nostro buon cuore, Del Cozo
e io. Dichiarammo che avremmo esaminato i loro casi vista la gravità delle
motivazioni addotte. Mentalmente li mandammo affanculo, praticamente glielo mettemmo nel boffice.
Le urla di protesta destarono Biancaneve e la Bella
addormentata. La Gomma e Lo Smilzo
si unirono al coro dei contestatori.
Pensavano i due imbranati che Del Cozo e
io stessimo indirizzando i nostri
colleghi verso il laboratorio di Quinto il
Pelato, il terzo aiutante tecnico, beniamino forse gay del preside forse
gay. Nonostante le nostre proteste d’innocenza, sfiduciarono Del Cozo e
dichiararono che essi stessi avrebbero provveduto a far
abolire lo scandaloso Ius primae
noctis. Non c’entrava un cazzo, ma lo dissero.
Seguiti da un nugolo di docenti, Osvaldo e Rodolfo
raggiunsero la presidenza. Porfido era impegnato con il team della Qualità.
Anche lì, casino. Una ventina di docenti circondava la scrivania del preside,
costretto a girare come una trottola sulla poltrona girevole per ascoltare il
pensiero di ciascuno. La prof Antrocof, di origine ucraina, docente di
francese, era in piedi e invocava l’intervento di Gorbaciov durante le sue
lezioni, per avviare una mini
Perestroika che insegnasse ai suoi alunni come si fa ad abbattere un muro; il
docente di Fisica, Alex Dell’Angelo Della Bona Nova, convinto della bontà
del progetto della collega chiedeva di
rivolgersi a Maria Lippi, per poter inviare, attraverso la trasmissione C’è
posta per te, una lettera d’invito
all’ex premier russo. Il prof
Caimano, docente d’italiano, scafato a
tutte le pseudo novità, scetticamente asseriva che la Perestroika non c’entrava
una minchia, ma che gli alunni avrebbero dovuto seguire la trasmissione
televisiva, L’isola dei famosi, per essere avviati alla vita vera. La più
assennata fra tutti era la prof di Educazione Fisica, Ciccia La Corta, che
pensava che la qualità fosse solo del
prosciutto di Parma con il suo marchio DOC.
Porfido perse per un attimo il senso della realtà. Chiese, rivolgendosi
verso l’unico pertugio libero, cosa bollisse in pentola; poi, consapevole della
sua defaillance, si passò una mano sugli occhi e decise che Quinto avrebbe
raggiunto la piccola assemblea. Rodolfo Lo Smilzo divenne color pomodoro e
sbottò: - Ma cacchio, se siamo qui noi perché chiama Quinto? Allora è vero che
è il suo preferito! Osvaldo incalzò: - Le particolarità devono finire, non è
possibile che lei imponga lo ius primae
noctis, cacchio!
Valà non sembrò per
nulla scosso dalle loro parole, anzi sorrise bonario: il pelato era alle
loro spalle.
- Quinto - sussurrò poi con voce arrochita - scaricami il
progetto qualità del liceo classico.
- Allora lo fa apposta - sbottò Lo Smilzo e sbatté la
porta.
Osvaldo lo seguì masticando nervosamente una gomma.
Non appena fuori i due si proclamarono in sciopero bianco
fino a che Porfido non avesse restituito loro la propria dignità assegnandogli
un nuovo corso da gestire senza che Quinto ricevesse alcuna contropartita.
Incrociarono le braccia e attesero Del
Cozo al varco.
Frattanto il pelato aveva scaricato il file del progetto
del Liceo. Uncino e lo Smilzo lo guardarono indignati. Il pelato ricambiò lo
sguardo, rise compiaciuto e varcò la soglia della presidenza. Del Cozo e io
eravamo sul punto di ritirarci nelle nostre stanze, quando il preside ci
stoppò: Cosma e Damiano, dove andate? Non sapete che anche voi fate parte del
progetto qualità?
Veramente non lo sapevamo, ma prendemmo posto su due seggiole vacanti poste
alle spalle di Porfido.
- E’ per pararle il
culo - sussurrò all’orecchio del preside Del Cozo, che intrattiene con
lui un rapporto privilegiato.
- A proposito - chiese Valà - cos’è questo fatto dello ius primae noctis?
Mi sentii in dovere di rispondere.
- Lo ius
primae noctis era il privilegio del principe di portarsi a letto la sposa del suddito nella prima
notte di matrimonio.
Questo lo so - sbottò Porfido - ma che c’entra con
Quinto? che me lo porto a letto io?
Le colleghe presenti sorrisero imbarazzate, Caimano e
D’Angelo sghignazzarono.
- Chiariamoci - esclamò Valà - ho moglie e figli io!
Del Cozo sbadigliò - E chi lo mette in dubbio… quello non
sapeva manco cosa diceva…
Quinto divenne più rosso di una mela Star e cercò di
guadagnare l’uscita.
- No, no! – lo fermò Valà - e mo che fai te ne vai e io resto qui a dare spiegazioni. Parla
anche tu!
- Preside, ma che
debbo dire…
- Come, che devi dire? Tu devi parlare!
- Ma, preside,
così mi mette a disagio.
- E perché a disagio? Ouh, non ti mettere niente in
testa…
- Che mi devo mettere
in testa?
- Beh, lasciamo
perdere, perché se no qui …
- Eh no, adesso deve chiarire! Anche
io ho moglie e figli e non è che mo ci debbo fare la parte del …
Del Cozo intervenne con la sua diplomazia del “sì,
avete tutti ragione”: Per carità, qua ci stiamo perdendo
in cose di poco conto. Lo sappiamo tutti che Osvaldo non voleva assolutamente
alludere a ciò che pensate. Quel ragazzo parla spesso a sproposito, non sa cosa
dice in italiano, figuriamoci in latino… il suo problema, come quello di
Rodolfo, è di percepire più danaro, che collabori o no ai progetti.
Detto questo si
sedette a gambe larghe sulla sponda della scrivania presidenziale e attese le
reazioni del pubblico. Quinto e il preside mostrarono di gradire il suo
intervento, anche perché chiudeva una questione che stava prendendo una strana
piega. Tutti gli ascoltatori, a quel punto, si dichiararono d’accordo con le
idee delcoziane e si riprese a discutere del progetto qualità. Valà, dopo un
po’, dichiarò che era meglio interrompere la seduta perché si era fatta ora di
pranzo e la prorogò al giorno successivo.
-Mia moglie mi ripudierà- disse sorridendo- domani è il
suo compleanno e io, invece che a casa,
starò a scuola.
Un coro di voci da soprano si alzò alto nel cielo.
-Preside - pregò Ciccia La corta autoelettasi portavoce
dell’assemblea-spostiamo a dopodomani. Le altre applaudirono a mo’
d’incoraggiamento.
Porfido nicchiò per far sì che il coro divenisse
veramente unanime, poi, quando si rese conto che l’androceo non reagiva, con
aria sconsolata ripeté che era necessario rincontrarsi l’indomani per rispettare
la scadenza del bando del progetto.
Il coro ancillare divenne più forte e accorato, ma non
commosse alcuno di noi maschi già pronti a togliere le tende. Del resto eravamo
ben coscienti che Porfido, piuttosto che rompersi le palle a casa, preferiva
romperle a noi a scuola.
Non appena fuori della presidenza Del Cozo e io fummo
abbordati da Osvaldo e Rodolfo. Osvaldo ci offrì immediatamente una gomma da
masticare. Da quando ha smesso di fumare per risparmiare, spende una cifra in
chewingum.
Masticando a bocca piena mi rivolsi a Uncino: ma come
cazzo ti è venuto in mente di citare lo
ius primae noctis? Lo hai fatto incazzare!
-Ma perché, non è giusto?
- Sì che è giusto, come detto latino, ma tu che cacchio
volevi dire?
-Come, non è chiaro? Ius lavoro sino a poco prima che si
faccia notte.
-Ma chi è sto
cavolo di ius?
- Scusa, in latino io non si dice ius?
- Ma vaffanculo! Ius sta per diritto e lo ius primae
noctis significa farsi la sposa prima dello sposo.
-Ma come, davvero? Non è che mi prendi per il culo?
-Senti, se vuoi fare una cosa buona
va’ da Porfido e chiedigli scusa. Lui pensava che tu volessi dire che
è gay
- Madonna, che ho fatto!
Del Cozo lo consolò dicendogli che tutto poteva essere
riparato con le scuse e non insistendo più sulla primogenitura di Quinto.
Rodolfo si associò alla richiesta prevedendo ritorsioni anche contro di lui che
si era associato nella protesta al suo collega.
Bussarono alla porta di Valà. Come al solito Del Cozo e io origliammo. Sentimmo
il tono sommesso dei due nel silenzio di Porfido, poi il silenzio dei due tra le urla di Valà che li
minacciava di provvedimento disciplinare. Uscirono a testa bassa imprecando
contro il loro avverso destino.
La loro
condizione, comunque, è leggermente cambiata: percepiscono qualche euro in più,
ma non hanno smesso d’invidiare il collega pelato che la fa da padrone su due
laboratori con il consenso del preside.
Minchiuzzi
è laureato
Minchiuzzi
è laureato. Nessuno lo credeva. Noi pensavamo che per una di quelle strane leggi
di un tempo, quelle per cui cuochi divenivano docenti, avvocati prof. di
educazione fisica, ex bidelli presidi, beh, per una di quelle leggi anche lui
avesse potuto fregiarsi del titolo di docente senza essersi spaccato il culo
sui libri di testo griffati dai baroni universitari. L’altro giorno,
trionfante, mentre eravamo al bar, mostrò il suo diploma targato 1972 perché si
era scocciato delle frequenti illazioni sul suo conto. Tanto di 110 e lode in
Scienze Apolitiche. Mai sentita prima quella facoltà; inoltre da noi insegna
genetica. C’insospettimmo. Un mio amico lavora nella segreteria generale
dell’Università, quella in cui si rilasciano i diplomi originali di laurea. Non
frapposi indugio: telefonai. Oreste Pugnetta mi rispose con la sua parlata strascicata
da texano… da molfettese cioè. Non appena mi riconobbe mi salutò con il solito
-“ciao, Nanni, sempre seghe, vero?”. Anche lui stava sorbendo il caffè. Il
caffè per Oreste è come la benedizione papale nel giorno di Pasqua. Ha una
sacralità tutta sua, particolare. Oreste lo centellina alternando a ogni sorso
una tirata alla pipa di radica che fuma da sempre. Lo mescola con il fumo che
ingoia con ingordigia, cacciandolo nelle profondità degli alveoli polmonari
senza tossire; con lo sguardo rivolto al cielo butta fuori ampie volute di
fumo, quasi a mandare un messaggio al padreterno, come facevano i pellerossa
quando sacramentavano tra loro contro i bianchi sterminatori di bisonti. Il
barista, uno serio il suo, gli serve la bibita in una coppa da cremolata (un
gelato tipico del Sud) in cui il mio amico intinge il cannello della pipa
quando il caffè è agli sgoccioli per lasciar sedimentare sulle papille linguali
il fumo aromatizzato al Segafredo, la sua marca preferita. Non so perché mi chiami Nanni, né perché,
lui, col cognome che si ritrova, mi chieda ogni volta se faccia ancora
pugnette.
Ci
conosciamo da ragazzini, quando la mia famiglia si trasferì nello stesso
stabile in cui abitava la sua.
Il primo
incontro non fu dei più simpatici. Lui aveva la sua gang, di cui era il capo.
Scorazzava per le scale del palazzetto in cui abitavamo, che portava ancora i
segni di un possibile crollo, tanto era puntellato con travi grosse una
trentina di centimetri, scivolando sui corrimano. Noi ci eravamo stabiliti provvisoriamente
lì perché la nostra precedente abitazione era stata presa di mira dai
bombardieri americani, i B29, che evidentemente lo avevano in grande antipatia.
Un giorno, durante una delle solite scivolate, Oreste mi era precipitato
addosso procurandomi un bozzo sulla fronte che non si ruppe solo perché il mio
cranio è a prova di martellate; lui, invece, svenne. Questo fatto non gli andò
a genio, perché aveva la fama di duro. I suoi compagni cominciarono, così, a
non essere più convinti della sua leadership e a guardare a me con un certo
interesse. Nacque, in questo modo, una rivalità che risolvemmo con una
scazzottata, come avveniva nei film di John Wayne. Io, per la verità, ero
contrario alla violenza perché i miei avevano fatto di me un timorato di Dio, mandandomi
sin dall’asilo presso monache e preti, ma ci fui tirato per i capelli quando,
di fronte a un mio ennesimo rifiuto, Guido, uno della banda, mi disse che ero
una checca. Feci in modo che lo diventasse lui sferrandogli un calcio nelle
palle e, poi, accettai la sfida. Ci picchiammo rompendoci labbra e naso. Alla
comparsa del sangue,però, ci guardammo negli occhi e assalimmo gli altri
componenti della gang che assistevano compiaciuti alla nostra macellazione. Li
stendemmo tutti e divenimmo amici.
-Nanni
del cazzo! - ruggii.
Il nome
Nanni mi fa andare in bestia. Si chiamava così un giovane gay degli anni ’60.
Biondo e sculettante, si aggirava in Piazza Umberto invitando noi ragazzi (non
eravamo che monelli di una dozzina d’anni) a seguirlo nei vecchi portoni delle
case diroccate dalla guerra. Lo seguivamo. Nanni scendeva le scale che
portavano ai rifugi della II Guerra Mondiale e, giunto nel luogo che riteneva
più opportuno, si calava i pantaloni. Solo allora, sghignazzando, lo deridevamo
gridandogli dietro culattone, e
scappavamo facendo le scale a quattro a quattro. Divenuti più grandi, eravamo
noi a prendere l’iniziativa. Nanni, che ormai ci conosceva bene, ci percuoteva
le orecchie con una serie di imprecazioni che avrebbe scandalizzato anche la
più vecchia maitresse della città, apprese quando accompagnava il papà al
porto, dove il pover’uomo faticava come un matto a scaricare balle pesanti
quintali. Nanni, allora, era un bel ragazzetto di 17 anni, biondo, esile, dai
lineamenti delicati, con due occhioni
azzurri che ispiravano tenerezza.
La
scoperta del sesso dovette essere necessariamente traumatica se fu uno
scaricatore del porto, Brutus (così detto per la terribile somiglianza con il
rivale di Bracciodiferro) a violentarlo nella cambusa di una nave militare
americana sotto gli occhi divertiti di quattro marines ubriachi.
La
storia che circola per la nostra città non si limita a queste poche, squallide
notizie, ma, man mano, si è arricchita di varie altre sfumature. Si narra,
infatti, che Nanni piangesse per molti giorni e che non avesse rivelato ad
alcuno i motivi della sua disperazione. Solamente la madre, Elvira, riuscì a
vincere la reticenza del figlio con la promessa di un giro sulla ruota
panoramica del Luna park. Il padre no.
Era morto qualche mese prima, la sera del 2 dicembre del 1943, nelle acque del
lungomare di Bari, col ventre squarciato dal frammento di una bomba tedesca
lanciata da un bombardiere Ju-88. Il suo
corpo galleggiò in prossimità della riva per tutta la notte, prima che due volontari
lo riportassero a terra ormai dissanguato e coperto dalle terribili vesciche
dell’iprite, un gas letale di cui era imbottita la stiva della nave americana
John Harvey. Quella notte persero la
vita più di mille persone, di cui circa trecento civili baresi. Quel tragico
episodio di guerra oggi è ricordato come la seconda Pearl Harbor, in cui le
forze alleate di stanza a Bari persero 17 navi e 700 di soldati. Fu il più
grave fatto di guerra chimica verificatosi nel secondo conflitto mondiale.
Elvira,
armata di coltello, si recò al porto.
Brutus
era lì, a ridere della sua prodezza, quando sentì la punta dell’arma pungergli
il collo all’altezza della giugulare. La donna non cercava stupide parole di
scusa: esigeva che Brutus riparasse in via definitiva al suo errore esaudendo
la richiesta del figlio. Il manovale accettò pur di aver salva la vita. Fu così
che Nanni si trasferì da Brutus con cui convisse per circa vent’anni.
Beh,
cazzo, ditemi se non era logico che non mi andasse di essere chiamato Nanni!
Riprendendo
un gioco che facevamo da bambini, gli risposi: Oreste, amico di Gargiulo, se lo
prende sempre in …
Rise:
-Va bene, dimmi cosa vuoi.
Gli
raccontai in breve del titolo di laurea di Minchiuzzi, della facoltà e della
valutazione.
Rise
ancora: Ma mi vuoi prendere per il culo?
-No, è
vero… c’è tanto di timbro e firma del rettore dell’Università.
La pausa
che seguì era il segno che Oreste stava mandando il fumo al cielo.
-Hai
detto Minchiuzzi … e il nome?
-Egidio.
-Quando
è nato?
-Non lo
so, ma posso informarmi…
-Non fa
nulla, ci penso io. Dammi un po’ di tempo.
-Quanto
tempo!?
-Beh, il
tempo di finire il caffè e tornare in ufficio.
-Ho
capito, ti telefono tra un paio d’ore.
-Non
dire stronzate, ti chiamo io tra un’ora circa.
-D’accordo.
-Ciao.
-Ciao.
Come
immaginavo, mi telefonò dopo due ore. Il brusio che proveniva dalla cornetta
con voci sovrapposte, risate soffocate e chiacchiericcio di tazzine che si
baciavano con cucchiaini metallici mi impediva di distinguere chi fosse il mio
interlocutore, poi, finalmente, la voce di Oreste divenne riconoscibile:
- Hello,
Nan … Nik?
-Si,
dimmi!- e schiacciai una zanzara che si era
posata sul mio braccio scoperto, decisa a trasfondersi il mio sangue.
-
Allora, non è laureato in Scienze Apolitiche. Quel diploma di laurea è stato
annullato quaranta anni fa per un errore macroscopico della stamperia. Il tuo Minchiuzzi è laureato
dal 1971 in Scienze Chimiche con 90 su 110. Il diploma originale non è
stato mai ritirato, giace ancora negli archivi dell’Università. Ha solo
ritirato alcuni certificati di laurea agli inizi degli anni ’80. Non farne
parola con altri, però…è segreto d’ufficio. Se si viene a sapere che ti ho
informato mi fai passare dei guai per la privacy.
-Sta’
tranquillo, sarò muto come uno che ha tutto un bigné in bocca.
-D’accordo,
ti basta?
Mi
grattai la testa: Sì, grazie.
-Grazie
un corno, mi devi un favore! Uno di questi giorni verrò da te a scroccarti un
paio di quei gelati di caffè che fai con quella macchina meravigliosa. Anzi,
penso che verrò a prendermi la macchina.
-
Stronzo, è il manico che conta!
II suono
gutturale che emette quando distorce le
labbra e digrigna i denti mi indicò che aveva sorriso.
Minchiuzzi
è il re dei chiavici. Ancora una volta
s’era preso gioco di noi. Pensai di ripagarlo della stessa moneta.
A scuola
chiarii solo che Egidio s’era divertito alle nostre spalle e che la sua laurea,
quella vera, in Scienze Chimiche, così come mi aveva assicurato Oreste,
consentiva, non si sa per quale arcano motivo, anche l’insegnamento in
Genetica.
Un mese
dopo, quando Minchiuzzi s’era vantato
anche con il guardiano del palazzetto dello Sport , gli operatori ecologici
addetti alla raccolta del differenziato e con Rosina, la cagnetta meticcia,
mascotte dell’Istituto, di averci gabbati tutti, d’accordo col dirigente
amministrativo, escogitai la rappresaglia. Varcai, così, il 20 ottobre, la soglia del nostro istituto fingendo una
grande preoccupazione. Egidio era già al bar, in compagnia della solita combriccola
con cui consumiamo la colazione mattutina.
-Un
caffè maculato e un cornetto- dissi con aria affranta.
Gianni Saverio,
mio alter ego, smorzò il sorriso che gli aleggia sulle labbra ogni volta che mi
viene incontro.
-Cosa
t’è successo? Mi chiese preoccupato.
- Un’ira
di Dio, ecco cosa mi è successo!
-Sarebbe?
-Sarebbe
che forse mi sbatteranno fuori della scuola senza pagarmi un cavolo, anzi
rifondendo l’Amministrazione.
-Comeee?-
chiesero il preside e Minchiuzzi.
- Si,
pare che per i laureati del 1970 al ‘73 sia sorta un’inchiesta sulla validità
del titolo di studio… altro che la stronzata della laurea in Scienze
Apolitiche- dissi guardando in cagnesco il genetico.
-Come
sarebbe?- intervenne il preside restando con la tazzina del caffè a mezz’aria.
- Sapete
certamente dello scandalo che è sorto per l’ammissione alla facoltà di
medicina…
-E che
centra?- m’interruppe Porfido.
-Mi
lasci finire, preside. Come dicevo, i test d’ammissione alla facoltà erano
contraffatti per la collusione di alcuni docenti universitari con studenti e
personale ausiliario. L’inchiesta, per un Gip arrivista e che non sa farsi i
cavoli suoi, si è allargata a macchia d’olio. Le indagini hanno coinvolto tutte
le facoltà, andando a ritroso nel tempo, sino agli anni ’60. E’ venuta così
alla luce tutta una serie di illegalità compiute negli anni ’70 riguardo i
titoli di laurea rilasciati in varie facoltà.
Minchiuzzzi
cominciò a agitarsi: Anche la mia?
-Penso
di sì, ma come per tante altre. L’indagine ha abbracciato, come ho detto, tutte
le facoltà, limitatamente, però, ai primi anni ’70.
-Dici
anche i laureati del ’71?
-Caavolo!
Se l’arco di tempo è dal ’70 al ’73, cavolo se c’entra il ’71. E’ il mio anno
di laurea!
-Anche
il mio!
-Egidio,
scusa, ma che mi frega! Io sto pensando al mio!
-Dai che
è una cazzata, ti vuoi vendicare dello scherzo del mese scorso…
-Tu devi
essere matto… vedi se ho voglia di scherzare su un argomento del genere!
-E per…
perché tutto que… questo?-balbettò il genetico.
-Ma, che
forse hai la coscienza sporca?- intervenne Gianni che aveva cominciato a
capire.
Il
dirigente amministrativo entrò nel bar e si avvicinò al preside con un foglio
protocollato fra le mani. Si appartò in un angolo con Valà e confabulò con lui
sottovoce guardando di tanto in tanto il buon Minchiuzzi.
Minchiuzzi
era sulle spine.
Perché
mi guardate, cosa è scritto su quel documento?.
Il
preside assunse un’aria grave: Professor Minchiuzzi, venga con me in
presidenza.
-Ma cosa
succede?-implorò Egidio.
-Stia
tranquillo, mi segua in presidenza- confermò Porfido con voce ferma.
Minchiuzzi
si appoggiò al bancone: E lui no?- piagnucolò
indicando me.
-Lui?
No, perché dovrebbe?
-Ma ci
siamo laureati tutti due nel ’71-rantolò Minchiuzzi che era ormai al colmo
della disperazione.
-Ebbene?
-Ma
anche lui potrebbe aver brigato…
Il
preside lo interruppe: brigato per cosa? Minchiuzzi cosa mi nasconde?- si
accigliò Porfido.
-Veramente…
una raccomandazione…
-Stia
zitto- lo interrupe ancora una volta Valà- le questioni private le discutiamo
in separata sede!
Minchiuzzi
seguì Porfido a testa bassa in presidenza. Porfido chiuse la porta e ordinò
all’ausiliare di servizio di non disturbarlo.
Rimasti
soli, Gianni sbottò in una risata e mi disse che mi aveva sgamato.
Portammo
via di peso l’ausiliario di guardia alla porta di Porfido e origliammo.
Minchiuzzi
balbettava, pregava, si difendeva, incolpava, imprecava. Ad un certo punto
lo sentimmo invocare Allah. Venne fuori
come un ossesso: brandiva il fermacarte di bronzo di Porfido. Intuii le sue
intenzioni e mi detti alla fuga. Quel minchione di Porfido non gliela aveva
fatta a portare a termine lo scherzo, nonostante il dirigente amministrativo
gli avesse chiesto di tenere il prof di genetica sulla corda sino al giorno
successivo.
Egidio
non mi parlò per una settimana, ma quando gli proposi, tenendomi a debita
distanza, di riappacificarci davanti ad una buona cena nel miglior ristorante
della città, si acquetò.
Con
Gianni e Porfido lo prelevai da casa sua la sera successiva e ci recammo al
Sorso Preferito, gestito da un mio ex alunno. La cena fu a base di antipasto ai
frutti di mare, linguine alle vongole,
aragosta al vapore, frittura mista,vini di alta qualità, frutta di
stagione, dolce, sorbetto, caffè e ammazzacaffè. Sazi, Porfido, Gianni ed io ci
allontanammo per fumare una sigaretta. Egidio preferì attenderci nell’interno
del locale dove un cantante di strada aveva appena intonato “O sole mio”. Sul
momento ci venne di giocargli un altro tiro mancino. Ce ne andammo. Il giorno
dopo, stranamente non incazzato, ci disse che aveva scucito 300€ più una lauta
mancia ai camerieri. Minchiuzzi è fatto così… per questo è mio amico.
Opunzia
Quercioli
Opunzia Quercioli è da alcuni mesi la nuova bidella del
primo piano.
Quando l’organico del personale Ata l’annoverò tra i
dipendenti del Benpensante, tutti, a cominciare dalla portinaia per finire alla
guardia giurata preposta all’apertura e chiusura dell’Istituto, ci chiedemmo
quando ricorresse santa Opunzia e che cacchio di nome fosse. Era la prima
volta, infatti, che un tal sostantivo arricchiva il nostro vocabolario
onomastico. Lo stesso dirigente amministrativo, responsabile del personale
ausiliario, fu preso da forte curiosità di conoscere fisicamente la nuova
collaboratrice. Un giorno, uno di quelli che seguirono tra la nomina e la presa
di servizio, vinti dalla curiosità digitammo in Internet il nome misterioso:
Opunzia. Voi sapete bene che questo potente network sa tutto e ciò che non sa
lo inventa, lo conia, lo interpreta. Ebbene, manco quella volta ci deluse, anzi
ci chiarì che l’opunzia è un fico d’india, un cactus. Ciò accrebbe la nostra
curiosità.
Gianni Saverio, uomo con acuto spirito critico, elaborò
la teoria secondo la quale una femmina dotata di tal nome dovesse
necessariamente avere una personalità complessa e mutevole… pungente, oserei
dire.
L’azzeccò.
Eravamo, ai primi di ottobre, tutti al Bar a sorbire un
espressino freddo. Per carità, non il tradizionale, ma quello che ci propina
Leonzio, il gobbo di Notre Dame, con
il caffè avanzato il giorno prima, allungato con del latte fresco
prossimo a divenire ricotta. Con destrezza, dandoci l’idea di aver compiuto
un’opera d’arte, ce lo serve, sono anni ormai, freddo per la lentezza con cui
entra in pressione la macchina espressa.
Tra i vari conati di vomito, dolori di pancia e urgenze
corporali, vedemmo avanzare nell’atrio dell’Istituto un volto nuovo, un collo
nuovo e via di seguito sino ai piedi. Insomma un tutto nuovo. La lunga chioma
rossa spiccava sulle mille efelidi che coprivano il volto della donna che aveva
varcato la soglia della nostra fabbrica di disoccupati. Il sorriso d’occasione
mostrava una dentatura accavallata, bisognosa urgentemente almeno di un byte,
se non di una protesi fissa. Gli occhi erano di un colore tra il verde bandiera
e il magenta, a seconda dell’esposizione alla luce solare. Il seno prominente,
poggiato su un busto di ridotte dimensioni, la faceva da padrone sul pur ampio
bacino vacillante su due gambe leggermente arcuate ed esili.
-Opunzia!- dicemmo all’unisono Gianni e io.
Porfido, che stava lottando con la tazza dell’espressino
e la sua trachea che non aveva alcuna voglia di farsi bagnare da
quell’intruglio, ingollò tutto d’un fiato il liquido repellente per adocchiare
il nuovo arrivo.
L’accesso di tosse che seguì fu indice che la bevanda gli
aveva intasato le vie respiratorie. Al preside, infatti, si gonfiarono le vene
del collo e gli occhi strabuzzarono. Mentre il volto assumeva il colore della
bandiera cinese, la bocca sputò il liquido marroncino sulla sahariana di
Minchiuzzi, che imprecò contro tutti gli dei delle varie religioni occidentali
e orientali, e sul banco di mescita che fu immediatamente ripulito dal buon
Leonzio con una strisciata di mano.
Opunzia la rossa e Porfido si guardarono. Tra un colpo di
tosse e l’altro, il preside fece cenno alla neoassunta di avvicinarsi. Opunzia
gli andò incontro. Con voce arrochita Valà le chiese se fosse proprio lei la
Quercioli che attendevamo. Opunzia
scrollò sensualmente la capigliatura con un’audace rotazione del capo e
rispose di sì. Porfido aprì le braccia sconsolato e Opunzia gli si abbarbicò al
collo; non contenta, stampò due bacioni sulle gote del nostro preside che
rimase senza parole. L’equivoco non è stato mai chiarito. Opunzia è certa,
infatti, che il nostro dux nutra per lei un sentimento molto più hard
della simpatia. Come dicevo, sicura
della benevolenza del capo, Opunzia spalancò la porta della segreteria e…
rimase esterrefatta.
La nostra segreteria, per chi non la conosce, è una
bolgia infernale. In uno spazio di quaranta metri quadri raccoglie una ventina
di addetti con le rispettive scrivanie, computer e stampanti. Il ticchettio
sulle tastiere è continuo e uniforme. L’odore del duro lavoro si diffonde
ovunque, sin sulle vetrate appannate dalla condensa creata dai condizionatori
mal funzionanti. Le stampanti, una trentina circa, vomitano in continuazione
fogli impressi col nero inchiostro dei toner che vanno autonomamente a
depositarsi in appositi contenitori poco più larghi del formato A4 e profondi
circa trenta cm. Non appena un contenitore si riempie viene immediatamente
sigillato, portato in archivio e sostituito da uno nuovo che occupa il posto
del precedente. Non uno di noi, sino a qualche tempo fa, sapeva cosa cacchio
fosse scritto su quella montagna di fogli che Porfido, nuova Penelope, di
notte, distrugge. Le illazioni erano varie: chi pensava che si trattasse di
relazioni sull’operato di ciascuno dei duecento docenti; chi, invece,
fantasticava, ottimisticamente, su progetti POR, PON e Pon pon, finanziati
dalla Provincia a beneficio dei magri stipendi di tutto il comparto scuola, in
attesa di approvazione ministeriale; altri, al contrario,pensavano al
riciclaggio di “fogli sporchi” organizzato dalla mafia per alimentare le
discariche abusive. Insomma, per farla breve, non appena ci fu possibile
introducemmo una talpa in segreteria. Onofrio, il bidello più anziano, prossimo
alla pensione, per difficoltà deambulatorie venne distaccato nella stanza dei
bottoni. Lo coinvolgemmo con la promessa di cinque euro al giorno esentasse a
patto che ci procurasse uno dei contenitori sigillati. Onofrio non è fesso:
sapeva benissimo che non appena a conoscenza dei segreti segreteriali non
avremmo più scucito manco un cent, per cui fece durare la sua indagine sino al
giorno prima della sua dismissione. L’ultimo giorno, infatti, ci consegnò nel
massimo segreto l’involucro che attendevamo con ansia. Quando, a casa mia, di
notte, con le finestre oscurate, togliemmo i sigilli allo scatolone, tutti
prorompemmo in un ooohh di sorpresa. I fogli erano stampati in alfabeti vari,
dal nostro al cirillico, all’arabo, all’etrusco e al maya, come ci confermò
Stanislao, esperto in epigrafia classica, che da noi svolge il compito di
tecnico di laboratorio. Sulla base delle sue conoscenze, ci comunicò che si
trattava di carta straccia, perché ciò che vi era scritto non aveva alcun
significato in alcun linguaggio tradizionale. Noi, sospettosi, pensammo invece
si trattasse di un codice segreto concordato con la CIA o con l’FBI e
ingaggiammo un haker professionista per
la risoluzione dell’enigma. L’haker dopo una settimana di lavoro ci mandò
affanculo avvertendoci che eravamo stati presi per il culo in quanto manco i
codici dei missili intercontinentali riportavano tante stronzate quante ce
n’erano in quei fogli che gli avevamo consegnato. Insomma, a farla breve:
scucimmo un mare di soldi per renderci conto che quello non era altro che un
lavoro di facciata, teso a gabbare il nuovo ministro della Funzione Pubblica,
la famigerata Nanà Moretta, la fustigatrice dei costumi degli operatori del
Pubblico Impiego.
Per tornare alla nostra storia, dicevo dello stupore di
Opunzia, subito contenuto dall’affabilità con cui l’accolse il dirigente
amministrativo. Si spiegarono, così, alla nuova addetta, quali sarebbero stati
i suoi compiti: badare a che, durante l’assenza dei docenti, gli alunni non si
scannassero, non andassero in cento nei cessi, non si spinellassero e non si
violentassero scambievolmente, ecc.
Opunzia faceva di sì col capo a ciascuna delle
indicazioni che le venivano date, tanto da accusare un lieve giramento nello
stesso istante in cui Porfido si affacciava in segreteria. Il preside le fu da
involontario appiglio. Ciò scatenò la furia dei sensi nella povera bidella che
avvampò tingendosi ancor più di rosso di quanto l’avesse dotata madre natura.
Porfido, ad evitare ulteriori effusioni, la consegnò alle attenzioni di
Maipago, il nostro eterno vicepreside.
L’impatto con le classi non fu dei migliori. Opunzia,
infatti, aveva immaginato che il suo compito sarebbe stato solo di sedere nei
corridoi con un libro da leggere o con dei gomitoli di lana da sferruzzare per
confezionare la biancheria intima di suo marito. Quando, invece, si trovò a
fronteggiare masse di ragazzi urlanti, felici di essere stati abbandonati dai
docenti impegnati nella doverosa colazione al bar e nella fumatina d’intervallo
fra le dure fatiche dell’insegnamento, beh, allora crollò.
Le sue grida dapprima d’aiuto, poi di rimprovero ai
signori docenti che si allontanavano dalle classi adducendo motivi banali o,
addirittura, fregandosene di interrompere il servizio pubblico, le sue grida,
dicevo, divennero urla disperate quando, in una simulazione di evacuazione, gli
alunni la scipparono di un lavoro a maglia che stava confezionando
nascostamente per Valà.
Girava per i corridoi dell’Istituto un ispettore della
P.I., la nostra guida spirituale diremmo. Infatti è il più grande scassa
coglioni demandato a eccitare il nostro spirito ribelle; si presenta un giorno
sì e l’altro pure, con la scusa di chiarire alcune circolari ministeriali, a
pietire presso il preside un corso di aggiornamento da tenere a noi docenti.
Porfido di solito lo ascolta con i gomiti poggiati
sull’ampia scrivania e le mani tra i capelli. Sa bene che fine fanno i corsi
tenuti dall’ispettore. Si tratta, quasi sempre, di vecchi giochi di società (di
gran moda presso i ragazzini meno dotati della prima media), abilitati, secondo
l’esimio, a favorire la socializzazione e a scoprire la personalità e il Q. I.
di ciascun docente. Secondo la nostra guida, su u un taccuino spesato dallo
Stato si dovrebbero riportare nomi di fiori, di città, di animali comincianti
tutti con un’unica consonante o vocale. L’ultima volta che siamo stati
sottoposti a questo supplizio il punteggio finale, come al solito, non ha reso
giustizia: i proff con i neuroni più disastrati sono risultati primi. Il corso, comunque, nella maggior parte dei
casi non giunge al termine perché ad un certo momento molti di noi lo disertano
dichiarandosi vittime di un’epidemia malarica. La disperazione dell’ispettore
per l’interruzione del suo prodigioso parto intellettuale dura comunque molto
poco, perché viene subito temperata dall’assegno relativo al suo impegno.
Come dicevo, girava per i corridoi dell’istituto, la nostra guida, in cerca di
Porfido che, per non essere costretto a subire la sua presenza, si era nascosto
nel bagno personale. L’ispettore, alle grida d’aiuto di Opunzia, saltò come un
verricello improvvisamente libero dal carico e, di corsa, raggiunse la bidella.
La Quercioli smaniava: Le mutande, mi hanno rubato le
mutande! ridatemele, brutti figli di pu…
L’ispettore non si scompose; raggiunse Opunzia e con fare
indagatorio le chiese se ricordasse la scolaresca che aveva operato
l’ignominioso scippo.
-Ero lì, seduta alla mia sedia, quando sono stata
travolta dalla 5C . Sono caduta per
terra e me le sono sentite proprio strappare dalle mani.
L’ispettore, che per essere una guida si chiama Virgilio,
avvertì un certo imbarazzo, poi chiese: Ma lei, signora, le mutande le aveva in
mano?
-Certo- rispose Opunzia- e dove voleva che le tenessi?
-Bah, di solito…
-Ma che di solito… in mano le avevo! Sa- aggiunse tra
l’arrabbiato e il confidenziale- il preside vorrebbe…
In effetti, qualche giorno prima il preside, circolando
tra le classi, aveva notato che Opunzia sferruzzava. Incuriosito, le aveva
chiesto cosa stesse confezionando.
-Biancheria invernale per mio marito- aveva risposto
timorosa la bidella.
Porfido, che si vanta per sua affabilità, rispose, a mo’
di cortesia, che sarebbe piaciuto anche a lui avere dei capi personalizzati.
Opunzia aveva fatto tesoro dell’informazione.
-Non aggiunga altro- la interruppe burbero l’ispettore- i
fatti personali non m’interessano! Mi meraviglio del preside, piuttosto!
- Perché- s’intimidì Opunzia- non potevo dare al signor
preside le mie mutande?
- Mi faccia il piacere- disse l’ispettore con piglio
severo- non sia scurrile e stia al suo posto!
Opunzia era lì lì per piangere.
- Ma che ho fatto di male? le mie mutande sono fatte con
lana pregiata… le do persino a mio
genero, a mio nipote e nessuno si lamenta. Le vuole anche lei?- propose nel
tentativo di farselo amico.
-Mai! E stia lontana da me! Penso che i ragazzi abbiano
fatto bene a togliergliele!
Detto questo, l’ispettore le volse le spalle e andò via.
L’episodio del furto delle mutande, di per se stesso
faceto, chiarì al dirigente amministrativo che la Quercioli non era adatta a
sorvegliare le classi, per cui decise di affidarle la cura delle piante.
Dovete sapere che il nostro istituto potrebbe essere una
serra: il sole vi penetra da tutte le parti, anche nelle mura, come i topi
della ben nota biblioteca. Il guaio è che le vetrate, invece che filtrare i
raggi solari, li riflettono e li riscaldano ancor più, rendendo le piante
disseminate nel giardino fusti senza vita, bruciacchiati e cadenti. La scelta
di Opunzia si rivelò una mossa geniale. Opunzia non ha solo il pollice verde,
ma anche tutte due le mani e le braccia e chissà cos’altro. Nel giro di poco
tempo le nostre piante rinacquero, si organizzarono in piccole società,
socializzarono fra razze diverse, rubarono territorio agli alberi da frutta, si
svilupparono come una mini foresta che si popolò di animali. Ciò avvenne quando
un circo, famoso per il suo bestiario, transitò per la nostra città, passando
nei pressi del Benpensante. Le prime a rendersi conto di aver ritrovato la loro
Africa furono le scimmie: sgaiattolarono dalle gabbie per rifugiarsi sugli alti
fusti di Ficus beniaminus che un ex alunno vivaista aveva donato alla nostra
sede quando erano teneri arboscelli alti pochi cm. La ricchezza di fronde
rendeva così fitta la nostra foresta che noi, pur avvertendo la presenza delle
bestie, non eravamo mai riusciti a vederne una. La crisi scoppiò il mese
successivo, quando un altro circo denunciò la scomparsa di un piccolo elefante.
Le ricerche coinvolsero tutto il territorio cittadino. Anche il nostro istituto
fu oggetto di indagine. I forestali, armati di machete, dovettero distruggere
buona parte della nostra foresta per recuperare il pachiderma nascosto in un
angolo del giardino su cui si affaccia l’auditorium. Purtroppo ciò segnò la
fine della savana e l’inizio del deserto. Le piante furono smantellate,
abbattute e bruciate. Le dune ora hanno preso il posto della foresta e Opunzia
ne è divenuta la signora. È lei il nostro fiore del deserto.
Chi ha ucciso Fico Beniamino?
Il primo ad accorgersene fu Mimmo, il factotum, uomo
zelante, volenteroso, sempre pronto ad accorrere in aiuto.
Mi dissero che era
rimasto sconvolto.
Mi dissero che aveva pianto e asciugato le lacrime con
una foglia presa da terra, da quella
stessa terra che poi chiama a sé tutti gli esseri viventi.
Mi dissero che aveva allertato con solerzia le alte
sfere, i dirigenti, che accorsero trafelati al capezzale di Fico Beniamino. Mi
dissero, anche, che la commozione si tagliava a fette e che i lamenti erano
così alti a invocare vendetta, tremenda vendetta.
Perché è morto Fico Beniamino? E’ stato il fato, il
destino o, come tutti pensiamo, vi è una regia nera che agisce nascosta e che
ne ha deciso la fine?
Chi ha ucciso Fico Beniamino?
E’ un dilemma ancor oggi irrisolto, ma le indagini
proseguono e pare stiano per svelare il malfattore. Gli assassini sappiano, i nodi verranno al pettine e presto
cadranno nelle mani della giustizia
L’altro giorno s’è tenuto consulto. Due necrofori hanno
confabulato tra loro, si sono seduti a tavolino e hanno deciso per un’autopsia
assistita. Le indagini saranno
capillari, partiranno dalle radici. Ciò
che sfugge all’uno non sfuggirà all’altro.
Fico Beniamino, è certo, è stato assassinato.
Probabilmente con del veleno. Da chi? Questo spetterà al tenente Colombo di
turno scoprirlo.
Ora tutti siamo contriti; ciascuno pensa di avere qualche
responsabilità nella sua fine. E’ vero, avremmo potuto salvarlo, avremmo potuto
curarlo, coccolarlo, parlargli, magari fargli ascoltare della buona musica per
tirargli su il morale.
Era da un po’ di tempo che lo vedevamo intristire,
assumere quel colorito giallastro che indica inequivocabilmente uno stato di
salute malferma.
Ma chi poteva pensare che sarebbe andato incontro a una
così tragica fine!... Ricordo quando giunse da noi. Lo guardammo tutti con
ammirazione. Alto, snello, verde per i giovani anni. I suoi tutori ci dissero:
trattatelo bene, è giovane, deve crescere ancora!
Una collega di
bell’aspetto lo guardò ammirata e la sentimmo esclamare: Va là, guarda che
fusto! Quando si accorse che il suo commento non ci era sfuggito, arrossì, ma
ripeté: perché volete dire che non è un
bel fusto? Il nostro silenzio significò più di mille parole.
Fu così che lo accettammo, che divenne importante. Gli
stessi dirigenti, incontrandolo, gli sorridevano compiaciuti.
Col tempo, però, subentrò l’abitudine.
Come dicevo, le indagini proseguono e non si fermeranno
finché il responsabile o i responsabili non cadranno nelle mani della
giustizia.
Ma noi come faremo, come sopravvivremo senza Fico
Beniamino?
Si avverte nell’aria la sua mancanza, l’ondeggiare della
sua folta capigliatura, il suo fruscio gioioso allorquando incrociava qualcuno
di noi.
Non che fosse benvisto da tutti; molti, infatti, lo
strattonavano, approfittavano della sua inerzia per beffeggiarlo, tirarlo, a
volte, addirittura sino a farlo cadere per terra, sicuri che mai avrebbe
reagito.
Sono sempre i migliori che se ne vanno!
Oggi, poi, sono arrivate le forze dell’ordine per
ascoltare, spiare i nostri volti, riconoscere lo sguardo perverso, gli occhi
malandrini, loro che sono avvezzi a individuare, così, a naso, i colpevoli dei
più gravi misfatti.
Scusatemi, sento Opunzia, gridare, ora la vedo correre
strappandosi i capelli per i corridoi inondati di luce. Un carabiniere la
raggiunge, Opunzia si lascia cadere scomposta per terra, il carabiniere la
solleva per le spalle,la tiene ferma.
Opunzia si dispera
e grida: non sono stata io, cercate Lorenzo… è lui il colpevole!
Lorenzo è in sala informatica, al computer osserva
l’andamento delle sue azioni in borsa, quando il maresciallo gli mette le
manette e gli ricorda, come nei film americani, i suoi diritti.
Lorenzo non reagisce e confessa: dovevo farlo, non ne
potevo più, le sue foglie cadevano non appena finivo di ramazzare… Era un
lavoro senza fine!
La
circolare ministeriale
Eppure la circolare specificava nell’oggetto: Organizzazione dell’orientamento
Cazzo, pensai, proprio me doveva chiamare il preside, io
o me che non mi oriento manco con la bussola!
Piegai il foglio in quattro e lo misi in saccoccia. Lo
avrei letto a casa, con calma.
Non ho familiarità genetica con gli elefanti e quando
cambiai giubbotto dimenticai il vademecum.
Saverio mi telefonò alle 16 e 35
Minchia fai ancora a casa? Qui c’è la riunione, corri!
Quale Saverio- mi dissi chiudendo il cellulare- Del Ciole
o Del Cozo l’Africano? Optai per l’ultimo, tanto è sempre la stessa
persona. Comunque fu la minchia a farmi
decidere.
Cavolo, vengo subito, ma non mi sono organizzato!
Ma dai, non ci pensare, vieni che stiamo per cominciare!
E che mi frega- pensai- cominciassero pure ma io senza
organizzazione col cavolo che mi presento!
Mi battei una mano sulla fronte: l’ipercoop!
Proprio quella
mattina avevo trovato nella buca della posta, dove avevo scritto che non
accettavo pubblicità, la pubblicità di un Tom Tom a sottocosto.
Cazzo, li avrei fregati tutti!
Arrivai che non c’era un cazzo di posto. Mi guardai attorno:
niente vampiri. Parcheggiai sulle strisce.
Manco il tempo di chiudere la macchina che un fischio mi trapanò i timpani.
Ecco gli stronzi, erano coperti dagli alberi! Mi vennero
incontro con il taccuino delle multe ridotto agli ultimi fogli. Portarono la
mano alla visiera e mi chiesero i documenti. Lessero il mio nome e quello
scritto sulle strisce pedonali e dettero di gomito.
Cacchio, avevo coperto con la ruota anteriore
sinistra proprio la N. Si leggeva per
terra “atale sei grande”, con tanto di punto esclamativo.
Loro, gli sbirri, invece, giuravano che c’era scritto
anale.
Mostrai la patente e la tessera sanitaria col codice
fiscale: cercavano Lattanzi Anale e non lo trovarono.
Sui documenti c’è scritto Natale, ma loro mi chiesero se
natale e anale fosse uguale. Io dissi di no. E che cazzo, non si capisce che
una cosa è il Natale e ben altro è l’anale?
Chiarirono che l’avevano chiesto agli altri dell’Istituto
ma che tutti avevano detto che il Natale non era ancora arrivato.
Cavolo, siamo a novembre, bella scoperta!
Capii che mi cercavano non per il parcheggio, ma per la
scritta che, per loro, solo un imbranato come me poteva aver vergato proprio
sulle strisce.
Io feci l’offeso e chiarii che non avevo bombolette spray
e che se proprio avevo bisogno di gas me lo produceva a gratis la mia colite spastica.
Poi dissi che ero un docente, ma loro mi risposero che
l’avevano capito dal mio ventre gonfio come quello dei bambini del Biafra.
Mi asciarono andare e mi dettero 1 Euro ciascuno.
Che culo, ragazzi!
Del Cozo l’africano e Cazk il polacco avevano occupato
con borse e piumini un posto per me. Quando mi ci sedetti sembravo un regista
tanto era alta la poltroncina.
Il preside mi sorrise sornione: hai la febbre di
crescenza?
Sottrassi velocemente dal mio posteriore gli appannaggi
degli amici e il panino ai Wurstel che
Cazk aveva portato per merenda e sollevai fiero il mio Tom Tom bello,
bellissimo nel suo cartone colorato da una terra celeste e un infinito nero.
Dissi: Ce l’ho!
Tutti gli sguardi si spostarono su di me e il Tom Tom
fece il giro dell’assemblea con commenti ammirati.
E’ mio- gridai orgoglioso- l’ho comprato!
Il preside mi guardò, sospirò e mugugnò: mi fa piacere.
Ma come, non gioiva con me? E io che come lo stronzo mi
ero fatto gonfiare la milza nella corsa all’ipermercato per arrivare preparato!
Come dicevo- riprese il preside- siamo giunti alla
presentazione delle cartoline.
Cazzo come erano belle! anche loro celeste e nero come il
mio Tom Tom.
Eh- dissi a Cazk- vedi che ho avuto buon fiuto?
Il preside, frattanto continuava: più ne daremo più ricco
sarà il nostro premio.
Io alzai la mano e chiesi quando si dovesse tenere
l’estrazione.
All’Epifania! Mi rispose incazzato il dirigente.
Ma perché s’incazzava, non era legittima la mia domanda?
Anche Cazk e Del Cozo ci rimasero male.
Il preside chiarì: le cartoline sono per gli studenti.
E qui scoppiò la bagarre.
Tutti insieme ci alzammo e sottolineammo l’ingiustizia.
Cazzo, anche noi, una volta tanto avremmo dovuto avere il
diritto di competere per l’assegnazione dei premi!
Il preside inaspettatamente ci dimostrò che non solo
Dante aveva studiato al trivio e ci mandò affanculo in gruppo.
Niente più orientamento!
E ci sta bene!- dicemmo in coro
Capimmo che i premi erano già assegnati, sì a lui e alla
sua famiglia.
E va be’ che lui ha il coltello dalla parte del manico,
ma che debba fare la parte del leone, cazzo,no!
Il
corso di recupero
Invenzione della Sinistra, consolidata dalla Destra, sono
i giudizi di sospensione con cui, in pratica, si rimandano gli alunni,
condannandoli a uno studio inutile e frettoloso durante il mese di luglio.
A noi (non è il saluto fascista), dico a noi docenti, ce
ne potrebbe fregar di meno se non fossimo rimandati insieme ai nostri discenti.
E sì! Chi, in fondo ne fa le spese, oltre a uno Stato
spendaccione, sono i professori, obbligati, dopo gli esami di maturità, a
impartire, con moduli di appena quindici ore, lezioni suppletive agli sfaticati
che hanno cazzeggiato per un anno intero.
Ciò che più colpisce, dopo oltre un quinquennio di
promozioni facili e gratuite, è la marea di alunni con giudizio di sospensione.
E’ la crisi che si fa sentire! E’ la crisi che spinge i
proff, costretti a restare in sede nel mese di luglio, a rimandare, confortati,
se così si può dire, da un surplus di 750 € lordi da intascare non appena i
dirigenti amministrativi (parole pompose che stanno ad indicare gli antichi
segretari scolastici)mettono mano ai portafogli dello Stato per retribuire
questa sottospecie di lavoro straordinario.
Mi spiego.
Un giorno di maggio che dirvi non so (ricordate la
canzone Papaveri e papere?) il dirigente scolastico (come per il dirigente
amministrativo), il preside, via, convocò il Collegio dei Docenti per discutere
una circolare ministeriale che intimava
di indire corsi di recupero non appena terminati gli scrutini finali.
Il mio preside, voi lo conoscete, apolitico di sinistra
con forte tendenza a destra nonostante
dichiari che in medio stat virtus, il
mio preside, dicevo, nel chiuso del suo antro, leggendo la nota ministeriale,
avvertì nell’intimo un rigurgito di orgoglio, una specie d’investitura che,
come per i cavalieri templari, gli conferiva il diritto di riparare ai torti di
cui la classe docente si era resa colpevole nei suoi confronti.
-Giovanni – urlò - vieni immediatamente a
battere la circolare per i docenti e, mi raccomando, portami il numero di
protocollo!
Giovanni, lo schiavo, come dice sottovoce il preside, è un omone di oltre
cinqant’anni, alto un metro e novanta, castano nei capelli, flemmatico più di
un inglese. Ha occhi nocciola dolcissimi e uno sguardo bonario, sempre
atteggiato al sorriso. Lavora nel nostro istituto da sempre ed è benvoluto da
tutti . Giovanni, dicevo, allontanò la sedia dalla scrivania, si alzò
lentamente, chiuse il computer e, a passo lento, si avviò verso la presidenza.
-Giovanni, -
riurlò il preside- più veloce!
Giovanni era dietro la porta quando gli giunse il nuovo
richiamo, ma se ne tornò indietro per farsi avere il numero di protocollo da
Melania, l’applicata di segreteria depositaria del brogliaccio.
-Giovanni!...
-E vengo, preside, questo è il mio passo! - disse il buon
Giovanni per la prima volta in tutta la sua carriera con una nota
d’insofferenza.
Porfido tacque esterrefatto. Non era possibile che anche
il suo fidato dipendente assumesse, così, ex abrupto, un tono arrogante.
Quando finalmente Giovanni varcò la porta della
presidenza, trovò un dirigente incazzato, maldisposto e pronto a fustigarlo
come facevano i negrieri nelle terre del Sud.
-Giovanni- cominciò Porfido, stringendo i denti - quando
ti chiamo devi scattare!
-Ma preside, stavo compilando la domanda di
pensionamento…
-Ah, e per questo sciocco motivo tu mi rispondi con tanto
malgarbo? Tu non vai in pensione, o meglio vai in pensione quando lo dico io!
-Ma ho già quarant’anni di servizio, sono stanco…
-Tu sarai stanco quando lo dico io, ora siediti e batti
velocemente la circolare.
-Ma io non sono veloce…
-Non cercare giustificazioni!
Giovanni si sedette di fronte a Porfido, accese il vecchio
386 in dotazione alla
presidenza e aspettò.
-Vai in Word!
-Sto andando…
-Apri il foglio…
-Che foglio?
-Ma quello di Word, porco cane!
-Se ero in Word era perché si doveva aprire il foglio…
-Non replicare, testa di cavolo!
Giovanni non replicò.
-Allora, si è aperto?
-Non ancora, preside, questo computer è lento.
-Lento, lento. Tu sei lento. Apri il foglio ti ho detto!
-Ma non dipende da me…
-E da chi?
-Ma dal computer!
-Giovanni, non alzare la voce!
-Ma, preside, lei mi dice…
-Io ti dico di fare le cose per cui sei pagato! Apri il
foglio, ti dico!
-Ecco, si è aperto.
-Hai visto che quando vuoi…
-Ma non dipendeva
da me… era il computer.
-Fregnacce! Stai assumendo un’aria reazionaria… ma io ti
distruggo!
-No, io vado in pensione.
-Poi ne parliamo, ora scrivi!
-Sono pronto.
-Il solito cappello. Ai signori docenti, alla segreteria,
ai genitori, ai rappresentanti di classe…
-Più piano, per favore, non riesco a starle dietro…
-Giovanni, più veloce, altro che più piano! Qui c’è una
circolare ministeriale che dobbiamo diffondere al più presto. Avanti, hai
scritto?
-Si! ai signori docenti, alla segreteria, ai genitori, ai
rappresentanti di classe…
-E agli alunni, hai scritto agli alunni?
-E no, non me l’aveva detto…
-Ma se ho detto il solito cappello! Giovanni, tu oggi mi
farai perdere la pazienza! Allora, agli alunni. Punto.
-Punto.
-Sulla base di quanto disposto dalla Circolare n° 6163 del 4 giugno 2008,
dal Decreto Ministeriale n°80/2007 e dall’articolo 1 comma 634 della legge 27
dicembre 2006, n°296 della finanziaria 2007,- riprese Porfido imprimendo una
marcia veloce alla sua dettatura- i signori docenti sono tenuti a impartire
lezioni modulari di 15 ore agli alunni che riporteranno, al termine dello
scrutinio finale, il giudizio di sospensione nelle discipline in cui non
avranno raggiunto la sufficienza. Leggi!
-Sulla base di quanto disposto
dalla Circolare n° 6173 del 4 giugno 2008, dal Decreto Ministeriale n°80/2007 e
dall’articolo 1 comma 634 della legge 29 dicembre 2006.
-No! 27 dicembre 2006, ….
-Mo correggo.
-Vai avanti.
-Sto aspettando.
-Cosa stai aspettando?
- Il resto del testo.
-Il resto del testo? Vuoi dire
che hai scritto solo questo?
-E si, lo sa che sono lento.
-Melania! Fatemi venire
Melania! – sbottò il preside battendo il pugno sulla scrivania- Giovanni sono
io che ti mando in pensione. Vattene, allontanati dalla mia vista prima che ti
prenda a calci!
-Ma io l’avevo detto…
-Vattene ho detto. Melaniaaa!
Il nome le deriva
probabilmente dalla melanina che le colora la pelle. Melania, infatti, è quasi nera,
diciamo color cioccolato al latte. E’ alta un metro e sessanta, ha capelli
corvini, occhi neri e denti di un nitore immacolato. I suoi trent’anni li porta
molto male: sembra una sessantenne. Ma a dispetto del fisico malandato,
possiede un’energia invidiabile, una vivacità intellettiva einsteniana, una
insaziabile voglia di conoscenza che la spinge, nei momenti di pausa, a leggere
libri tanto impegnati e macchinosi che noi docenti preferiamo driblare per non
cadere in depressione.
Giovanni era ancora in
presidenza quando Melania si affacciò.
Meticolosa e precisa: questi
erano gli aggettivi che Porfido le attribuiva, ma costituivano anche il motivo
per cui raramente ricorreva ai suoi servigi.
Porfido, infatti, temeva le
sue acute osservazioni, se non addirittura le correzioni che di volta in volta
l’impiegata apportava all’italiano utilizzato nella redazione delle
comunicazioni. Il riferirsi a Melania in quella occasione fu questione
d’emergenza. Dei sei applicati di segreteria era, con Giovanni, l’unica presente.
Gli altri, chi per malattia, chi per spese varie, chi per assistenza ai minori,
erano fuori servizio. Persino Michele, scapolo impenitente, era in permesso per
assistenza alla moglie malata.
Melania si sedette, avvicinò
la tastiera del computer e cominciò a scrivere senza che Porfido dettasse una
sola parola.
-Scusi- la interpellò Porfido-
che sta scrivendo?
-So- rispose laconica Melania.
- Che sa?
-Tutto.
-Melania batté freneticamente
sulla tastiera per cinque minuti, poi si fermò, intrecciò le dita, le fece
scricchiolare e scrisse ancora.
Porfido assisteva impotente
alla verve letteraria della sua dipendente, scosso da un leggero tremito delle
labbra. Si contenne, pensò alla moglie lontana, a Torino, la sua città natale,
al Lingotto, viatico per la celebrità letteraria, alla Juventus, a Moggi che
l’aveva ridotta quasi a squadra di provincia. Quando non seppe più a cosa
pensare si rivolse alla segretaria.
-Melania- disse con
gentilezza- mi vuol leggere cosa ha scritto?
-Subito. -Sulla base di quanto
disposto dalla Circolare n° 6163 del 4 giugno 2008,
dal Decreto Ministeriale n°80/2007 e dall’articolo 1 comma 634 della legge 27
dicembre 2006, n°296 della finanziaria 2007, i signori docenti sono tenuti a
impartire lezioni modulari di 15 ore agli alunni che riporteranno, al termine
dello scrutinio finale, il giudizio di sospensione nelle discipline in cui non
avranno raggiunto la sufficienza.
-Perfetto- si stupì Porfido-.
Ma per scrivere solo questo ha impiegato tanto tempo?
-Certamente no-fu l’immediata
risposta.
-E, mi tolga la curiosità,
cos’altro ha scritto?
-Glielo leggo immediatamente.
Bla bla bla, bla bla bla- fece Melania per ritrovare il punto e poi continuò.
Pertanto i signori docenti
sono tenuti a non chiedere le ferie nel mese di Luglio, a tenere
obbligatoriamente i corsi di recupero, a tenere aggiornato il registro delle
presenze, e quindi delle assenze, degli alunni e ad espletare continue prove di
verifica durante lo svolgimento del modulo prefissato. Al termine dei corsi,
sempre nel predetto mese, si terranno le prove d’esame con test di vario genere
e, terminate le quali, si procederà ad ulteriore e definitivo scrutinio.
Si tenga conto che come gli
alunni che diserteranno il corso a cui destinati saranno penalizzati durante le
prove da tenersi nell’ultima decade di luglio, altrettanto il docente che,
adducendo motivi non comprovati da alcuna certificazione si sarà esonerato
autonomamente dal predetto incarico, vedrà sottrarre dalla retribuzione mensile
gli emolumenti relativi ai giorni d’assenza e sarà sottoposto a provvedimenti
disciplinari. E’ fatto obbligo, infine, a alunni e docenti di non recarsi nei
locali dell’Istituto indossando il pinocchietto.
Porfido sobbalzò.
-Cosa ha scritto, non indossando
il pinocchietto? E cos’è?
-Come, preside, non conosce il
pinocchietto?
-Perdoni la mia
ignoranza-sibilò inviperito il buon Porfido- ma non lo conosco.
Per nulla intimorita Melania
spiegò.
-Il pinocchietto, caro il mio
preside, è quel pantaloncino tipo bermuda, sa, quello a mezza gamba che di solito
si porta d’estate, al mare e che mette a nudo il polpaccio del maschio.
- Ah, quello! E beh, cosa c’è
di strano? Lasciamolo indossare a chicchesia, purché non se ne vengano in
mutande.
-No, preside- rispose drastica
Melania- il pinocchietto è contro legge.
-Ma mi faccia il piacere…
contro legge… Lo metto anche io durante l’estate.
-Le ripeto, preside, è contro
legge.
-Ma non dica sciocchezze! Mi
trovi lei un articolo del codice civile o penale che preveda qualche pena per
chi indossa il pinocchietto.
-Non nei codici, ma nel
regolamento d’istituto c’è. Anno scolastico 2005/2006, commissione di vigilanza
presieduto dalla professoressa di religione Suor Clementina Massarella,
segretario professor Orsobruni. Articolo 1-recitò tutto d’un fiato Melania- è severamente
vietato indossare il pinocchietto agli alunni di sesso maschile, onde evitare
che mettano in mostra il vello di cui li ha dotati madre natura suscitando
scandalo e perturbando l’ingenuità degli alunni di sesso femminile che popolano
l’Istituto Benpensante. Approvato dal Collegio dei docenti in data 8 settembre
2005.
-E’ inaudito- disse
sconfortato Porfido- è inaudito- ripeté. Siamo nel 2008!...Convocherò d’urgenza
il Collegio dei docenti per ridiscutere l’intero regolamento.
- Faccia pure, preside, ma
dovrà comunque attendere il nuovo anno scolastico. Per ora il Pinocchietto è
vietato.
Suor
Clementina
Suor Clementina Massarella, badessa delle Carmelitane
Scalze, batteva ritmicamente il piede foderato Geox, cinque cm di tacchetto, dietro
l’uscio della presidenza.
Porfido era impegnato con la commissione RSU. La
discussione verteva sui compensi straordinari da attribuire al personale ATA.
Artemisio
Colabrisi rappresentava il sindacato della B.E.R.N.A.R.D.A. (Benemerito
Ente Radicale Autonomo Regionale Docenti Angustisclavii) e, pregno di un forte
odore di olive marcite, era stravaccato sulla poltrona alla destra di
Minchiuzzi, il prof ex catto, ora islamico, presidente della
M.I.N.C.H.I.A(Multilingue Insegnanti Nazionali Classificatori Hardware
Indipendenti Angustisclavii). Carlo Sguizzi, nominato RSU della
R.O.B.E.R.T.A.(Rappresentanti Oberati Boicottati Energici Raminghi Tuttologi
Angustisclavii) a furor di popolo, sedeva all’estrema sinistra. Il suo spirito
partigiano era a favore dei dipendenti del Pubblico Impiego. A lui, infatti,
non importava che i cartellini di presenza fossero timbrati secondo il motto dei tre moschettieri, uno per tutti, tutti per uno. Porfido,
al contrario, ligio al comando di Nanà Moretta, nuovo rattigno ministro per la
Funzione Pubblica, era lì come controparte, anche per affermare la sua autorità, spesso messa
in discussione. La querelle tirava
per le lunghe. Solo quando l’aria divenne irrespirabile Porfido capitolò e con
lui tutti gli altri, tanto che, alla fine, fu difficile capire chi l’avesse
spuntata.
Suor Clementina si affacciò all’uscio.
-Posso?
-Si accomodi- rispose Porfido soffiandosi il naso.
-Posso?-ripeté la monastica.
-Certo! Gliel’ho già detto- confermò Valà un po’
scocciato.
Suor Clementina entrò nel grande studio barocco di
Porfido, ben diverso da quello sobrio e piacevolmente elegante del suo
predecessore, il compianto Pierpaolo de Fulgentiis.
Porfido sembrava immerso nella lettura del verbale della
seduta e disinteressato alla querelle della monaca. Poiché non veniva a capo di
nulla, alzò il capo dai fogli vergati a mano e
guardò fissa la clericante, quasi a chiedersi cosa cercasse la sposa di
Gesù da lui, povero mortale. Poi ricordò e: - Se è venuta qui per perorare la
causa dell’antipinocchietto- disse torvo- ha sbagliato indirizzo. E’ una norma
stupida quella d’impedire che d’estate, con il sole che picchia a 40° si
debbano indossare i pinocchietti. Ho letto tutta la normativa del regolamento
d’Istituto e ho deciso di cambiarla in toto.
Suor Clementina, che non aveva ancora proferito parola,
si lasciò cadere sconsolata sulla poltrona opposta a quella del Preside.
-Ma lei-disse dopo un grosso sospiro la collega della
monaca di Monza- ha saputo cosa accadde nel giugno del 2004 per colpa del
pinocchietto?
-No!- esclamò Porfido sorpreso- Che accadde?
-Ah, non sa nulla? Ora le racconto- accostò la poltrona
ancor più alla scrivania e cominciò a raccontare sottovoce.
Porfido si fece attento.
-Deve sapere- cominciò suor Clementina- che io ho una novizia
che mi sta molto a cuore. Mi è stata raccomandata da un… un ricco possidente
mi… sardo.
Porfido, per ascoltare meglio si sporse sulla scrivania.
-Come dicevo- riprese la monaca- questa novizia fu
accompagnata, quando aveva l’età di sei anni, dall’on… dal dottor…, il nome non
importa, mi fu accompagnata, o meglio consegnata, con la promessa che, se
avessi provveduto alla sua educazione senza mai rivelare il nome del padre a
chicchesia, il convento ne avrebbe tratto grandi vantaggi.
Porfido sporse ancor più il capo: Continui, continui.
-Quattro anni fa, però, visto che aveva raggiunto l’età
per sostenere l’esame di maturità, lei che non era mai stata in una scuola se
non in quella interna al convento, pensai che fosse giusto dotarla di un
diploma superiore. Non sapendo a chi rivolgermi, mi recai dalla famiglia de
Fulgentiis, con la quale ho un’ottima frequentazione, per consigliarmi con il
professor Pierpaolo, che sapevo essere diventato preside di un Istituto
tecnico.
De Fulgentiis, onorabilissima persona, credeva di
rassicurarmi dicendomi che, con la sua raccomandazione, avrebbe fatto sostenere
a Rebecca l’esame di Stato presso un professionale, il cui preside era un suo
amico fraterno.
Io mi scandalizzai alla proposta, visto che avevo
provveduto a dotare la mia novizia di una preparazione liceale, ma il preside
insistette e confermò che i diplomi erano tutti eguali, che il diploma
conseguito in un professionale valeva quanto, se non più, di quelli dei Licei,
che i ragazzi erano fatti tutti della stessa stoffa, cioè, dico nel senso che
nessuno sapeva un’acca, che erano tutti ciuchi e che la mia protetta, con una
preparazione classica, avrebbe stracciato gli esaminatori. Per farla breve,
dopo varie mie insistenze, acconsentì che Rebecca sostenesse gli esami presso
il suo Istituto. Premetto, Rebecca non era mai uscita dal Convento, non aveva
mai visto un uomo in carne e ossa da quando era con me. L’avevo protetta e
conservata come una pietra preziosa…
-Venga al nocciolo della questione- la interruppe Porfido
che era ansioso di giungere alla fine del racconto - mi sembra un romanzo
giallo. Chi è il colpevole?
-Abbia pazienza! Il
colpevole, vuole lei; i colpevoli,
dico io!... Come le stavo dicendo…
-La pietra preziosa.
- Sì, una pietra preziosa era per me Rebecca, ma me
l’hanno rubata, me l’hanno rovinata tre docenti e tre alunni di questa scuola.
I docenti, per salvarsi, dicevo, hanno immediatamente chiesto il
trasferimento,mentre gli alunni si sono
diplomati con cento e… addio al secchio.
Assurdo!
-Suora, lei sta divagando, mi dica la fine!
- Eh no, lei deve sapere tutto!
-Allora mi dica tutto- rispose rassegnato il buon
Porfido.
-Eravamo?
-Alla pietra preziosa…
-Sì, ricordo. Rebecca venne in questo Istituto il 18
giugno del 2004, per la prova scritta d’Italiano. La hall era affollata come
una discoteca alle due di notte. Gli effluvi di sudore e di adrenalina avevano
sostituito l’ossigeno. La tensione era all’apice.
-Suor Clementina, non siamo in un film di Hitckoc, stiamo
parlando d’esami, forza, mi dica come è finita!
-Ha ragione, ma il ricordo è presente come una stilettata
nel cuore. Ragazzi e ragazze si affollavano contro le vetrate in attesa del
suono della campanella che avrebbe consentito loro di accedere alle aule
dell’Istituto e di prendere posto. Rebecca, con le sue lunghe trecce biondo
cenere tendenti al grigio pezzato, era riconoscibile anche agli occhi di chi
non l’aveva mai vista. Al suono dello Start partì come tutti gli altri, di
corsa, snocciolando il rosario che le avevo donato per l’occasione. La vidi
prima in cima alla prima rampa di scale, seconda sulla seconda rampa,con un
potente scatto di reni, poi, nuovamente prima, per un’incollatura, a occupare
il posto.
-Suor Clementina, mi pare la cronaca di una corsa di
cavalli! Ma che mi sta dicendo, mi sta solo facendo perdere tempo!
-Mi scusi, preside, ma è per il dispiacere, il dolore di
aver corso il rischio di perdere una ragazza su cui avevo puntato molto.
-Ci risiamo…
-No! Ora le racconto.
-Speriamo…
- Le file dei banchi erano due: una addossata al muro,
l’altra alle finestre, sul lato opposto. Rebecca occupò il secondo banco sul
muro. Si trovava tra due energumeni, due ragazzi con tanto di barba e baffi al
primo e al terzo posto; alla sua destra, oltre il corridoio, un tanghero
villoso sin sulle mani. Ma questo è niente: il bello, si fa per dire, viene
dopo. I ragazzi erano seduti e ancora nulla si notava del loro abbigliamento,
anche se le magliette sporche, il puzzo di sudore e adrenalina…
-Suor Clementina!...
-D’accordo. Come dicevo, ancora nulla si notava del resto
del loro abbigliamento. Il vociare degli alunni, canti e inni a volte scurrili,
s’interruppe all’apparire della commissione. Tre esterni, più il presidente,
tre interni. I tre esterni erano di una sobrietà, di una eleganza che mi
ricordava le belle giornate trascorse a Merano, quando i cavalli fremevano
sulla linea di partenza, con le froge tirate, i denti esposti in un ghigno
quasi satanico, le nari fumanti…
-E allora è vizio! Suor Clementina, lei è una patita
delle corse di cavalli… lo confessi!
-No, preside, non dica così- proruppe con voce di pianto
- io servo la Chiesa, non il demone del gioco!
-Ci credo poco- disse Porfido- comunque continui.
Suor Clementina asciugò con la mano due lacrime che le
correvano veloci sul viso paffuto e liscio, aggiustò la ciocca che veniva fuori
dal cappuccio nero, e riprese.
-I tre interni, al contrario, erano male in arnese.
Portavano jeans e maglietta su tre paia di sandalacci infradito. Per fortuna
c’era il presidente! Era di una finezza unica, mi ricordava le magnifiche
galoppate ad Ascot… che giorni meravigliosi!
Porfido impugnò il tagliacarte. Suor Clementina riprese
il racconto.
-A un tratto Rebecca, tutta intenta a sviluppare la sua
traccia, si sentì toccare la spalla: era il candidato del terzo banco che le
passava un bigliettino da dare al compagno che le stava d’avanti. Sorpresa
dall’impudenza del troglodita si alzò e denunciò il fatto. Immediatamente il
presidente intervenne e rimproverò gli autori del misfatto, minacciando la nullità
dell’esame. I due delinquenti, protetti dai loro docenti, fecero il mea culpa, ma rivolsero alla mia
protetta uno sguardo carico di promesse cattive. Non solo…, lo scambio di
bigliettini continuò. Non potendo usufruire dei Rebecca come pony express, i due
masnadieri ricorsero al cucchiaio.
-Cos’è mo ‘sto
cucchiaio?- chiese Porfido battendo il tagliacarte sul palmo della mano
sinistra.
-Totti!- esclamò la badessa
Porfido pugnalò la scrivania.
-Che c’entra Totti?... Si vuol spiegare, per Dio?-urlò il
preside incazzatissimo.
-Totti ha inventato il cucchiaio- disse impaurita, con un
filo di voce suor Clementina.
-Ma mi faccia il piacere….
-Ma… ma così dicono alla TV.
-Ho capito, il calcio a parabola!- affermò sicuro di sé
Porfido.
-Appunto.
-Beh, ma che c’entra?
-Volevo dire che i due scavalcavano Rebecca tirando a
cucchiaio i bigliettini.
-Continui, continui…- si spazientì Valà
-Rebecca- deglutì suor Clementina- poverina, muoveva il
capo d’avanti e di dietro quando c’era lo scambio, per timore di essere colpita
da uno di quei proiettili. Uno dei membri interni, mi pare quello d’Italiano,
per vendicare la spiata chiese alla mia protetta cosa stesse facendo. Proprio
in quel momento uno dei biglietti cadde sul banco dell’innocente e precipitò
per terra. Il prof ordinò con un risolino maligno alla poverina di raccogliere
l’oggetto caduto. Rebecca non poté che obbedire. Si chinò,s’inginocchiò per
terra, volse il capo verso destra, poi verso sinistra e urlò. Si trovava tra
quattro colonne pelose e ributtanti che
sembrava volessero aggredirla. Si alzò in fretta, batté il capo contro la
tavoletta del banco e cadde semi incosciente per terra. Le colonne pelose la
circondarono: erano divenute sei. I peli erano animati, divennero delle piante
carnivore, protesi com’erano verso il volto della fanciulla. Rebecca urlò
ancora, ma si trovò schiacciata fra quelle colonne che minacciose avanzarono
verso di lei. Il presidente intervenne con autorità e impose ai docenti di
salvare la mia novizia, ma quelli, se ne
infischiarono. Rebecca giacque tra quelle colonne ripugnanti per ben cinque
minuti, con la criniera sciolta sul pavimento e il petto ansante, come un
cavallo azzoppato. Quando si riprese volle andar via.
Porfido, voi lo conoscete, si commuove facilmente e così
fece quella volta. Si alzò dalla sua mastodontica scrivania e a passo lento si
diresse verso suor Clementina. Non appena le fu vicino le circondò le spalle
con le sue braccia e la rassicurò: avrebbe indagato sui malfattori.
Suor Clementina reagì in modo inconsueto per una nuora di
Maria: E no, caro preside, non sono i colpevoli che m’interessano! Io voglio
che sia messo al bando in perpetuo il pinocchietto!
-Ma che c’entra il pinocchietto? – interrogò Valà.
Come, non ha capito? Quei ragazzi indossavano il
pinocchietto! Da quel giorno Rebecca non vive più. E’ ossessionata dal
pinocchietto. Prima le faceva senso, ora la turba: è in cura da uno psicologo.
Non appena ne vede uno cade ai piedi del possessore e tende le mani verso quei
pelacci ispidi e robusti che sembrano avvolgerla come un’edera rampicante. Per
questo motivo, quando fui eletta presidente del Consiglio di vigilanza, lo feci
mettere al bando.
-Ma è trascorso tanto tempo… suvvia, siamo nel 2008!...
-Preside- lo interruppe suor Clementina- il mio timore è
che la ragazza stia nuovamente male.
-E perché’
-A Giugno, dopo quattro anni di cura, Rebecca tornerà in
questo Istituto a sostenere gli esami di Stato. Non vorrei…
-Ma via- disse suadente Valà- non è che un innocuo
pantaloncino…
-No!- protestò suor Clementina- E’ un’arma del diavolo.
Si alzò dalla poltroncina, squadrò Porfido da capo a
piedi e sbiancò: Oh Dio,- urlò- il pinocchietto, il pinocchietto!
La
cultura del recupero
Ragazzi, tutti in Auditorium, che ci sbrighiamo presto!
Preside, Porzxia non è ancora arrivata…
Va beh, che ci posso fare? L’importante è che ci sia Saverio. Nick dov’è??
Sono qui, preside, mo con Saverio scrivo i presenti.
Non ti preoccupare, non è necessario, tanto firmeranno
quando vengono a prendere il CD.
Allora non vengo sul palco, mi metto in prima fila.
Vieni, saverio, mettiamoci qui.
Ci deve dare un CD? Speriamo che sia un bel film!
Sì, un film d’amore…
Il brusio nell’Auditorium del Benpensante si fa palpabile
come un toast imburrato.
Che scassamento di coglioni!- borbotta il prof.
Tritatutto- io non voglio andare agli
esami di Stato e mo mi debbo subire il predicozzo sul recupero che non serve a
un cazzo…
Stai buono, Franco, anzi non parlare, così finiamo prima.
Tutto a posto? Beh, salve, ragazzi, voi lo sapete che vi
convoco solo quando è necessario…
Fhihiiii
Maurizio, dove sei, questo microfono me lo vuoi
aggiustare?
Lo facciamo subito, preside, lei lo sa quanto sono bravo…
Maurizio, datti da fare!
Allora, riprendiamo. Voi lo sapete che vi convoco solo
quando è necessario e questa volta lo è. Dobbiamo parlare della normativa sui
corsi di recupero.
Ma preside, lo sappiamo tutti. I corsi di recupero non
servono a un ca…
Franco, non hai capito niente. Noi dobbiamo acquisire la
cultura del recupero.
La cultura del recupero? Ma cos’è, preside.
Ve l’ho già spiegato l’altra volta… Insomma, siamo chiari… Sapete che cambiano i
governi e cambiano anche i ministri. Nella Pubblica Istruzione non c’è più
Merlinpace. Questo è il tempo di Fichi…
Preside, ma il tempo dei Fichi non è in estate?…
Nick, sempre spiritoso!... Dicevo, voi lo sapete che
penso di questo governo… lasciamo perdere, ma il ministro Fichi ha dato una
scossa alla materia che ci compete; ha fatto pulizia…
Si, è vero, l’ho visto anche io a Striscia la Notizia:
faceva una pulizia del naso togliendosi le caccole…
Ragazzi, se volete perdere tempo, ditemelo. Io posso
stare sino a mezzanotte. Fichi ha fatto una cosa buona! Tanto per cominciare la
Scuola è più seria: la commissione esterna, il giudizio di ammissione, il voto
di condotta e ora il giudizio di sospensione.
Ma anche prima potevamo sospendere…
Non divaghiamo… volevo dire la sospensione del giudizio…
E che vo’ di’?
Antonio, mi pare che anche a Bitonto, quando non si parla
arabo, ci si esprime in Italiano. Vuol dire che oggi un ragazzo, invece di
essere ammesso alla classe successiva pur avendo debiti, prima dell’inizio del
nuovo anno scolastico deve recuperarli, altrimenti è non promosso.
Cioè bocciato?
E perché non lo sai, Carbonchio, che non promosso vuol
dire bocciato? Sembra che siamo entrati nella scuola solo ieri.
Ma era per chiarire…
Non divaghiamo… Dove eravamo? Ah, alla cultura del
recupero. Prima il recupero era solo un modus dicendi per promuovere anche chi
meritava di essere bocciato e noi facevamo salti mortali per non incrementare
la mortalità scolastica.
Sì, i due diventavano prima cinque, poi sei e sette…
Dino, mo stai a recriminare? E quanti ne dovevamo
bocciare se tu mettevi due a tutti. Per non parlare di Rosa, di Ezio e
quant’altri. Io facevo da ago della bilancia…
E la bilancia pendeva sempre per le promozioni…
E non sei contento Buch? Se no tu andavi a insegnare a
Monopoli!
E magari, io sono di Monopoli!
Ma è un modo di dire! Non mi fate perdere tempo, parliamo
di cose serie. La cultura del recupero, oggi, sta a significare rendere la
scuola più efficiente. Avete visto cosa scrivono i giornali stranieri, avete
letto le indagini demoscopiche? Siamo all’ultimo posto. Non sappiamo leggere,
non conosciamo la nostra lingua madre, non conosciamo la matematica. Vi sembra
normale? E ci chiediamo: la colpa di chi è?
Preside io faccio inglese…
Lucia, non significa che tu fai inglese, ma ti devi far
capire in italiano, o sbaglio?
Preside, io…
Vito, con te è tutto un altro discorso: tu fai fisica,
cioè filosofia della fisica o fisica della filosofia. Io stesso non lo so… mi
chiedi di fermarmi il martedì alle due e mi fermo; mi chiedi di assistere alla
proiezione del CD e assisto e mi vedo scorrere immagini di Kennedy e Gandhi,
che Dio li abbia in gloria, e poi signorinelle col pinocchietto…
Un momento, col pinocchietto non si viene a scuola! Se le
pesco io le rimando subito a casa…
Ma che dice Mariateresa… Ah, Porzxia, sei arrivata?
Si ero andata a prendere Francesca…. Ma comunque col
pinocchietto né maschi, né femmine devono venire a scuola. Non siamo mica in
spiaggia!
Porzxia, parlavo delle immagini del CD di Gelsi, Fichi,
volevo dire.
Ah, mo sì.
Come dicevo, caro Vito, poi non si capisce perché questa
medaglia non debba avere le due facce…
Ma è proprio quello che voglio dimostrare io…
E Cristo, e c’è bisogno di dimostrarlo? Lo vediamo tutti
che ha due facce! Ma questo non è che un esempio… le cose tragiche sono le
carenze nella lingua e nel fare due più due.
Veramente noi non facciamo solo due più due…
Rosa, se vuoi farmi incavolare continua a dire
sciocchezze. Lo so, farete le equazioni, le disequazioni, Pitagora…
Sta chiudendo, ormai, non ha quasi più classi!
Tonino, per favore! Io dicevo il Teorema di Pitagora…
comunque se ti fa più piacere diciamo il teorema di Euclide.
Ah, mo sì.
Mo sì, mo sì. Tutti dite mo sì e poi mi trovo con tanti
mo no. Ragazzi qui dobbiamo fare le cose serie…
Fhihiiii
Maurizio, ma che ha sto microfono, lo vuoi mettere a
posto?
Preside, se quello impazzisce non è colpa mia!
E’ colpa mia allora? datti da fare, che dobbiamo
proiettare il CD. Prima, però, chiudiamo la parentesi…
E chi l’ha aperta?
Siete peggio degli alunni! Poi mi venite a chiamare nelle
classi per mettere le sospensioni, per far venire i genitori.
Sì, i genitori, perché molti ragazzi sono proprio
maleducati!
Gianniiii! Mi getti l’ancora. Ho fatto bene a sceglierti
come vice Porzxia. I genitori li ho convocati e glielo ho detto in faccia: i
vostri figli debbono studiare a casa per almeno quattro ore; ma ore piene! Non
è che si alzano mo per andare nel frigorifero, mo per telefonare alla ragazza o
al ragazzo, mo per dare uno sguardo alla televisione, se no tanto valeva che
facessi i corsi di recupero pomeridiani!
Preside e non si potrebbe…
No, Biagio, sarebbero un fallimento! E sì che sarebbero
un fallimento. Dimmi, tu te lo vedi uno che viene a scuola la mattina, finisce
all’una e mezza, riprende alle due, finisce alle sei, torna a casa coll’autobus
alle sette e poi si mette a studiare quattro ore sino alle undici di sera? Per
questo li ho evitati sin dall’anno scorso.
Ma…
Niente ma! Ora, invece, di mattina, con la cultura del
recupero, noi interrompiamo le lezioni curriculari, recuperiamo il ragazzo di
mattina, ripeto, lo promuoviamo con una bella verifica e lo mandiamo all’anno successivo
senza che durante l’estate debba studiare.
E questo è quello che vogliamo pure noi: niente corsi di
recupero durante l’estate.
E qui casca l’asino! Allora dov’è la cultura del
recupero? Durante l’estate, non appena pubblichiamo i quadri dello scrutinio
finale, noi sospendiamo il giudizio di idoneità, avviamo i corsi di recupero la
mattina, che so, fino al venti luglio; poi, nell’ultima decade di luglio
facciamo le verifiche e vediamo chi è promosso e chi è bo… non promosso.
Nooo, durante il mese di luglio io debbo portare i
bambini al mare!
E, scusa, tu, come ti chiami, non li puoi portare ad
Agosto? Io mica faccio come alcuni mie colleghi che fanno andare a scuola a
firmare durante l’estate. D’estate vi lascio liberi!.
Ma che liberi se dobbiamo fare i corsi di recupero!
Ma io v’incentivo, vi do cinquanta euro all’ora! Tu, per
esempio, che hai quattro classi, quando ti ho dato venti, venticinque ore per
classe non sei contento?
No, io voglio andare in vacanza.
Siete dei piccolo-borghesi! Dove esiste mo la vacanza
estiva se è sempre vacanza. Che debbo dirti quando mi chiedi un giorno perché
deve venire l’idraulico? Ti debbo dire no? Invece io dico sì; e pure tu devi
fare così quando ti chiedo di fare i corsi di recupero, diamine!
E scusi, preside, e i trentasei giorni di ferie dove
stanno?
Nunzxia, se facciamo i corsi di recupero a luglio, non li
facciamo più i primi di settembre e torniamo a scuola con l’inizio ufficiale
dell’anno scolastico. Se ti fai i conti …
Preside, e io che vado in barca a luglio…
Embeh, ci vai ad Agosto. Ma scusa che differenza c’è se
ci vai ad agosto? Qui vogliamo la botte piena e la moglie ubriaca.
Ma ad agosto il mare è più trafficato della Salerno
Reggio Calabria…
E prendi l’autostrada del sole! E che ti debbo dire,
Ezio, la Scuola ormai è questa, dovete mettervela in testa questa benedetta
cultura del recupero. Dai, Maurizio, manda il CD!
un caso di malasanità
È una malattia poco
conosciuta, ma non rara. Colpisce in particolare i docenti di merceologia, ma è
pericolosamente contagiosa.
Non sono pochi,
infatti, i proff. che ne sono colpiti, alcuni in modo grave, altri in forma
lieve.
Purtroppo non esiste
vaccino.
Mocchh’ a chi v’è
murt’ (Pensate ai vostri cari defunti!).
È Sandrino Tullìolo,
che si presenta, più o meno così, ogni mattina.
È con noi da un
lustro abbondante.
Medio-basso,
brizzolato, carnagione gelso bianco maturo, coppola mafiosa, occhi
strabordanti, dentatura a fessure, è dotato di una delicatezza senza pari.
Si presenta ogni
mattina, rumoroso come un elefante in un deposito di tegami di ferro, animato
da un’unica intenzione: supplire a pagamento tutto e tutti, anche il preside,
se fosse possibile.
Sappiamo che il suo
primo pensiero, non appena desto, è rivolto affettuosamente a noi, al corpo
docente cioé.
Il suo ingresso in
segreteria è preceduto da una sosta in portineria, al cui sportello, su una
mensola, è il registro delle assenze.
Passa in rassegna
prima quelli che il giorno prima avevano dato segno di essere in odore di
influenza porcina, poi quelli che
avevano lamentato mal di schiena e scricchiolio delle ossa, poi i docenti
provvisti di 104 per la tarda età dei parenti stretti e, infine, quelli più
anziani, i pensionandi.
Augura a tutti un
impedimento legato a morte prematura, morte matura, morte degli avi per ictus,
infarto, o che so io, e, dulcis in fundo, ripercorre a mente i nomi dei
colleghi quotidianamente sulla circonvallazione, perché non si sa mai, un
incidente può sempre capitare.
Certo, più serio è
l’intoppo più si allungano i tempi di assenza: che siano almeno tre. Però,
anche uno non guasta.
Eh sì, perché
Sandrino ha dato la sua disponibilità tutti i giorni, in tutte le ore di buco e
no.
Qualcosa – pensa –
deve pur uscire.
Il morbo lo
attanaglia in modo feroce e, quando entra in crisi d’astinenza, sfodera un
repertorio in lingua indigena che la Zanichelli dovrebbe approfittarne per
tirar fuori l’ennesimo dizionario.
A fine quadrimestre
si ritrova con un monte ore di supplenza che supera quello curriculare; tanto
c’è il compresente, Masino Lafaina, con cui divide fughe e imboscamenti.
Perché, dovete
sapere, Lafaina è pure lui gravemente ammalato.
La malattia si
presenta in varie forme; quella di Masino è supplentite paraculata.
Chi ne è portatore
mostra grande cortesia, sfodera sorrisi a iosa, saluta.
Purtroppo il morbo
in soggetti di questo tipo è subdolo, nascosto, ma estremamente letale.
Come complicanza ha
la chiarchiarite, che trasforma il portatore in (si spera) innocuo iettatore.
Con fare
nonchalantico (neologismo di origine barbarica), Lafaina, non appena c’incontra
(ma noi pensiamo che faccia apposta a incontrarci), s’informa se tutto sia a
posto, se deve sostituire qualcuno, che glielo si dica in tempo altrimenti ha
da fare, se i suoi teorici, lui che è un pratico, sono presenti o se deve
sciroppare in solitudine le ore di lezione.
Poi, dando a
intendere che ha dimenticato qualcosa in portineria, si avvicina alla sacra
bibbia e fa scorrere gli occhi a fessura sulle stanche pagine. Mostra sommo gaudio se vede il suo nome tra i tanti
prescelti e va in classe con aria sconsolata se manco un’ora gli è stata
attribuita. Però si rassegna e poco dopo, se t’incontra nuovamente, ti risaluta
a occhi bassi con un lieve sorriso che gli increspa le labbra.
È lì che entra in
gioco la chiarchiarite: chissà che maledizione sta invocando su di te!
Per fortuna
ricorrono vari rimedi per non essere toccato dal maleficio: il più efficace
consiste nel toccarsi contando sino a 13 e mezzo, ma ve ne sono altri,
anch’essi efficaci. È sufficiente, di solito, impugnare saldamente un mazzo di
chiavi, incrociare le dita, stringere cornetti e gobbetti nel palmo della mano.
Solo come estrema ratio occorre segnarsi con un aglio ed esclamare a alta voce
vade retro satana.
Quest’ultimo rimedio
è però vivamente sconsigliato perché gli agnostici ti prendono per pazzo.
Lafaina si
accompagna spesso a Tonio Hazzone (perché lo pronunciamo alla toscana), uomo di
non gradevolissimo aspetto per la consuetudine che ha, da quando ha contratto
la malattia, di sfregare energicamente il suo posteriore. Ovviamente nessuno di
noi è disponibile a scambiare con lui strette di mano e, quando proprio non ne
possiamo fare a meno, subito dopo corriamo in bagno a lavare i nostri arti
prensili.
Anche Hazzone ha
crisi di astinenza, specie in prossimità delle feste natalizie quando,
magicamente, cessano le assenze e con esse le supplenze. L’anno scorso Tonio ha
trascorso la vigilia in sala operatoria per la più grave crisi avuta in corso
di supplentite. Prese a grattare con tale veemenza il suo posteriore da
irritare irrimediabilmente le emorroidi, tanto che fu necessario l’intervento.
Per più di un mese non è venuto a scuola ed è stato supplito per lo più da
colleghi non affetti dal morbo. Il primario ci confessò che quello è stato il
periodo più terribile per Tonio, che voleva venire a scuola a supplire se
stesso. Una dose al giorno di valium per
via rettale di solito era sufficiente a calmare la sua frenesia. A volte, però,
i medici sono stati costretti a inc… insuflarlo per ben due volte al dì.
L’altro caso
disperato è quello di Water (ci fu un errore anagrafico: i genitori
dichiararono all’ufficiale anagrafico Walter, ma il colletto bianco,
premonitore, omise la elle) che porta il nome di un imperatore: Vespasiano.
Comunque è un uomo famoso: Vespasiano è scritto su tutti i cessi della città.
Ebbene, Vespasiano è
affetto da una forma complessa e anomala di supplentite. È esplosa all’inizio
dell’anno, anche se i prodromi risalgono a un paio d’anni fa, come si rileva
dall’anamnesi verbalizzata da un medico psichiatra in crisi, marito di una
collega in crisi perché impossibilitata a gestire una casa di 200 metri quadri, se non con un orario ad personam.
Noi non abbiamo
potuto prendere visione della perizia per via della privacy, che mai come in
questo caso è appropriata, ma sono stati i fatti successivi a rendere chiara la
sua patologia.
È accaduto, infatti,
di recente, che siano cresciute nella classe di concorso di merceologia quattro
ore da assegnare a un docente precario. Beh, Vespasiano, che sin allora non
aveva dato cenni manifesti di malattia, è stato preso da attacchi di
pettegolite, una complicanza della supplentite. Come una gestante presa dalle
voglie alla conta dell’ultima settimana, ha dato in smanie, straparlando contro
la dirigenza, perché il surplus orario fosse affidato a lui e a lui soltanto.
Cosa che, chiaramente, non è accaduta.
Ha preso, così, a
snocciolare rosari a bassa voce, specie quando c’incontra, e non appena gli
voltiamo le spalle ci fa le corna.
La cosa, ovviamente,
ci ha arrecato grande disagio.
Come cacchio ha
fatto a sapere i fatti nostri? – ci siamo chiesti sorpresi.
Abbiamo pensato,
allora, di rivolgerci al presidente della Regione, il dott. Ricchiuti, perché
si desse una mossa e vedesse di arginare questi casi di supplentite, ormai a
rischio di divenire pandemia.
Il presidente ha
risposto alla nostra interrogazione chiedendo a sua volta se tra i monattati vi
fosse almeno un omosessuale o, nel peggiore dei casi, qualche docente con due
orecchini, altrimenti gli sarebbe stato impossibile intervenire presso il
ministro della Salute Sanità per avviare una ricerca farmacologica.
Disgraziatamente,
per i dati ufficiali tra noi non vi sono gay dichiarati, c’è solo qualcuno
delle nuove leve che si fregia di un orecchino, però sospettiamo che una
discreta percentuale sia sulla strada della diversite.
Ricchiuti ci ha
risposto incazzato: No checche, no party!
Il potere della
pubblicità!
Ancora una volta è
stato dimostrato quanto le strutture pubbliche siano inefficienti per la scarsa
attenzione che i politici dedicano ai gravi problemi che attanagliano il Paese.
Ormai siamo in piena
pandemia, Il morbo si diffonde rapidamente. La triste previsione, tragicamente
confortata dall’indagine demoscopica affidata al dott. Mannheimer di Porta a
Porta, è che avrà un breve intervallo durante la Pasqua del Signore, per
riprendere, flagellante, sino al 30 di Giugno.
Poi tutti al mare!
San
Cedolino
Era un giorno come un altro: cioè di merda.
L’ingresso dell’Istituto era come il solito affollato di
studenti recalcitranti ad entrare, ma ansiosi di recarsi al bar per l’ennesima
colazione.
Noi, i docenti, in attesa di accedere ai servizi di
decenza per l’urlo della prostata che voleva prostrarsi; gli alunni sempre
indecisi, ma in coda.
Se il bisogno urge, non c’è santo che tenga: devi
entrare.
Per questo, l’androceo del “Fate presto Fratelli” caricò
la schiera adolescenziale e, tra il belare pecorino, varcò la soglia del
mercato usato della cultura usata.
Ancora una coda.
L’ingresso del bagno dei docenti androgeni fu coperto da
una marea di toccomani che, muovendosi al ritmo della danza della pioggia,
fischiettava le canzoni sconce degli anni della goliardia.
Ugo, che di solito va adagio, varcò per primo la soglia
dei servizi igienici con un sospiro di soddisfazione.
Drago, il bide-llo (solo per restare in tema), ci
soverchiò con la lingua infuocata e comunicò tra sputi e fiamme che nel
gabbiotto erano a disposizione i cedolini.
Ce ne fregammo perché, com’è palese, avere il cedolino
non significa mettersi in tasca la pecunia, ma solo un pezzo di carta che, per
carità, può essere utile nei momenti di emergenza.
Ugo no! Lui è pignolo; conserva tutti i cedolini ricevuti
da quando ha prestato giuramento nella Pubblica Istruzione.
Un giorno ce ne mostrò alcuni di prima dell’Unificazione,
a cui rispondemmo con quelli della probabile disunione (vedi Bossi e &).
Ugo arrossa gli occhi pregustando il piacere di leggere
le cifre stitiche e sempre uguali incise sulla carta computeristica del
Mi(ni)stero del Tesoro. (Dove sarà mai?...)
Ugo umetta le dita e “trizia” la carta frusciante della
busta strappata da cui lentamente fa emergere il suo cedolino.
Ripete l’operazione più volte per prolungare il piacere,
quasi stesse spogliando la Canalis.
Ugo, quindi, con le mani ancora bagnate (non mi chiedete
di cosa) venne fuori, canticchiando un vecchio motivo dello “Zecchino d’oro” Ho fatto la pipì, ho fatto la pipì papà.
Drago, poiché nessuno s’era avvicinato al gabbiotto per
la prebenda, lo attendeva al varco.
In un batter d’occhi vi fu un passamani che manco
Berlusconi quando si appropria dell’ennesimo canale (si sussurra che sia già
proprietario della futura TV digitale universale in società col Padreterno).
Il cedolino, o la fascetta stipendiale, (è una questione
di ermafroditismo, come la medaglia a due facce del collega di Fisica), era in
evidente fase erettiva (anche questo è un indice, o forse medio, bisessuale),
perché, birichino, sgusciò immediatamente dalla vagina (termine tecnico che sta
a indicare sinonimamente fodero), per catapultarsi, tuffarsi nella calda e
umida mano di Ugo.
Mai a Gomorra fu raggiunta tanta estasi.
Ugo, che ben conosce l’arte degli amanuensi per lungo
tirocinio in età pre e post adolescenziale, solleticò amorevolmente la carta
tesoriade piegata in tre parti e lentamente, con l’occhio sempre più rosso, più
languido, più smorto eiaculò un “settemilaottantanove” che fece girare di
scatto tutti noi che ancora l’avevamo in mano.
Ugo sbiancò, inforcò gli occhialini da presbite (anche se
si ostina a dire che è ipermetrope) e sbirciò e lesse e rilesse le cifre
impresse sulla carta divina: set- te -mi -la –ot- tan- ta -no ve, alla fine
sillabò tutto compreso.
Nessuno di noi voleva prestar fede a quella boutade, ma
tutti sommergemmo Ugo e leggemmo.
Se-tte- mi-la-o-tt-an-tan-ove sillabò a sua volta il
collega di ragioneria che non ha frequentato il liceo classico.
Ancora oggi il preside cerca Drago, si è persino rivolto
a “Chi l’ha visto”, dopo che il povero bide-llo, spinto nel bagno, fu assalito
da tutti noi novelli cercatori d’oro.
Il destino ha voluto spazzarlo, con il nostro ne ha
estinto la specie, ha chiuso definitivamente la storiografia fabulistica del
drago e la principessa, lasciando, forse, delle scorie nelle fogne del “Fate
presto fratelli”.
Ogni frontiera ha
i suoi martiri.(sic o sig!).
Il sacrificio dell’ausiliario fu vano, purtroppo.
Non uno di noi visse la stessa lussuriosa avventura di
Ugo.
I nostri cedolini furono sacrificati nel rogo mattutino
del rito dell’accendino e tra volute di fumo sono saliti sino alle ampie narici
della Moratti che batte mattutinamente
le ampie sale dei ministeri col portafogli nella cerca affannosa di cospicui fondi per le scuole private.
Ugo fu invidiato, guardato in cagnesco, assalito e
spogliato della busta paga che ora troneggia, con una lampada votiva, sulla
parete maestra della sala docenti.
Ogni mattino, a turno, ciascuno di noi depone un mazzetto
di fiori di campo sulla mensolina posta sotto l’icona e recita preghiere a San
Cedolino.
Ma lui è una sfinge.
Terza
D
Terza D! Il consiglio di classe della terza D subito in
aula magna! Saverio, dove sono i docenti?
Sono già in aula, preside, manca solo uno.
Chi Di Giano?
No, Di Giano non c’entra… manca Carbonchio.
Carbonchio! Dov’è Carbonchio?
Preside, è in corridoio… sta fumando una sigaretta!
Dite a Franco che non rompesse la scatole! E’ da
stamattina che sono qui! E dianime, ci vuole un po’ di rispetto!.
Preside, sono qui… pensavo ci volesse più tempo…
Hai messo i voti?
Si, sono sul tabellone.
E questi sono voti secondo te? Tutti due, tre, quando ti
sei sbracato hai messo quattro.
Preside, quelli sono i voti di Tangoscia.
Dino, pure tu? Quoque tu avrebbe detto qualcuno qualche
tempo fa!
Preside, ma so’ ciucci!
Beh, mo vediamo…
Nick, tu quel n.c. me lo porti ad otto?
Ma… veramente…, otto, ma a chi?
Come a chi? Stiamo facendo lo scrutinio della terza? Ad
Arcolaio… è il primo in elenco!
Preside, ma Arcolaio non è mai venuto!... E’ assente dal
primo giorno del secondo quadrimestre…
Non sai che le assenze non contano più? Se fosse venuto…
Ma ha n.c. in tutte le materie…
Vuol dire che gli daremo A in topografia… Sei contento
Dino? A in disegno tecnico, va bene Carbonchio? Ma parlate!... non è che debbo
fare tutto io!
Preside, non sono d’accordo…
E quando mai sei d’accordo, Rosa! Non ti preoccupare tu
dai solo sei!
Comeee?...
Sei, ho detto, mica ho detto dieci! Allora, Arcolaio
ammesso in quarta.
E gli altri voti?
Beh, ragazzi, ora non esageriamo! Tutti sei e non un voto
di più!
Preside, ma non è normale!
Sabina, non ti ci mettere anche tu! Che vuoi dare sette
in Diritto? Ho capito… Giovanni correggi sul computer…
Preside, veramente non ho capito niente… che debbo fare?
Giovanni, più svelto però! Ora ho detto che ho da fare!
Vi dovete adeguare… io sto da stamattina e debbo ancora fare tutto il secondo e
il quarto Gruppo … Che facciamo con sto Bisolati? Questo ha tutti sei e un solo
sette. Ora vi dico io. Non cominciamo ad esagerare… i sei passano a sette e il
sette ad otto.
Ma…
Genchi, volevi dire qualcosa? E parla, siamo in
democrazia! Non mi dire però che tu vuoi dare otto, non è possibile…
Ma…
Non insistere, io
sto qui da stamattina e ho un sacco da fare… via, un po’ di rispetto per il
lavoro degli altri!
Binni, ah Binni… questo è un caso grave! Che vogliamo
fare, lo vogliamo bocciare?
Ma, preside…
E qui ti volevo Saverio! Dimmi tu come faccio a bocciarti
uno a cui tu hai messo nove?
Ma preside, io non…
Saverio, non dica altro! Piuttosto si ricordi il
Consiglio d’Istituto! Ehi, che lì non possiamo perdere tempo… lo sa che ci ho
da fare!
Va beh, faccia lei!
E no! Qui non dovete dire fai tu! Io sono costretto a
fare! Mi dica a che serve il cinque… o è quattro o è sei. E che volete che lo
debba bocciare io Burgundi?
Burgundi ha tutti due!
Roberto, e che sono nato ieri? Io i due li leggo cinque
perché voi siete indecisi… ma il cinque non mi dice niente! Non solo!... e che
debbo dire al genitore che poi viene a dirmi. “Come, mio figlio bocciato con
tutti cinque?
Ma sono due!...
E brava Lucia! E tu vuoi che io mi debba assumere la
responsabilità di un suicidio? Ma lo sai che se metti due quello si getta dal
balcone? Già ci ha provato sabato scorso quando si è lanciato dal cancello!
No, preside… Burgundi ha scavalcato il cancello che era
chiuso per rincorrere il pallone!
Ma quello stava finendo sotto una macchina! Secondo te
non è un tentato suicidio? Ma fatemi il piacere!... Beh, ragazzi, non perdiamo
tempo… andiamo avanti. Per esempio, qui vi do ragione… decidete voi e non
chiedetemi di assumermi la responsabilità perché non lo faccio. Ora mi chiamo
Ponzio Pilato, non Valà.
Porzio il pelato è nel Server!
Ah, buona questa… il buon Ponzio che sta lavorando come
un matto. A proposito di matti mo vi leggo un msm che mi ha mandato un mio
amico medico… che disgraziato! Allora, ci sono due matti in manicomio…
Preside, io debbo andare in associazione… mi arriva un
carico di tedeschi e non so dove portarli…
A proposito possiamo chiedere a Max?
Gianni, lo sai che non ho tempo! Alla foresta Mercadante?
Mo gli telefono… Max, pronto? Non c’è
campo poi riproviamo! Ragazzi, muoviamoci, un po’ di rispetto per il lavoro
degli altri, a chi eravamo arrivati?
Preside, Cosma…
Si, e Damiano! Ma non dica cavolate Marinetti! Cosma e
Damiano non sono in discussione per rispetto a Saverio e Lattanzi! Ragazzi,
mettiamo da parte il preside, mo vi parlo da sociologo!
Lo sapete che danno d’immagine viene a Gianni e a Nick se
bocciamo Cosma e Damiano? Questi due poveretti non avranno più il coraggio di
venire a scuola! E’ un argomento chiuso o agiamo per voto di Consiglio?
Giovanni, mi raccomando, Cosma e Damiano promossi per voto di Consiglio. Forza,
andiamo avanti che debbo ancora fare il Secpondo e il Terzo Gruppo! Qui vedo
Frantone…
No, preside, si è ritirato…
Nick, qui non ti posso aiutare! Dobbiamo dare un segnale!
Questo lo bocciamo, non transigo! Giovanni, mi raccomando, Frantone non ammesso
alla quarta. E no, figli miei, quando ci vuole ci vuole! E mi troverete
irremovibile anche su Lattarulo…
Preside, Lattarulo si è trasferito al Pitagora.
Peggio di peggio! Bocciato senza remissione di peccati!
Ragazzi, siamo seri! Non possiamo promuovere tutti… non me ne vogliate.
Guardate, per venirvi incontro chiudo un occhio su Morrone… su via lo
promuoviamo all’unanimità!
E figurati se non promuovevamo Morrone!... Preside, questo è ciuccio e ineducato! Ha
rotto i cessi del primo e del secondo piano, non viene mai alle
interrogazioni….
Dino, ed io che sto dicendo? Un atto di clemenza per far
notare che anche noi abbiamo un cuore. Come diceva il mio maestro…
Va beh… andiamo avanti preside, che lei ci ha fretta!
Finalmente una persona comprensiva… lo sapete che debbo
ancora scrutinare il Nautico e l’Aeronautico…
Preside, ora dobbiamo decidere, per Narici, Opunzia,
Quercioli e Ragno! Sa, quei quattro che stanno sempre a pomiciare…
Hai fatto bene a ricordarmelo! Qui saremo decisi!
E sì, non fanno che ragnare uno sull’altro!
Non dirmi altro, li conceremo per le feste! Li
promuoviamo e li mandiamo al Linguistico!
Ma preside, non è possibile…
E’ quello che dico io! Non è possibile dividerli… sai che
trauma avrebbero!... Ragazzi, la sociologia non sbaglia!... ma non mi chiedete di tenerli ancora da noi…
Preside, veramente noi chiedevamo…
Ho capito tutto Lucia! Del resto che potere ho io di
fronte ad una decisione del Consiglio? Va be’, per quest’anno li teniamo
ancora… poi si vedrà.
Rimangono solo Senno e Zavorra, i più bravi della classe.
Questo lo dite voi… Ragazzi, voi lo sapete che di voi mi
fido; ma, detto tra noi, siete troppo buoni. Io un segnale lo darei…
Preside!
Va bene, va bene, promossi. Poi non dite che sono io!
Cose che capitano
Beato chi può!
Io non può,
evidentemente.
Cavolo, ero lì a
lavorare con Porzxia e Del Cozo l’Africano, quando entrò in vicepresidenza
Fallonio, o come fallo si chiama, il nuovo collega di Fisica, con aria
dispiaciuta, anzi imbronciata.
Era infagottato in
un cappotto marrone, non so se di capra o di bisonte, la barba appena accennata
sul volto e gli occhi bassi, come lui, del resto. Mi pareva Brunetta casual.
– Piccolo, che ti
succede? – gli chiese Porzxia, tutta materna.
Fallonio la guardò,
poi spostò lo sguardo su Del Cozo e me, senza parlare.
Porzxia ripeté: –
Piccolo, c’è qualcosa che non va, guai in famiglia, la mamma non sta bene, il
piccolo del piccolo è ammalato?
Fallonio si prese
una pausa di riflessione.
Noi eravamo in ansia
per lui.
Ehi, piccolo, parla,
sei tra amici.
– Questa è una
grande famiglia, – incalzò Del Cozo, – sii franco!
Franco Carbonchio si
affacciò nella stanza: se è per una supplenza, oggi non posso; devo fare
l’evacuazione.
– Evacua pure, –
intervenni, – come ha detto Saverio, questa è una grande famiglia, patriarcale,
anzi; un po’ d’olio di ricino non si nega a nessuno.
Franco, da quando si
è rifatto gli occhi, è diventato birichino. Dice che vede tutto sotto altra
luce e che non è disposto a fare il tappabuchi, ora che i buchi degli occhi
glieli hanno allargati.
Mi guardò in tralice
e poi, con quell’affetto che traspare dal suo volto ogni volta che teme che
qualcuno lo voglia gabbare, mi mandò affanculo: sempre voglia di scherzare, mi
disse poi, passandosi una mano sulla pelata nel vano tentativo di mandare
indietro capelli che non ha mai avuto.
Porzxia lo
rassicurò: – Non devi tappare nulla, parlavamo con Fallonio.
– Come si chiama?
Fallonio venne fuori
dalla trance e borbottò qualcosa come «Eduardo Fallonio» o, almeno, così
volemmo sentire.
Poi ingrugnì: – Non
ti piace?
– Per carità, –
sbottò Franco, – abbiamo i colleghi Sbudellazzi, InIncazzuti e Pompinio… cosa
vuoi che ci faccia un Fallonio in più!
Il collega di Fisica
ricadde in trance.
– Piccolo, Franco
scherza. Come ti ho detto, questa è una famiglia.
Un rosso non si nega
a nessuno.
In effetti, Concetta
era sulla soglia, non che aspettasse che le si desse il permesso di entrare, ma
per questioni di spazio. La vicepresidenza, infatti, è un bugigattolo piccolo,
stretto e con intonaco gonfiato per le infiltrazioni che provengono dal bagno
di servizio attiguo, ma climatizzato. Come dicevo, la Rosso confortò il nuovo
acquisto assicurandogli che Franco è come Gorbaciov, sembra cattivo, ma è un
pezzo di pane, un po’ rancido, ma sempre pane è.
Eduardo si riscosse
per la seconda volta e ci disse che voleva un po’ di privacy.
La privacy non si
nega manco al peggior nemico, perciò pregammo Franco e Concetta di lasciare che
il nuovo assunto si confessasse con la sola triade, cioè Porzxia, Saverio e io.
Non appena soli,
Eduardo aprì il suo caier de doléances.
Ci disse, il fisico,
che la sua situazione era drammatica, unica e non assimilabile ad alcun’altra.
Lo esortammo e
preparammo i nostri scottex.
Il poverino ci
confessò di abitare in una grande villa nella foresta in cui svettava un solo
albero, un banano. L’ unico mezzo di trasporto, sino alla prima carrabile,
erano le liane. Per tanto, sin quando smetteva l’habitus tarzaniano, metteva a
cuccia Cita, rimpinzava di banane il gorilla guardiano, rassicurava la moglie e
distribuiva lecca lecca ai bambini, si facevano le 21 serotine. Ciò rendeva
impossibile la sua presenza ai collegi e ai consigli di classe che
inopinatamente il preside, senza chiedere un suo autorevole parere, destinava
dalle 17.00 in poi. Quindi, data
l’illogicità delle decisioni dirigenziali, egli, l’Eduardo, si sentiva in
dovere di sottolineare il comportamento irresponsabile del capo d’Istituto, ne
chiedeva l’immediata destituzione e si dichiarava disponibile a sostituirlo.
Il villano terminò
il pistolotto tra le nostre lacrime che gocciolavano dagli scottex ormai
inservibili.
Mi asciugai le
lacrime e pensai che anche io possedevo una foresta con un albero quasi in fin
di vita, ma la villa , quella, cazzo, no!
Guardai Saverio e
capii che eravamo sulla stessa scia di pensiero. Lui, infatti, se è pur vero
che la villa ce l’ha, ha però perso da tempo foresta e albero!
Ci consultammo con
Porzxia.
La nostra è una
triade di pensiero e di azione, come Mazzone, cioè Mazzini, e decidemmo:
l’ammutinamento sarebbe stato più feroce di quello del Baunty.
Congedammo il
gerarca al grido di Eia, Eia mio capitano!
Fallonio ha ricevuto
una riservata personale con tanto di timbro della Repubblica Italiana.
Se
questo è un uomo
13 dicembre, Santa Lucia.
Ricordo casa mia, quella dei miei genitori per
intenderci. Era come una vigilia. Alle sette di sera, tutti a tavola a gustare
le leccornie preparata da nonna Carmela e zia Nella. Tarallini di santa Lucia,
tanti piccoli occhi cosparsi di giulebbe, così dolci da intenerirti il cuore,
preparati la sera prima con castagnelle, sgagliozze, sassanelli, cartellate e
torroncini. Che festa! I frutti di mare, ancora vivi, si contorcevano nei
piatti colorati per il succo di limone che li ricopriva di un odore che mi
ricorda bambino. E gli spaghetti alle vongole,le cozze al pinzimonio, il
baccalà fritto e con le olive, i merluzzi e le triglie croccanti per la pastella
della frittura.
Che tempi, ragazzi!
Poi il ricordo mi porta lontano, alla partenza per il CAR
a Siena, proprio il giorno di Santa Lucia.
Il freddo di quella notte! Io in treno, con la faccia
sbigottita con i tarallucci negli occhi che non avevo neppure avuto voglia di
assaggiare per lo stomaco chiuso, su un vagone delle Ferrovie Italiane, a
pensare ai miei fratelli che certamente se la stavano spassando a quella tavola
immensa con tutto quel ben di Dio, con le mani impiastricciate di marmellata
che veniva fuori dai panzerottini a ogni morso, con la ragazza accanto sulle
cui cosce ancora lievemente abbronzate nettarsi l’appiccicoso dello zucchero,
dell’umore della frutta per poi passarvi e ripassarvi la lingua in quel gioco
erotico che ancora oggi mi dà brividi di piacere.
E io che avevo lasciato la mia ragazza in pena per la
lontananza cui mi sospingeva il mancato rinvio del servizio militare.
Oggi pure è santa Lucia e io sono a scuola, con Del Cozo,
per l’orientamento, ad accogliere genitori e fanciulli prossimi clienti del
nostro Istituto.
Ma cazzo, dico, oggi tutti sono disorientati? Ai miei
tempi, senza bussola, senza Tom Tom noi passavamo dalla scuola elementare alla
media, dalla media al superiore e poi all’Università senza che un cacchio
qualsiasi ci dicesse, ci consigliasse circa le scelte per il futuro, tanto
erano mamma e papà che decidevano tutto.
Ora, invece, brochure, quadernetti, cartoline, tutto a
colori vivaci, e mamme e padri con i pargoli per mano a farsi prendere per il
culo, a occhi e bocche sgranate a vedere quanto grande sia la nostra scuola, la
palestra, l’auditorium, i gabinetti della fisica e della chimica, i laboratori
d’informatica a chiederci cos’è quello, cos’è questo, se l’autocad è un
programma per imparare a guidare o se serve per l’architettura.
E noi a guardarli con il sorriso bonario e a spiegare che
geometra non si nasce,si diventa, che è una professione che durerà in eterno
perché in eterno si costruiranno case, stabilimenti, capannoni, senza dirgli
che poi serve la laurea in ingegneria.
E di fronte al loro stupore incalziamo dicendo che qui si
fa sport, si danza, si recita, si balla e che è sempre carnevale, mentre gli
occhi dei ragazzi si aprono e si accendono di lampi per la festa imminente.
Ma tutti vogliono essere presi per i fondelli, i
genitori, soprattutto che devono far vedere ai figli quanto stia a cuore il
loro futuro. Perciò non indagano più di tanto e se ne vanno fieri con il
malloppo colorato tra le mani sussurrandosi a vicenda che hanno fatto bene, che
la scelta è quella giusta, che questa scuola è il paradiso ritrovato dove i
loro figli potranno aspirare a un futuro migliore. E i ragazzini li seguono
eccitati, poi però ci ripensano perché sanno che tanto sui libri dovranno
sgobbare loro e beati i genitori che ora devono solo mettere mani al portafogli
per le tasse da pagare allo Stato.
Suona l’ennesima campanella.
L’Istituto si anima di gente che si affretta a lasciare
gli spazi che ha occupato.
Il rumore dei motori che si accendono sotto il piede
nervoso sull’acceleratore dice che anche per oggi è finita. Si torna a casa.
Le
commissioni d’esame
Come
al solito sono in ritardo. La convocazione è per le 16.00. Sono le 16.10 ed io
sono ancora a casa incantato dalle evoluzioni del mio nipotino Matteo che gira
per casa e fa croa-croa come la rana.
Saverio
mi riporta alla realtà.
Cazzo,
hai detto che saresti passato a prendermi e sono giù a farmi congelare il
pisello. Ti decidi?
Certo,
sono già giù.
Il
traffico è inesistente. Tutti, o quasi, a quest’ora fanno la siesta. Passa solo
qualche veicolo che erutta fumo bianco nella digestione della benzina.
Saverio
è lì, sotto il cancello di casa e passeggia nervosamente.
Cacchio
stavi facendo? Mi chiede quando lo invito a poggiare il suo disturbo sul sedile
della morte.
Non
gli rispondo per non innescare il solito duetto in cui ricorrono i gattini del
mio condominio.
Ci
pensa lui però: Seghette ai gattini, vero?
Seghette
ai gattini è la mia risposta preferita quando mi chiedono cosa faccia nei
momenti di relax. Ora i miei amici si rispondono da soli, non aspettano manco
che io tiri fuori qualche altra cazzata: Eppure di cazzate , cacchio se me ne
vengono!
Recito
il mea culpa perché mi hanno tolto il gusto della battutaccia.
I
gatti che sostano in cortile, in verità, sono tanti e ci vorrebbe qualcuno che
li impegnasse eroticamente per impedire che maschi e femmine continuino ad
accoppiarsi sfornando decine di cuccioli che poi diventano grandi e
s’accoppiano anche loro. Ecco, ci vorrebbe qualcuno che li stancasse, che li
facesse sentire sessualmente soddisfatti senza la collaborazione degli etero
che miagolano in calore non appena si affaccia un marcantonio tipo Romeo e un pezzo di femmina come Duchessa (gli
Aristogatti, per chi ne ha memoria).
Un
tempo, quando Ira e Ouzo, i mie giganteschi pastori tedeschi, mi portavano a
passeggio, si creava il deserto: c’era un fuggi-fuggi generale di felini che
interrompevano la copula al ruggito delle mie due belve. Ora, purtroppo, ci
sono solo degli yorkshire che si fanno fare pure loro dai grossi maschi
coccolati dalle vecchie barbute di via Kolbe con croccantini e pesce di prima
qualità.
Storco
le labbra nel ghigno che sfoggio quando non so cosa dire ed emetto il mio
ringhio famoso tra alunni e colleghi: grmmmm.
Prendiamo
un caffè? – dico per distoglierlo da pensieri lubrichi.
Tu
non l’hai preso?
No,
non ne ho avuto il tempo.
Io
invece sì… e poi è tardi.
Se
mia nonna, appena nato, non mi avesse dato un cucchiaino di caffè, ora non
sarei un caffeinomane e un nicotinomane convinto e sopravvivrei felice senza
avvertire l’urgenza della pausa che fa tanto incacchiare Brunetta, l’ottavo
nano di Biancaneve.
Mi
rassegno e guido sino al Polivalente. Stoppo la macchina nel grande parcheggio
senza grattini di cui mi servo da circa vent’anni e invito Saverio, che si è
appisolato, a sloggiare.
Lui
si schernisce: – Non stavo dormendo, – mente.
Si
gratta la pelata, poggia il destro sul selciato e schiaccia un escremento che
potrebbe essere animale se non fosse del nostro collega incontinente, abituato
ai grandi spazi della jungla: Fallonio.
Saverio
sacramenta, striscia la scarpa per terra, prende la racchetta di un gelato da
passeggio, il Lola, che non si produce da cinquant’anni, e smuove per quanto
possibile l’elemento organico dalla suola di para.
Cazzo,
è un reperto storico e tu lo tratti come uno spazzolone del water!
Saverio
mi guarda storto.
Il
puzzo, comunque, persiste.
L’atrio
dell’Istituto è affollato. L’odore dell’organico si fonde con le profumazioni
francesi delle colleghe e il Proraso del docente di Elettronica. Qualcuno dà di stomaco.
Ci
rifugiamo nell’androne con la speranza che il personale addetto alle pulizie
sopravviva allo spregevole compito.
Del
Sole, Saverio cioè, ne approfitta per calare la scarpa nel secchio dell’acqua e
si bagna persino i calzini; rivolge, mistico, il pensiero ai cari di Tarzan e
batte il piede per terra a scrollare un po’ del liquido puzzolente marrone che
trasuda la sua Valleverde.
Arriva
il preside. Anche lui è in ritardo.
Men’
uagnun’, facim’ subt’.
Le
commissioni da formare sono tante: quattro per i geometri, cinque per gli
aeronautici e quattro per i nautici.
Ebbene
sì, copriamo terra, mare e cielo.
Nessuno
di noi vorrebbe essere membro interno perché è una grande rottura di coglioni,
per giunta retribuita male, ma qualcuno deve pur essere sacrificato sull’altare
della cultura.
Io,
per fortuna, sono membro esterno e me ne fotto, ma tanti, come Saverio, il mio
socio, sono chiamati al dovere perché sulla base delle materie scelte dal
ministero, obtorto collo, devono sottostare; però non è sufficiente. E’
necessario che altri vengano martirizzati per la definizione della commissione
perfetta.
Il
primo a dichiarare la sua indisponibilità è Fallonio. Così come non ha versato
il contributo di 13 € per il fondo cassa sociale, non è nelle condizioni di
assicurare il servizio per la Maturità. Le scuse sono le solite: moglie, banane
per Cita e Kerchak, ominidi, i figli, da accudire e le liane che si accorciano
quando il tempo è cattivo.
Ci
commuove con il suo pianto afro-greco e applaudiamo. Tulliolo s’incazza e
chiede di essere esonerato perché se Fallonio è preoccupato per le banane (sa
per certo, inoltre, che Cita è la moglie e non la scimmietta da passeggio), lui
è preoccupato per le storie che girano sulla riduzione delle ore di compresenza
nella sua disciplina, cosa che lo costringerebbe l’anno prossimo a stare in
aula e non a stazionare in portineria a memorizzare il registro delle
supplenze.
Il
brusio innescato dal gran rifiuto diventa cagnara: nessuno vuol essere membro
interno.
Cazk
il polacco si chiede perché sempre lui debba prenderla nel boffice e manda
affanculo Saverio che lo vuole con sé membro interno della mitica V D.
Mitica
è dir poco se si pensa che la classe è composta da quindici scapocchioni che
non aprono libro dal primo anno di corso. Per questo Cazk s’incazza.
Il
preside richiama tutti all’ordine e procede per classe di concorso.
Esordisce:
Saltiamo, perciò, la A050 perché è dei membri esterni.
Ma
chi cazzo sono quelli della A050? – sbotta il collega Trinciatutto.
Ma
dai, che lo sai…sono quelli di lettere.
Ah.
Sfoglia
il carteggio che ha posato sulla grande scrivania e: Vediamo la A019?
Ma
chi cazzo sono?- risbotta Trinciatutto col consenso dell’intera platea.
Litalica
e Airone.
Preside,
non sono Litalica, ma Italica.
Se
è per questo manco io sono Airone, ma Aquilani.
Sì,
ma che cazzo insegnate? – interroga Di Giovanni, che prima d’insegnare
circolazione aerea faceva il rappresentate di pecorino romano.
Materie
giuridiche!
E tanto ci voleva a dirlo?... – riprende
Trinciatutto. – Preside, mi ascolti, continuiamo col nome vero, non con quelle
cacchiate dei numeri.
E
va be’. Allora, Italica e Aquilani sono membri interni rispettivamente della A
e della D.
Ancora?
Ma è tutti gli anni, e poi a noi di Diritto ci fanno fare pure i segretari,
cioè un mazzo così! Si strappano i capelli i giuristi.
Ragazzi,
non posso farvi niente. Qui ci sono incroci fra classi, meglio, fra consigli di
classe. Come faccio io a formare le commissioni se tutti vi tirate indietro.
Noi
non siamo tutti, siamo quelli di diritto.
Si
e poi – s’infervora il Primis – quando chiamerò quelli di disegno tecnico
quelli mi diranno no, quelli d’impianti si ribelleranno e così via tutti
quanti.
Preside,
a proposito, noi di Impianti di quale classe di concorso siamo? Io sapevo di
essere della A035, mo’ mi hanno detto che sono nella sedici…
No,
la sedici è quella di Saverio!
Natalino,
non confondermi.
Io
volevo aiutare…
Ma
che aiutare…
Mi
sembra che sono nella C0030 – fa da paciere Saverio.
No
Saverio, quella è del laboratorio di agraria.
Non
ci capisco più niente, in quale classe sono, si può sapere?
Saverio,
qui stiamo per le commissioni! Quando finiamo, vieni in presidenza e ti faccio
vedere.
Sì,
ma quella delle classi di concorso è un casino! Le hanno cambiate tutte…
Franco,
tu devi sapere che per il D.M. del 27 maggio 2011, articolo 943, comma 1…
Ma
come, se siamo ancora nel febbraio 2010?
Ma
l’hanno già fatto, l’hanno già fatto. Tra un anno ti farò vedere il bollettino
ufficiale… comunque, come dicevo, per il D.M. che ti ho detto, tutte le classi
di concorso subiscono una variazione. Ad esempio, quelli di lingue confluiscono
nella classe AC47.
Ma
non è quella per l’insegnamento dello strumento del clarinetto?
E
beh, e che tu non lo sai che per usare il clarinetto devi adoperare la lingua?
Ragazzi, dovete slinguare se volete usare il clarinetto!
Ho
capito, ci sta prendendo per il culo!
Allora,
torniamo alle commissioni…
Preside
– s’incazza Cazk – perché io lo debbo fare e Lunacci no? Questo non mi piace. E
che …
Nicola,
è un piacere che ti chiedo…
Ma
che piacere, è una rottura di scatole! La colpa è di Del Sole. Io non lo dovevo
fare, me l’aveva promesso…poi è venuto Saverio a piangere e…
Promesso
proprio no, comunque ti posso chiedere un piacere? – sorride il dirigente.
Ma
questo è l’ultimo. Poi non venga a dire che sono cattivo…
Ma
che cattivo, è che tu sei di Bitonto!
E
che vuol dire?
Dai,
sei dello stesso paese di Lunacci. Sit’ pacci tutti e due.
Ah,
sì, quelli di Bitonto sono pazzi? E mo’ non lo faccio più, mi do ammalato.
Dai,
Nicola, stavo scherzando.
Mo’
sì!
Fuori
la luna è alta nel cielo, bianca, nivea nel suo lindore immacolato. Non c’è
traccia di smog nella periferia japigina; lo abbiamo inspirato tutto noi con lo
sguardo rivolto al cielo, uscendo dall’antro infernale. Nell’ombra qualcuno mi
prende per mano e sussurra: facciamo come quando eravamo ragazzini, andiamo a
pomiciare soli io e te, al lungomare, con le stelle che stanno a guardare.
Lo
mando affanculo: è Saverio.
Un
giorno in Istituto
Iolanda mi abborda: Nick, vieni a firmare, c’è un
Consiglio straordinario.
Sobbalzo: ancora e che diamine!
Consolati, c’è anche per il corso B.
E sì, mal comune mezzo gaudio.
Arraffo il foglio che mi porge la nostra collaboratrice e
leggo:
andamento didattico-disciplinare;
valutazione per il pagellino di metà quadrimestre;
visite d’istruzione;
varie ed eventuali.
Ore 16.30 VD; 17.30 IVD; 18.30 IIID.
M’infervoro: ma che c’è di straordinario?
Forse è straordinario che lo facciate.
Taccio e dolorosamente rifletto.
Mi rassegno e varco la porta dell’Inferno.
Dopo una giornata di merda come quella che mi aspetta è
la ciliegina sulla torta.
Manco il tempo di una pennichella e di nuovo scuola. Roba
da matti!
Al mattino alle 08.20, proprio quando io, dopo aver
sorbito il caffè con gli amici, mi accingo a fumare la mia Ligt, arriva il
preside. Mi guarda con espressione di rimprovero e mi ricorda che il fumo fa
male. Io mi tocco e lo seguo al bar.
La mia consumazione l’ho già fatta, quindi lo osservo
mentre beve la sua bibita che Maddalena, la nostra barista, gli serve
immediatamente ignorando la clientela in attesa da una decina di minuti. Poi
svicolo: lo lascio a discutere con Porzxia e Saverio e m’imbosco nel cortile
d’accesso al Linguistico. Con Rosa e Nunzxia mi ossigeno di buon tabacco
taroccato dalla nostra manifattura, pieno di sterpetti e catrame di ottima
qualità e poi recupero la borsa che ho lasciato in segreteria.
Non ci siamo salutati?- mi chiede il dirigente.
Io gli rispondo di sì, ricordando la grattatina di
prammatica, ma gli do nuovamente la mano, in segno di pace.
Gli dico ci vediamo dopo e affronto le scale con una smorfia
di dolore per la lombo-sciatalgia che mi affligge da un mese e più.
La borsa è pesante, contiene tutti i compiti, dal primo
del primo quadrimestre all’ultimo che ho ritirato ieri e il registro intonso,
senza manco i nomi degli studenti. Ho tutto lì perché non mi fido a conservarli
nel mio loculo in dotazione, visto che non ne ho corretto manco uno e che metto
i voti a cazzo durante gli scrutini. Ma questo non è un problema. A fine d’anno
risulteranno tutti corretti, con tanto
di giudizio e voto.
Le scale sono un calvario. Mi domando per che cazzo non
ho preso l’ascensore. Poi ricordo: mi aspetta la IV D, una classe di merda.
Perdo tempo, rallento il passo. Sul pianerottolo mi fermo
a parlare con Rosa, la bidella del corridoio di destra. Soliti convenevoli.
Rosa è una brava donna, ma soprattutto una brava cuoca. Mi consiglia un piatto
semplice, ma gustoso: costolette d’agnello alla brace con pepe e sale e
contorno di funghi carboncelli al forno. Mi viene l’acquolina in bocca, poi
penso a mia moglie che non mangia l’agnello che le procura coliche epatiche,
renali, gastrite e colite acuta. Roba da pronto soccorso. Saluto la mia
consigliera e giro a sinistra. Nel corridoio di sinistra c’è Maria. E’ una
donna di una simpatia unica. Alta, robusta, di mezza età. Ha un difetto alla
vista: non ti vede se non sei a due cm da lei. Mi saluta con entusiasmo quando
le sono proprio addosso e comincia a raccontarmi episodi di vita quotidiana col
padre e la cagnetta che continua a far pipì in casa anche ora che ha undici
anni. Le spiego che forse ha un problema ai reni per l’età avanzata.
E mio padre?- mi chiede.
Perché, anche lui?
Sì, ha ottanta anni.
Beh, allora è certamente un problema di reni.
No, mia madre mi diceva che lo faceva tutte le volte che
lo rimproverava per essere andato in cantina con gli amici.
Allora è un timido- le dico dando una sguardo alla porta
della penultima aula, quella della IV D.
La porta è chiusa, mentre dovrebbe essere aperta in
attesa del docente.
Mi preoccupo.
Saluto Maria e mi avvicino con passo felpato. Poggio
l’orecchio sullo stipite: silenzio assoluto.
Busso, per dare a intendere che si tratti della
vicepreside.
Nessuna risposta.
Con violenza spalanco la porta: non c’è anima viva.
Per poco non mi scoppia il cuore per la gioia.
Torno indietro e chiedo a Maria.
Lei si dà una pacca sulla fronte: professò, mi ero
dimenticata di dirti che sono al catasto col prof. Incazzuti. Lo metto a fuoco, sì è quello che io chiamo Cazk, che entra in classe già
incazzato. Ci giuro, anche al Catasto sarà incazzato. La colpa, dicono, è della
moglie che lo manda in bianco a ripetizione.
Il cuore mi batte a cento all’ora: non è possibile che
non essendoci la mia classe io non vada a supplire in qualche altra.
Mi faccio dare da Maria la fotocopia del foglio delle
supplenze.
Impallidisco. Cazzo, nella II A, in quel cesso di classe!
Torno lentamente nel corridoio di destra. Rosa mi viene
incontro. Anche lei aveva dimenticato di avvertirmi della sostituzione.
Il chiasso è irraccontabile. C’è Fannnulla, che io chiamo
Fanculla, un ragazzone di diciotto anni, plurirespinto, faccia di culo, che
sodomizza quasi Antonatti, per me Antocazzi, per avere un pezzo della sua
focaccia, cotta con olio rigenerato della Shell, venduta a caro prezzo da
Leone, il gestore del bar dell’istituto,
che io chiamo il Gobbo di Notre Dame.
Li separo, batto con tutta la forza il palmo della mano
sulla cattedra, cosa che fa quasi venire un infarto a Cotonetti, Cotoletta, con
quell’odore di fritto di uova marce e carne in decomposizione che si porta
appresso.
E’ una bomba- si affaccia il prof Carbonchio che io
chiamo Carbonchio. Poi vede che ci sono io e capisce.
Urlo da pazzi e risistemo gli alunni ai loro posti
distribuendo calci e pugni a quelli che si attardano.
Finalmente un po’ di pace!
Faccio l’appello: mancano i migliori, quelli che dormono
e non scassano gli zebedei.
Liberatorio, il suono della campanella avvisa che la
prima ora è trascorsa.
Vago per i corridoi.
Cazzo, io ho fatto l’orario e non mi ricordo dove devo
andare. Sarà la III D.
Ragù, Braciola, cioè, alunno della III, mi viene incontro
dicendomi che va in bagno.
Che me ne frega-gli rispondo.
Siccome sta da noi, volevo avvisarla.
Fingo di essere consapevole.
Ma ti ho dato il permesso?
No.
Allora torna in classe e chiedimelo.
Ma…
Torna in classe se non vuoi che trasformi il tuo cranio
in un teorema di Pitagora!
Torna in classe e sbuffa.
Mi fermo sulla soglia.
Gli alunni parlottano tra loro, scherzano, si scambiano
pacche seminoffensive e mi ignorano.
Resto sulla soglia.
Di Molla mi vede.
Ehi, il professore!
Silenzio.
Beh, che fate lì, sollevatelo!
Intendo sollevare il sedere dalla sedia per alzarsi.
Recalcitrano, ma si alzano.
Muovo i miei passi verso la cattedra.
Ragù mi chiede se può uscire.
Ti ho detto che puoi parlare? Resta in piedi.
Mi scappa.
Fattela addosso, tanto gli odori dell’aula non sono
diversi dalla tua prossima elargizione. Aprite la finestra, che non si respira!
Ma vi fate la doccia la mattina?
Seee , la doccia…
Iacobruttis (Iacovellis per l’anagrafe), testa di quiz,
era una domanda retorica!
Ragù mi fa il ballo della pioggia caro agli Arapahos, i
pellerossa con i Pampers.
Lo mando in bagno prima che innaffi il lombrico che
staziona vicino al suo piede destro.
Lo schiaccia e il puzzo copre quello della sporcizia.
Maria bussa alla porta: prof il preside ti vuole giù.
Vengo subito- felicito.
Questa volta prendo l’ascensore.
Il pulsante è rosso. Aspetto.
Finalmente la macchina si ferma al piano.
Le porte si aprono: è Stan senza Ollio.
Cacchio fai qui, questo è il piano dei geometri.
Lo so, mi ha mandato il preside a tenere la tua classe.
Perché è lungo il fatto?
E che ne so, mi ha detto vai.
Lo saluto e entro nell’ascensore.
Mi fermo a piano terra.
L’odore dei cornetti
mi assale, ma so bene che l’olfatto inganna il palato.
Desisto.
Mi trascino verso la presidenza; sulla soglia accentuo la
mia sofferenza.
Il preside mi invita a entrare.
Una smorfia di dolore deturpa il mio viso
michelangiolesco.
Zoppichi?
Sono sciantalgico.
Sciantalcchè?
Sciantalgico, ho una lombo sciatalgia.
Mi fa Verorchia(Veronesi e Sirchia sintetizzati): quello
è il fumo.
Imito Totò: ma mi faccia il piacereee!
Saverio, che è all’angolo sinistro della scrivania
presidenziale, si lamenta: e io mi sorbisco il fumo passivo.
Tu di passivo hai solo che sei passivo.
Dirò a Porzxia di sospendervi: sorride il dirigente
Magari!- all’unisono il gatto e la volpe.
Vi ho chiamato per Filingrato.
E chi è?
Un privatista.
E a noi?
Verrà a sostenere gli esami di idoneità al V.
E beh?
Non sa un cacchio, ma è paraplegico e sordomuto.
Normale. E allora?
Dev’essere promosso.
Normale.
Facciamo per andare, ma il deus ex machina ci ferma.
Dove andate?
In classe, preside!
Uhh, siete ligi al dovere!
Lex, dura lex,
sed lex.
Saverio non traduce, ma capisce.
E mo che c’entra?
Il primus ci dice di accomodarci alle poltrone.
E’ una presa per il culo, quelle la comodità non sanno
manco che esiste.
Mi lamento per la lombo; Gianni, Saverio cioè, mi fa eco.
Che cacchio sfotti?
No, non ti sfotto, anche io stamattina mi sono alzato col
dolore sciantalgico.
A te è per l’attività da amanuense! Non lo capisci che
alla tua età devi stare calmo?
Il preside assiste con il mento poggiato sul palmo della
mano, poi si scoccia: Ragazzi(bontà sua), non è solo questo, sto pensando
all’anno prossimo!
Anche noi…-sospiriamo.
E qui il primus ci dice che l’istituto non sarà più lo
stesso, che il caffè della mattina avrà un altro sapore etc etc.
Noi ci schermiamo, facciamo i modesti e siamo quasi sul
punto di commuoverci quando capiamo che lui si riferisce al nuovo plesso, ormai
pronto, in cui probabilmente sarà costretto a trasferire presidenza,
vicepresidenza e bar; al gran casino di spostamenti di classi, alunni e docenti
per la riforma della
ministroneosposaneomamma Gelsirossi, della quale conosciamo anche l’ora, il minuto e il secondo in cui, dopo la
corsa fratricida degli spermatozoi, ha concepito il figlio,
Ci ricomponiamo, gli diciamo che gli saremo
mediaticamente vicini e togliamo il disturbo sorreggendoci vicendevolmente.
Malinconicamente riprendo l’ascensore.
Stan ha i capelli ritti. Non appena metto piede
nell’aula, fugge.
Sono tutti tuoi!- mi urla scendendo di corsa le scale.
In classe ci sono tutti. Due, estasiati, all’ultimo
banco, col capo poggiato al muro, hanno le orecchie tappate dalle minicuffie e
ascoltano, rapiti, canzoni napoletane clonate abusivamente; un gruppetto di
cinque gioca a prendersi e muove banchi e sedie con gran casino; due, giovani
innamorati, in un angolo si coccolano e
si accarezzano pseudo pudicamente; la vamp della classe con specchietti e
trucchi si pasticcia il viso da battona; mentre i tre quasi sull’altra sponda
s’ingelano i capelli precedentemente impiastricciati con la storica brillantina Linetti avuta in
eredità dai nonni.
I più normali sono i quattro masochisti che si gonfiano
le mani a suon di schiaffi sulle palme che sembrano i panzerotti smerciati da Leonzio.
Caccio un urlo: niente; batto formidabilmente sulla
cattedra: scende il silenzio, ma sale il preside, spaventato dalla
deflagrazione. Anche Carbonchio si affaccia, mi guarda e dice: te l’avevo detto
io.
Cosa cacchio mi avesse detto non lo capisco, ma assumo
un’aria mortificata per il pallore di Rosa, l’ausiliaria del mio corridoio,
accasciata sulla sedia.
Se vuoi battere- mi dice il preside- sai dove andare.
Recepisco.
Prendo il mio duce sottobraccio e con familiarità lo
invito a prendere un caffè, con la scusa di mandarne uno su anche per Rosa. Ma
non è che un modo per allontanarmi dai miei scalmanati.
Scendiamo per le scale e riscoppia il casino. Fingiamo di
non accorgercene.
La campanella, ancora una volta, mi toglie le catene.
Nel bar c’è una ressa indicibile:tutti vogliono tutto.
Maddalena corre da una parte all’altra del bancone,
prende soldi, batte cassa, scontrini scambiati, ma non importa.
Sembra che i nostri alunni siano a digiuno da qualche
settimana. Si rimpinzano, bevono, qualcuno erutta da su e da giù.
Ci facciamo largo e occupiamo due postazioni
privilegiate: caffè maculato e espressino- dico con voce stentorea per vincere
il chiasso.
Caffè che?- chiede Maddalena.
Maculato- rispondo- con gocce di latte, per capirci.
Maddalena sorride: è abituata al mio sfoggio linguistico,
però non memorizza.
Il primus sorbisce l’espressino con aria disgustata:
gradisce di più un bel ristretto.
Ma perché non l’ha detto?
La voce di Iolanda risuona dall’atrio: Nick, c’è la
classe scoperta!
Finisco il maculato che mi va quasi di traverso.
Iolanda è nel bar: la prof. Porzxia ( è la nostra
vicepreside) si sta arrabbiando- mi dice- la IV C è scoperta!Ma non è mia-
replico.
Sì, ma c’hai supplenza.
E io che ne so.
Beh, ora lo sai.
Il preside lascia a metà l’espressino.
Io insisto: Maddalena, caffè, un caffè ristretto.
Maddalena opera.
Iolanda mi è alle costole: vai- mi suggerisce.
Di’ a Porzxia che sono col preside.
Il preside mi ringrazia del caffè, ma rinuncia, ormai ha
la bocca impastata di espressino.
Lo saluto e mi avvio per le scale. Cacchio ho di nuovo
dimenticato la mia sciatica.
La gamba mi duole: eroicamente resisto e vado in IV C.
Porzxia mi aspetta sulla soglia: sai che questa classe
non si può lasciare- mi dice spazientita.
Ma non è mia- replico- e poi non sapevo di avere
supplenza. In quest’ora ho ricevimento.
Come, hai ricevimento?
Sì- laconico.
Clarinetti, chiamatemi Clarinetti! Quando lo vuoi non c’è,
e lo sa che non si deve allontanare.
Raffaele arriva trafelato: che c’è professoressa?
Come che c’è, Lattanzi non ha supplenza!
E che vuole da me?
Come che voglio… tu mi hai detto di mettere Lattanzi.
No, io ho detto Larrandale.
E perché è venuto Lattanzi?
Intervengo: perché tu mi hai fatto chiamare.
Leggi- mi dice- come sta scritto sulla fotocopia delle
supplenze, io non ho gli occhiali.
Leggo: Larrandale.
Ah! Clarinetti chiama Larrandalee fammi venire Iolanda.
L’ascensore si ferma al piano: esce Iolanda.
Perché hai chiamato Lattanzi?
Perché ha supplenza!
No, ce l’ha Larrandale.
No, io ho Lattanzi.
Iolanda, non dire sciocchezze, io ho la fotocopia del
registro delle supplenze e qui c’è scritto Larrandale.
Iolanda legge: ma chi l’ha scritto,’ qui si legge Lattanzi!
Raffaele, dammi gli occhiali.
Clarinetti li cava dal taschino.
Ma che occhiali mi dai, i tuoi Io voglio i miei!
Professoressa, è lo stesso, anche io sono presbite.
Ma che presbite, io sono ipermetrope.
Sì, va beh.
Porzxia legge: sì, non si legge bene, ma è Larrandale.
Mi guarda a scusarsi.
Clarinetti, Larrandale dov’è?
E quello se n’è andato…
E mo? dai Nick, fammi il piacere, fattela tu, tanto il
ricevimento è finito.
Per fortuna è passata mezz’ora. Altri venti minuti.
Va bene- magnanimo-resto io.
Come Porzxia va via, la IV C si risveglia: in cinque
vogliono andare in bagno, in quattro al bar, in undici in laboratorio.
Sprofondo sulla poltroncina del prof: Ragazzi, non
scassate, tutti a posto.
Si alza la protesta: quella non ci ha fatto uscire, non
abbiamo fatto colazione, dobbiamo stampare i progetti…
Li interrompo. Basta, cacchio, stavate aspettando me per
riempire le caier de doléances?
Ammutoliscono, quasi li avessi minacciati di morte.
Uno spilungone prende coraggio: e cos’è, professore?
Hanno ragione; ormai il francese non si studia più, siamo
diventati tutti anglofoni!
Spiego: le lamentele, i desideri repressi, ciò che vi fa
sbavare, l’impossibile, l’irragiungibile…
Cazzate- sorride ‘ndramalonga.
La classe riprende coraggio: la cattedra è assediata, io
sono assediato.
Mi alzo, distribuisco pacche e guadagno la soglia. Apro
la porta e respiro.
Una ventata: sono tutti fuori e se ne vanno per i cacchi
loro.
Li richiamo, ma ormai non ho più voce. Me ne frego.
Compare Porzxia: Tu li hai mandati fuori?
Mi assumo le mie responsabilità. Sì!
E così che la Scuola va a scatafascio. Non lo fare più.
Porzxia mi vuole un bene fraterno che io ricambio
sinceramente. E’ una donna eccezionale: è l’unica che riesce a far entrare in
un’aula cento e più alunni che poi pare stiano anche larghi. Non so, penso che
si riducano, rimpiccioliscano, clonazione dei nani di Condom Rosso.
Passeggio con lei mentre i ragazzi si riprecipitano in
classe.
La campanella.
Andiamo giù.
Devo fumare- le dico.
Ti accompagno.
Fuori è tutt’un’altra cosa. L’aria è frizzante, si sta
bene. Le maccchine passano davanti il nostro Istituto sfrecciando verso la
circonvallazione. Io penso alla passeggiata a Torre a Mare, al gelato al caffè,
al pensionamento che fra poco lo Stato mi concederà e sto male.
Come cacchio farò senza tutto questo casino, come
sopravvivrò?
Porzxia condivide i miei pensieri; fuma con me senza
fumare e tossisce.
Ci raggiunge Maria Teresa Bracciuti.
L’odore della sigaretta la inebria: è la duecentesima
volta che ha smesso di fumare.
Quasi si scusa: è il medico che mi dice di smettere. La
pressione mi sale alle stelle, il cuore batte all’impazzata, la nicotina mi fa
male. Ma il cuore le batte anche ora, quasi ne avverto il battito scandito, per
il desiderio di tirare due boccate. Alla fine si decide.
Mi dai una sigaretta?
Io nicchio. Non vorrei passare per il persuasore occulto,
lo spacciatore di tabacco, il boss del traffico di bionde, ma mi compenetro e
offro la prima mela, pardon, l’ennesima sigaretta.
Maria Teresa aspira voluttuosamente sotto lo sguardo di
rimprovero di Porzxia. Poi si pente e getta via la mia non ti Merit più.
Brava!- le dice Porzxia.
Maria Teresa si asciuga le lacrime e resta a guardare le
volute di fumo che emetto dal naso e dalla bocca. Poi rientra nell’atrio.
Ti vogliono al secondo piano- dice Iolanda a Porzxia.
La vice fa un gesto di sconforto: ti lascio in buona
compagnia.
Sì, è vero, siamo stati raggiunti da Rosa e Nunzxia.
Rosa e Nunzxia insegnano rispettivamente Matematica e
Impianti, che io dico Inlacrime, discipline per me di un altro pianeta, visti i
meno due che prendevo dai miei insegnanti quando ero studente.
Poco dopo l’aria davanti l’Istituto diviene irrespirabile
per Magda Gabbimare che attua una campagna serrata contro il fumo, coinvolgendo
la maggior parte dei nostri alunni.
Ora anche i non fumatori sono fumatori.
Magda è sconsolata e accusa me e le mie socie di aver
traviato col nostro esempio i suoi giovani corsisti.
Noi ce ne freghiamo perché crediamo fortemente nel libero
arbitrio.
La vetrata sbatte. È Nicola Incazzuti, docente di disegno
tecnico. Non so perché ma ogni volta debbo contare sino a dieci prima di
pronunciare il suo cognome.
Per non parlare poi di Pompinio. Qui conto sino a venti.
Nicola è tornato dal Catasto. Si avvicina furtivo,
pensando di non essere visto, e mi abborda. Come gesto di affetto, mi uncina
una guancia che stritola nella mano a pagnottella: Chi sarà il prossimo
vicepreside?-mi chiede con aria interessata. Io, come Scalfaro, non ci sto e
restituisco il gesto affettuoso.
Nicola si sconcerta, poi si ricompone e richiede: Chi
sarà il prossimo vicepreside?
Tutti sappiamo che vorrebbe essere lui il prescelto, ma
sappiamo anche che il preside manco per il …per idea lo eleverebbe al rango di
feudatario, però non glielo diciamo.
Io nicchio, anche se penso che sarà la Santorsola a
raccogliere l’eredità di Porzxia.
Siccome sono sadico gli dico che il caput sta seriamente
prendendo in considerazione la sua candidatura, così che lo prenderà nel
boffice quando si vedrà scalzato.
Non solo, penso anche che la stessa Santorsola poi si prenderà le sue vendette,
perché anche lei è spesso oggetto degli uncinamenti del grafista.
Nicola sfodera un sorriso a tre chiostre. Fa il modesto,
dice che non è possibile, ma che non appena avrà l’incarico cambierà molte cose
nell’Istituto.
Beato lui, crede ancora nella teoria dei due soli!
Rosa e Nunzxia, per fortuna, non parlano di teoremi,
equazioni, funzioni di primo e secondo grado, né di primogenitura ma, più
umanamente, discutono di primi e secondi piatti. Anche io posso dire la mia. E
giù l’encomio solenne alle ostriche, alle noci bianche, ai datteri di mare
cercati da chi l’ha visto, alla spaghettata con vongole e
gamberetti, al ragù del macellaio, all’impepata di cozze, ai ricci
profumati da mangiare, a seconda dei gusti, col cucchiaino o con il pane appena
sfornato.
L’acquolina sta per scivolare dalle labbra quando suona
ancora una volta la campanella.
Incazzuti vorrebbe salutarmi con un altro pizzicotto,
quando individua Milenia Santorsola che viene a ossigenarsi. Le piomba addosso
come un falco e le strappa mezza guancia. E’ pazzo!
Milenia lo manda a quel paese sorridendo, ma penso che in
cuor suo gli stia facendo una fattura.
Vado in classe. Due ore in V D.
Cazzo faccio-penso- per due ore? Ho terminato il
programma, l’ho dettato, ho verificato e corretto i percorsi, ho… mi batto un
palmo sulla fronte: e le interrogazioni, i voti di fine quadrimestre, le
assenze?.
Beh, scriverò il registro, almeno non starò con le mani
in mano.
Entro in classe. La scena si ripete: nessuno che si alzi.
Sono tutti impegnati con i computer portatili.
Almeno stanno studiando- penso io.
Mi dispiace quasi interromperli.
Passo tra i banchi: scene di puro erotismo: Paperino e
Paperina che pomiciano tra lo stupore dei nipotini, l’uomo ragno che fa il
ragno con la sua bella, Ternalotto che s’intrattiene con escort seminude, Maffaccio a letto con due
trans. I più ingenui giocano mediaticamente a calcetto o si esercitano virtualmente
in sport estremi tuffandosi da duecento metri in una piscina che sembra il
bicchiere di plastica dell’espressino freddo. Ciò che li accomuna è un ooooh di
soddisfazione allorché ciascuno degli eroi digitali porta a termine il proprio
compito.
M’incazzo come un toro davanti alla rossa muleta.
Alzatevi- urlo- quando entra il docente!
Si spaventano: presi dai loro giochi non si erano neppure
accorti che ero in classe.
Si alzano e restano a fronte bassa non per la vergogna ma
per seguire le scene che mandano i cervelli elettronici. In pratica se ne
fottono.
Io faccio il solito pistolotto e ricordo loro che sono
prossimi agli esami, che la scuola non è un asilo nido, che non si viene a
scuola solo per mangiare le porcherie che propone il bar dell’istituto, che i
loro genitori si sacrificano per consentire che non sfigurino di fronte agli
altri alunni, che ecc ecc.
Sentono ma non ascoltano, hanno sempre gli occhi bassi,
poi all’unisono esplodono in un ooooh che mi manda in bestia.
Per non compromettermi esco dall’aula e passeggio per il
corridoio.
Più di cento alunni mi vengono incontro affinché firmi i
permessi d’uscita. I genitori sono tutti nell’atrio ad attenderli.
Fuori il traffico è fermo per le Maserati, le Ferrari, i
Suv e le Jeep di ultima generazione con a bordo mamme, nonni, bambini, zii e
zie pronte ad accogliere gli studenti per la gita fuori porta che hanno
programmato per il ponte del 2 Giugno.
Mi passo le mani tra i capelli, mi sistemo la vita dei
pantaloni che tendono a scendere per le decine di volte che ho scalato i piani
dell’istituto, mi accendo una sigaretta e compongo il numero di casa al
telefonino: Non aspettarmi-dico a mia moglie-vado in vacanza e fanculo la
scuola!
Respiro l’aria pura brezzata dal mare e mi avvio seguito
dalla schiera di genitori. Mi sento tanto il pifferaio magico. Il preside
s’affaccia e mi dice: dove vai, firma i permessi!
Io mostro il medio e l’indice tra cui stringo la mia
ligt.
Fumerai dopo, non sai che il fumo uccide?
Mi ritocco e lento
pede torno nell’atrio.
I registri di classe formano una pila di alcuni metri
sulla mensola della portineria. La voce di Iolanda sembra giungere dall’oltre
tomba: c’è anche un permesso d’ingresso1
Cheeee, a quest’ora, e che è venuto a fare?
E’ stato accompagnato dalla madre, dice che ha perso il
pullman.
Uno solo?- dico io, ma non replico più, sono rassegnato.
Consumo due biro a firmare permessi vari, mentre suona la
penultima campanella.
Finalmente mi rilasso., seduto alla poltroncina dell’aula
della mia Quinta.
I ragazzi hanno il viso e le orecchie rosse per l’impegno
nei giochi, sono stanchi e si rilassano anche loro. Tra poco cominceranno i
consigli di classe e so già cosa dire:.facciano cazzo vogliono, io me ne sbatto
le palle!
Mia moglie ha preparato piselli con poca cipolla: non
sanno di niente. Ingollo quattro cucchiaiate e poi mi do alla frutta. Le
fragole sono verdi e i Kiwi quasi rossi per lo stadio di maturazione.
Accendo la TV che mi fa vedere ancora Ternalotto e lo
immagino palpeggiare le escort mentre parla dei sacrifici che solo il Pubblico
Impiego deve fare, che parlamentari e ministri sono tanto indigenti da aver
bisogno che altri paghino per loro case e droghe e che solo per orgoglio non
chiedono il nome del benefattore.
Un conato di vomito mi “arrivugghia” lo stomaco.
Per fortuna il lettore passa alle notizie di cronaca ed è
quasi con sollievo che ascolto di uno che ha ammazzato padre, madre e fratelli,
li ha ridotti a spezzatino, li ha infornati ma non li ha mangiati perché è
vegetariano.
Finalmente- ho pensato- una persona coerente.
Le lancette dell’orologio scorrono veloci e il pendolo
che ho in testa mi avvisa che l’ora è vicina.
Cacchio, sono le sedici e quindici.
Mi sciacquo mani e faccia, spazzolo ciò che resta dei
miei denti e l’opera dell’odontotecnico, mi ravvio i capelli e dico ciao a mia
moglie che dorme rannicchiata sul letto
che misura quattro per quattro.
Non mi risponde e io non insisto; so, però che poi mi
chiederà perché no l’ho avvisata che andavo via.
La Stilo, la mia fedele autovettura, quella che mi ha
salvato la vita col cicaleccio di pericolo quando sei senza cintura, lei che mi
rompe le palle sin quando non m’incateno al sedile di guida, mi attende
fiduciosa giù per strada.
Di tanto in tanto rumoreggia col clacson per l’antifurto
molto sensibile all’umidità e ai gatti, ma per il resto è una brava compagna.
Che mai si sia lamentata per le tonnellate di cenere che quotidianamente spargo
sul suo pianale, vicino la cloche, sul portaoggetti, ma mai nel posacenere. E’
un fatto di principio.
Faccio per mettere in moto e mi squilla il cellulare: è
Saverio che mi chiede di portarlo a passeggio sino a scuola. Il suo nome deriva da Severus. Cultori di
semantica Mao-Mao asseriscono che potrebbe anche derivare da Serius, ma io non
ci credo, non sarebbe adatto al mio amico.
Ingrano la prima poi la seconda la terza, salto la quarta
e in quinta sono a casa sua. Il geopedologo mi attende per strada e si
lamenta perché dice che ha atteso troppo
a lungo. E’ un rito. Del resto ha la sua
veneranda età, anche se è più piccolo o meno grande di me di due anni.
Pelato, o quasi, con una cornice di capelli che gli copre
la nuca e quattro peli sul cranio che lascia crescere perché diano una parvenza
di ciuffo anni ‘60, medio corto come me, rotondetto non come me, camicia a mezze maniche, maglia
della salute, pantaloni grigi e scarpe marroni, un bozzo sulla testa che pare
la torre Eiffel, il sorriso bonario stampato sul viso ellissoide e rubicondo,
occhi grigio-verdi(ha fatto il militare nell’Esercito), Saverio è l’amico con
cui gioco al nonnetto fingendo di scarrozzarlo per la città a visitare il borgo
antico e le meraviglie del quartiere Japigia. S’infila in macchina, mi guarda
fintamente severo e poi sbottiamo a ridere come due rincoglioniti. Polifemo,
ovvero Biagio Iarnone, ci attende sul ”sagrato” e ci accoglie con la solita
domanda: a quest’ora si viene?
Sorvoliamo su quella che potrebbe essere un’oscenità, gli
rispondiamo che la moglie lo ha cacciato di casa, motivo per cui lui è già a
scuola, e arrembiamo il distributore automatico di tisane. Saverio e Biagio
prendono un caffè macchiato costellato di tanti puntini neri che sono
certamente formiche arrosto e io un cioccolato forte per accumulare l’energia
necessaria alla sopravvivenza. Non facciamo cin cin e ci dividiamo: Biagio
nella B, noi due nella D.
Ed ecco il Consiglio di classe della D. Ci sono tutti, a
cominciare dalla docente di Inglese. Marcella Insisto.ha il fisico inglese, ma
non la flemma; infatti s’infiamma. Il volto le diviene spesso rosso per la
concitazione e i capelli, se potessero, virerebbero al bordò. Ha sostituito la
collega precedente che, per “impegni vari” non era mai in classe e quindi non insegnava un quiz di niente.
Però promuoveva tutti. La Sistina (così è per gli amici), poverina, ha dovuto
cominciare tutto daccapo, per questo non appena varca la soglia delle classi,
gli alunni inscenano la morte di Cesare e
il suicidio di Marcantonio, l’unica opera di Shakespeare che conoscono
solo per aver visto il film “Le voglie di Cleopatra”. Hai voglia a spiegare che
devono saper parlare e scrivere in inglese; quelli non ne vogliono sapere,
anzi, dicono, l’inglese non è mai materia d’esame. La Sistina insiste,
s’incazza, minaccia; i ragazzi se ne fottono e desistono.
In fondo, vicino la finestra, s’è seduta Rosa Mercillo,
docente di Matematica. E’ piccolina di statura, bruna di occhi e capelli; veste
anche di bruno, ma quasi mai nero. Gli alunni la amano tanto da desiderare che
stia sempre in vacanza. Lei, invece no, non si assenta, solo alcuni ritardi tra
lo sconforto dei suoi fan che sperano in qualcosa di meglio. Vociante, alla
cattedra, c’è Nicola Incazzuti, prof. di
disegno tecnico. A seconda di chi lo chiama, cambia il prenome in Cazk il
polacco. Dei polacchi ha il colore, degli irlandesi il calore, degli eshimesi
l’apparato genitale. Sarà per questo, dicono le male lingue, che non riceve
consensi in famiglia. Dino Tangoscia è docente di topografia o rattografia o
zoccolagrafia che dir si voglia. E’ Brunetta in piccolo, soprattutto in
larghezza. Di temperamento focoso, vivrebbe mille avventure se non fosse
guardato a vista dalla moglie. E’ piccolo anche nei voti. Nunzxia Gerico
insegna Impianti, oggi Inlacrime perché tra i vari tagli previsti dalla P.I.,
dove I sta per Ignoranza, Indolenza, Indifferenza, il Ministero parrebbe intenzionato
a associarla a quella di Disegno Tecnico, con sommo gaudio di Cazk che vedrebbe
sempre più consolidata la sua permanenza nel nostro Istituto. Saverio, meglio
conosciuto come Del Ciole, è il Pantagruel
della situazione. Sempre disponibile alla bisboccia, ai pranzi
luculliani; ma di lui ho già detto. I prof di Diritto sono due: uno, la
Tansorella, che opera nella Terza e nella Quarta, l’altro, Guido Pelagatti,
docente della Quinta. Tansorella è una spilungona affabile, simpatica come
tutti i fumatori, disponibile a un lavoro leggero, non impegnativo e a saltare
qualche ora se l’orario, spesso criptico, le consente di svicolare. Guido,
invece, è di tutt’altra pasta. Prima di convolare a giuste nozze era
sorridente, disponibile, propenso alla chiacchiera, ma, da quando è solo la
metà di una mela, è divenuto uccel di bosco. Non appena può ci dà sega,
impegnandoci in un surplus di supplenze che tolleriamo solo perché è novello
sposo. Non è dimagrito, anzi, ha messo su un po’ di pancetta, segno della piena
soddisfazione dei sensi. Marco Marinetti, docente di Costruzioni,
sonnecchia con il capo spalmato sulla
vetrata della finestra. Non sai mai cosa vuole. Ti dice un sì che è un no e un
no che resta sempre no. Etimologicamente è sfortunato. Marinetti, il propugnatore
del Futurismo, fu esautorato.. Grazie alla Gelsirossi, ministro della P.I.,
anche la Santorsola ha due ore nel triennio della D. Insegna Storia in Terza.
Ha ottime chance di diventare collaboratrice, se non vicaria del preside: se
accadrà Incazzuti si suiciderà. Dopo una fase iniziale circospetta, si è
aggiunta al clan dei fumatori in aperto convivio. Ci ha incuriosito con la
richiesta della mail di tutto l’organico dei geometri. Penso che preconizzi il
suo futuro. La prof di Educazione Fisica, Katia Gianpiccolo, si appoggia allo
stipite. Pare debba sostenere l’intera struttura. L’aula le sta stretta,
abituata com’è ai grandi spazi, alle palestre luminose, ai prati verdi.
Tentenna e ci guarda come fossimo i suoi alunni peggiori, impigriti dal lavoro sedentario,
pancettati, stravaccati sulle seggiole. Un soffio di vento, in questa giornata
afosa che la caligine tinge di bianco, la scuote. La guardo negli occhi e noto un baluginio,
una voglia di darci la sveglia con il vecchio “un due, un due, passoooo!” Ma è
solo un lampo: ci riflette e si lascia cadere anche lei sul primo scranno a portata di “disturbo”. Ultimo è il corvo,
citazione dotta, ma in questo caso si tratta di don Pasquale Odorelli, per gli
intimi DVD, un longilineo pelato con pancetta clericale. E’ un santo padre,
anche se non ancora Papa. Ha capito subito che agli studenti non gliene frega
niente della religione, perciò li annichilisce con film di ogni genere, da
quelli pornografici a quelli erotici. E’ mio amico: mi ha persino offerto una
volta un cornetto con espressivo al bar Morisco. Per lui va tutto bene perché non deve mai
interrogare, anzi nella sua ora i ragazzi sono muti, solo qualche grugnito e
mani sotto il banco.
I nostri consigli hanno fatto storia: sono i più allegri,
i più compatti. Tra noi non è sorto mai uno screzio. Tutti per uno uno per
tutti. La stesura dei verbali, sino a qualche tempo fa, era epica. C’era di
tutto, dalla farsa alla pièce, dalla commedia alla lirica. Oggi siamo ci
limitiamo a registrare l’indispensabile
per timore che qualche ispettore sia preso da ictus durante la lettura.
Manca all’appello il prof di Lettere, ma quello è un caso
a parte, perché quel prof sono io. Mediobasso, capelli grigio-bianchi con
ciuffo, occhi nocciola, falso magro, sfalzino, folle, secondo gli alunni,
fumatore. Con un piede nella fossa del pensionamento, guarda con nostalgia al
passato, agli amici che è lì lì per salutare, alle “cronache di scuola” che non
avranno più il colore, il calore dell’immediatezza, al gioco della chiave, alle
chiacchierate al bar della scuola, al caffè maculato, al puzzo dei wurstel
arrosto che impregna l’Istituto sin dalle prime ore del mattino. Non appenderà
la penna, la tastiera del computer al chiodo, perché questa farà da tredunion coi ricordi da tradurre in immagini, nei
volti dei compagni, camerati volevo dire, con i quali ha condiviso vent’anni di
vita.
La
sindrome del pensionato
Ormai ne sono certo: esiste la sindrome del pensionato.
Il guaio è che io ne sia stato colpito prima di essere
collocato a riposo.
Per la verità mi è giunta una comunicazione dall’Ufficio
Scolastico Provinciale che recita: Collocamento in quiescenza per limiti d’età
dal 1° settembre 2010.
Cazzo, per limiti d’età! Mi danno già per un vecchio
rincoglionito.
E dire che sino a qualche giorno fa per lo Stato ero
estremamente efficiente, anzi, dovevo essere estremamente efficiente. Dovevo
alzarmi presto, correre a scuola in
tempo per il caffè, picchiare gli alunni recalcitranti, anche se alti il doppio
di me, trascorrere un’intera giornata
senza pausa pranzo per le incombenze varie di fine anno, essere disponibile a
presiedere agli esami di Stato a Mola sottomettendo alla mia la volontà ben otto agguerritissimi
docenti e altro ancora.
Manco il tempo di tirare un respiro di sollievo ed ecco
la sindrome subdola, traditrice, infame, dolorosa. A dire il vero, non è stata
poi così improvvisa.
Un giorno sedevo sul water… vi vedo sorridere, ma non lo
fate anche voi? O siete stitici di natura e via a ingozzarsi di marmellata
tamarine, prugne della California, Guttalax e lassativi vari? Ebbene, io non ne
ho bisogno. Puntuale come un orologio, di quelli moderni, in eterno
collegamento con le stazioni satellitari, ogni mattina lascio la parte peggiore
di me alle fogne cittadine.
Come dicevo, appunto, ero lì sul wc e leggevo un libro,
uno di quelli noir, di quelli scritti da Lucarelli, Loriano Macchiavelli e
Camilleri, che sono i miei preferiti.
Lo sguardo mi andava sempre alle lancette perché, come
sapete, per le 08.00 bisogna essere a scuola.
La vicenda, però, era avvincente, perciò dalli a leggere.
Poi la sveglia mi dà segno non della festa che viene, ma del dovere che chiama.
Cosa faccio a quel punto? Infilo un bel segnalibro alla pagina che non ho
ancora finito e passo all’operazione successiva: la carta igienica.
A quel punto è successo. Un movimento maldestro, veloce e
vroom, un lampo al fianco che mi lascia senza respiro.
Porca Eva! - grido così forte che mia moglie da dietro la
porta mi chiede cosa sia accaduto.
Niente - sibilo a mezza voce.
Altro che niente,
mi sono fregato.
Dal rotolone che non finisce mai attingo a piene mani,
opero le pulizie d’obbligo e mi trascino sul bidet. Le abluzioni riesco a farle
per forza di volontà, per abitudine inveterata, non come gli inglesi che si portano
un certo odorino addosso. Stoicamente cerco di andare sotto la doccia, ma è
un’impresa ardua e rinuncio.
Mia moglie bussa ancora: Che ti è successo? Apri!
Magari potessi - dico fra me.
Do uno scatto imperioso, la schiena fa crak e mi tiro su.
Il colpo della strega - e guardo mia moglie.
Che intendi dire? - mi chiede offesa.
Ho il colpo della strega, mi fa male il fianco, non
riuscivo ad alzarmi.
Mia moglie non parla, va nell’armadietto dei medicinali,
prende una siringa, una fiala di voltaren e una di muscoril.
Scopri il sedere! - mi intima.
E il
disinfettante? - chiedo io.
Lo prendo.
E il cotone idrofilo? - Insisto cercando di allontanare
il più possibile il momento del buco.
E sì, perché io ho le natiche suscettibili. Sin da
ragazzino, non è un fatto di mo’, volevo dire recente.
Le infermiere si rifiutavano di infilarmi l’ago nel
boffice perché puntualmente l’ago si deformava. Qualche volta s’è pure
spezzato. Per questo tento di evitare le punture.
Ma che vuoi fare, quando mia moglie assume l’aria della
signora Rottermaier bisogna obbedire.
Io, che ho faticato tanto a tirar su i boxer della mia
nereria intima, ora debbo nuovamente abbassarli.
Mia moglie capisce il dramma che sto vivendo e mi aiuta.
Le mie natiche fanno il ballo di San Vito.
Stai fermo, per favore - mi sgrida la mia dolce metà -
non posso infilarti se continui a muovere i muscoli in quel modo!
E che, sono io? - le rispondo - quelli fanno tutto da
soli!
Come Dio vuole, l’alcool addormenta un po’ la parte e
zac… l’ago si torce.
Te l’avevo detto - digrigno io - meglio una pillola.
Mia moglie non demorde. Quasi stesse facendo una gara
contro il tempo, cambia ago e zaaacccc.
Questa volta l’ago ha quasi raggiunto l’osso. Soffoco per
orgoglio maschile l’urlo di dolore che manco Carlo Alberto e mi arrendo. Il
liquido che impregna il gluteo, quello dx, sembra non finire mai.
Ancora? - Chiedo.
Che vuoi, è lunga - mi risponde - sono due fiale in una!
Un leggero tremito percorre la gamba sin quando non
termina l’operazione.
Mettiti a letto!-
intima mia moglie.
Non posso, oggi c’è consiglio di classe e poi ricevimento
dei genitori.
Tu sei pazzo.
Ci salutiamo così: lei alla sua e io alla mia scuola.
Di lì in poi le cose sono andate in modo accettabile: mi
svegliavo un po’ rigido, iniezione tragicomica, poi camminavo e sembrava che
tutto fosse passato. Dico sembrava perché, il mattino successivo, punto e
daccapo, sino a che la goccia non ha fatto traboccare il vaso.
L’esame di maturità.
In segreteria mi avvisano: che culo, sei presidente a
Mola!
E beh’- m’informo.
Come e beh, non devi fare un cazzo e sei pagato!
Tutta invidia, fossero venuti a Mola con me!
La scuola è bella, è un edificio antico, vicino al
lungomare, ma dal lungomare non si può andare perché ci sono lavori in corso.
Allungo e mi trovo in una via a solo accesso pedonale. In fondo c’è l’istituto.
Parcheggio non in zona blu sennò devo pagare un frego di
soldi e mi avvio.
Svraang, una vettura quasi mi arrota. Cazzo, com’è
possibile, di qui le macchine non devono passare!
E invece no, cavolo se ci passano!
Ci scommetto che se lo faccio io subito un vigile mi
eleva una multa stratosferica.
Riprendo il cammino.
Minchia, com’è sconnessa questa strada! Non demordo e
raggiungo la sede d’esame.
L’ausiliaria mi viene incontro nell’androne. Mi presento.
Mi fa del lecchinaggio e mi invita a recarmi al primo piano dove mi aspetta la
vicaria della preside.
Chiedo dell’ascensore. Non c’è.
Minchia! Le scale sono costituite da gradini di circa
trenta cm ciascuno e sono tante. Ci vorrebbe la teleferica.
Chiedo alla mia sciatica di fare la brava. Manco per il
cazzo.
L’anca comincia a pregarmi di non fare lo stronzo, di far
mettere in moto il seggiolino per handicappati, che quello c’è.
L’orgoglio mi dice fanculo. E salgo.
Mi accoglie, quando sono in un bagno di sudore, una
ragazza tutta pimpante: sono Maria, la vicepreside - mi dice.
Piacere – annaspo - Nick.
Non do a vedere la mia sofferenza, sennò che cazzo d’uomo
sarei!
Per dieci giorni si ripete la manfrina.
I colleghi sono tutti giovani e pieni di salute, eccetto
una, la docente di Educazione Fisica che ha una broncopolmonite. Almeno così
dice.
La libero il più presto possibile e la mando a casa.
Raccolgo simpatie per questo gesto magnanimo.
Aboliamo il presidente - dico in assemblea plenaria -
siamo colleghi.
Che cazzata, ciascuno comincia a fare i fatti suoi.
M’incazzo e nomino due vice presidenti.
Le cose cominciano a filare.
Faccio presente che non voglio rotture, perciò sono
intenzionato a promuovere tutti a meno che qualcuno dei candidati non si affossi
da solo. Tutti d’accordo? Ok? Ok.
I giorni corrono, io un po’ meno.
Chi non corre è il tecnico di laboratorio, uno sfalzino
di prim’ordine.
Per agevolare il lavoro dei segretari di commissione e il
mio, chiedo a Franco, il tecnico, di scaricare il programma Conchiglia.
Cacchio, questo non sa manco che esistono le ostriche,
figurati le conchiglie!
Gli dico di rivolgersi alla segreteria della sede
centrale che lì, certamente, saranno in grado di indirizzarlo.
Lui nicchia. Io ammicco. Telefona.
All’apparecchio, dall’altro capo, c’è una testa di quiz.
Dice che manderà un fax.
‘Sto fax non arriva e io decido per il tradizionale.
I segretari scrivono e si lamentano: quello non capisce
niente.
Condivido, ma non posso che constatare.
Scriviamo tonnellate di pagine che non leggerà mai
nessuno.
Il tecnico se la gode con la 104 per madre inferma,
perciò si deve assentare.
Come se fosse stato mai presente!
Lo mando a quel paese.
Poi cominciano le prove scritte.
L’agente Sovrini, stranamente cuneese, si presenta col
plico delle tracce.
Chiamo Maria, la vicaria, perché occorre la sua firma.
Cerca Maria, trova Maria, Maria non c’è, o meglio, è al
bar per un caffè.
Sovrini s’incazza, deve consegnare le tracce a altre due
istituti.
Lo prego di non scaldarsi. Ora verrà-gli dico.
Chiamo Teresa, una collaboratrice e la mando al bar.
Non tornano né l’una, né l’altra.
Sovrini si scoccia, lascia le tracce e se ne va.
La faccia venire a firmare in ufficio-mi dice avviandosi
per le scale.
Finalmente consegno il plico in presidenza e sono libero.
Libero un cazzo, dal giorno dopo cominciano le dolenti
note.
Cavolo, tutt’a un tratto non gliela facevo più a stare in
piedi: il nervo sciatico e le due ernie che sono solo mie avevano deciso di
ricordarmi che ero in odore di pensione di vecchiaia.
Ma come, da un giorno all’altro? Ieri giovane, forte,
sicuro, ben piantato sulle tre gambe e oggi, acciaccato, accasciato, infermo,
schiacciato dal peso degli anni anagrafici che si sono accumulati sulle mie
spalle.
Non è giusto!
Io sostengo che sia una grande carognata! Immagino i
volti di Brunetta e Berlusconi, senza dimenticare Sacconi. Chissà quante risate
si farebbero a vedermi immobilizzato proprio nei miei ultimi giorni di
servizio.
Ma torno a me e lascio perdere quei signori. Come dicevo,
sono azzoppato.
Per fortuna non sono un cavallo, altrimenti mi avrebbero
già tirato un colpo di pistola in testa
per farmi finire il più velocemente possibile in un ragù del macellaio.
Sarà, ma io penso che questa sia la sindrome del
pensionato.
Il dio
Del Sole
Era una tranquilla domenica d’agosto.
“I bimbi, sulla spiaggia, in frotta”(eccetto spiaggia,
tutto il resto lo dice Giacomino Leopardi), facevano un casino d’inferno.
Una pallonata mi colpì in pieno volto e caddi “come corpo
morto cade”(questo, invece lo dice l’Alighieri),sulla sdraio che dopo una lotta
senza quartiere ero riuscito a piazzare in prima fila.
La nebbia che mi aveva avvolto m’impediva di scorgere il
colpevole, per cui, senza volere essere blasfemo, bofonchiai con voce
nasale:”Sinite parvulos venire ad me”, che glielo faccio quadrato.
Mia moglie, che spaziava con lo sguardo sulla rena,
m’invitò a riflettere e ad abbandonare le idee bellicose.
Così, nel frastuono, sotterrai l’ascia di guerra non tanto per l’esortazione
della mia metà, quanto per l’avvicinarsi di un tizio nerboruto, alto due metri,
tatuato sin sulle unghie, che aveva ascoltato le mie parole e rispondeva, per
stato di famiglia, a procreatore del piccolo delinquentello responsabile della
incrinatura del mio setto nasale.
Gli porsi umilmente le mie scuse, mentre nel mio Io lo
mandai affanculo.
Compiacente, si allontanò.
Imprecai contro la natura matrigna (ah, Giacomino, quanto
avevi ragione!) che non mi aveva fatto di due metri e dieci.
Il cielo, che sino a quel momento era stato terso e
sereno, prima si fece le…, pardon, a pecorelle, poi a tori ed, infine, a rullo
compressore col motore a mille.
Caddero le prime gocce di pioggia e tutti fuggimmo sotto
le tettoie delle cabine.
Approfittai della confusione per mettere lo sgambetto al
furfantello, figlio del procreatore, che andò a sbattere il naso contro la
porta dei servizi igienici.
Il padre mise una taglia sulla mia testa.
Il brontolio del tuono fece tanta aria da dissolvere le
nubi e tornò il sereno(non mi ripeterò).
Gli ombrelloni rivariopinteggiarono nel cielo azzurro e
il mare riprese il suo colore innaturalmente rosa-ocra per le miglia di membra
che agitarono le sue acque.
Fu allora che la spiaggia ammutolì.
Cacchio, se ammutolì.
Anche le onde si
trascinarono mute sulla sabbia e un gabbiano picchiò il suo cucciolo in testa
per invitarlo a smettere di pigolare.
I natanti e i galleggianti subirono il blocco immagine con
sfarfalleggiamento del video e tacquero in assorta contemplazione.
Ecce homo!
L’astro riflesse misticamente la luce sulla pelata e
dette luogo ad una aureola tinta dei colori dell’arcobaleno.
L’ombrellone a mo’
di scettro, il passo fermo, sicuro, avanzò tra i bagnanti salutando con la
sinistra.
Petali di rose anticipavano il suo cammino.
Una torma di uomini e donne lo seguiva a distanza, per deferenza.
L’occhio da predatore, individuò il territorio e lo tenne
per suo segnandolo come fa il cane dominante.
Guardò fisso negli occhila sua donna che ebbe un
sussulto.
Non una parola, non un gesto per il comando: solo uno
sguardo.
La donna del capo prese il badile e lo lanciò al giovane
proselita.
La sabbia fu smossa con
violenza e la voragine fu pronta ad accogliere il fusto
dell’ombrello parasole.
Il proselita s’inginocchiò, baciò i piedi del suo signore
e porse l’asta.
Lui con mano ferma conficcò il “telum” nella sabbia che
spruzzò scagliette dorate.
Le donne della spiaggia, quasi sospirando, lanciarono un
ooohhhh che fece tener basso lo sguardo alle pudiche.
Lui le guardò, ne scelse una e starnutì una, due volte.
La tipica eruzione del…
Il desiderio traspariva dall’occhio fiero e da altro che,
pur evidente, non posso evidentemente dirvi.
“Padrino- invocò il marito della prescelta con i cinque
figli al lato- risparmiala, è vergine ancora!
Il dio Del Sole (penso l’abbiate capito che proprio di
lui si trattava) assentì bonario e gli portò via la suocera che era un tocco di figliola più della
figliola.
“Mamma,-pianse la “bambina”, arraggiando una canzonetta
degli anni 30- tu prendi i balocchi soltanto per te!”.
E di un balocco, in fondo, si trattava…
Day
Hospital
Le 7.30 di un mattino d’inverno.
Fuori fa un freddo cane.
La stilo di Saverio è ferma vicino il cancello della mia
abitazione.
Lui è tutto imbacuccato. Una coppola grigia giù sino agli
occhi, la sciarpa di lana blu come l’impermeabile imbottito, pantaloni di
velluto e stivaletti marroni.
Penso che abbia anche camicia, maglione e giacca, ma non
li vedo.
Salgo in macchina al richiamo del clacson. Dentro c’è un
bel calduccio: Saverio ha avviato il climatizzatore che ora, all’interno, dà
circa 28 gradi. Fuori la temperatura ne segna appena 2.
Lo saluto. Il vapore esce dalla mia bocca e appanna il
parabrezza: ciao, socio, andiamo!
Saverio non mi risponde e dà di gomito sul vetro; termina
l’operazione e sorride sornione: quante ore avevi oggi?
Cinque… e tu?
Cinque – mi risponde felice.
La Stilo corre veloce per i viali della città ancora
assonnata.
Un ciclista si ferma al semaforo dove c’è un giovane che
distribuisce City.
Ci fermiamo anche noi e chiedo due copie. Tanto – penso –
avremo tempo per leggere.
Riprendiamo il percorso verso il Policlinico. Chissà se
ci faranno entrare.
L’accesso, infatti, è vietato ai veicoli privati.
Proviamo al primo ingresso. Ci rimandano indietro.
Al secondo mi sdraio sul sedile con un fazzoletto premuto
sul naso.
Prontosoccorso! – grida il mio socio.
Ci fanno passare.
L’area che occupa l’ospedale consorziale è immensa,
eppure pare che non ci sia un buco per parcheggiare.
I posti per gli invalidi superano di un buon cinquanta
per cento quelli per gli addetti ai servizi.
I primari hanno tre metri quadri ciascuno per i SUV
parcheggiati a cazzo di cane.
Giriamo indolentemente per una ventina di minuti; stiamo
per arrenderci quando un mezzo dell’Amniu si stacca dal marciapiede: è fatta.
Saverio nota che si tratta di un parcheggio riservato
alle autorità. Gli faccio notare che siamo Collaboratori del Preside. Più
autorità di questa…
Saverio annuisce: è vero, non ci avevo pensato.
Ora dobbiamo cercare il centro dell’Ipertensione.
Cacchio, ce ne sono sei! – ci dice un infermiere.
Quale sarà quello
giusto?
Padiglione Chini, ci suggerisce una suora nero vestita.
Andiamo!
Nella portineria non c’è nessuno. Una vecchietta seduta
sui sedili di legno marrone snocciola un rosario perché compaia un dottore che
le indichi il gabinetto d’analisi.
Giriamo come automi nel deserto più assoluto.
Finalmente un essere umano!
Lo abbordiamo. E’ un anziano infermiere. Vuol essere
coccolato. Si lamenta con noi del lavoro stressante cui è sottoposto a un anno
dalla pensione. Gli dolgono le gambe e i piedi e sente freddo sotto il naso per
i baffi che sono due ghiaccioli.
Gli suggeriamo di tagliarseli, ma lui ci guarda storto –
è un voto per la squadra del cuore.
Finisce l’idillio.
Ci manda affanculo senza darci l’informazione.
La tensione è diventata ipertensione. Si affetta come una
ricottina quando ci rendiamo conto che sono le otto e non abbiamo la più
pallida idea di quale sia la nostra meta.
Saverio batte i denti, io le mascelle. Che cazzo di
freddo proprio oggi!
Ci pare un miraggio ma non lo è: è un dottore in carne e
ossa che ci viene incontro tirando come un forsennato lunghe boccate a una
sigaretta slim sul punto di spegnersi.
Facciamo per chiedergli, ma lui ci precede: una sigaretta
vera e sarò vostro schiavo per tutta la vita.
Con un sorriso largo quanto la Stilo di Saverio tiro
fuori il pacchetto delle Marlboro Light.
Il medico lo guarda concupiscente e tende la mano.
Alto là – dico io – prima l’informazione!
Tutto ciò che vuole.
Il centro d’ipertensione.
Ma ce ne sono sei!
Noi vogliamo il nostro.
Mi dia un indizio – dice sofferente il cerusico e non
muove lo sguardo dal mio pacchetto.
Siamo ipertesi.
Anch’io – e brandisce lo stetoscopio.
Siamo ipertesi – ripeto – ma non tanto da darle le
sigarette senza una contropartita.
Capisco. Oltre l’ipertensione cos’altro accusate?
Freddo.
E’ normale. Ma parlatemi dell’anormale.
Guardo Saverio.
Anche il seguace di Ippocrate lo fissa dritto negli occhi
e: Neurologia. Dite che vi mando io.
Se mi dice il nome…
Se mi dà il pacchetto…
Ci guardiamo con sospetto, poi concordiamo. Scambio mano
bocca.
Pronuncia Poniello mentre gli scivola nelle mani il
pacchetto di Light.
Saverio apprezza il mio sacrificio e mi dice che quando
usciremo, se usciremo, contribuirà all’acquisto di un nuovo pacchetto.
Glielo faccio giurare.
Lui giura.
Andiamo in Neurologia – dico tranquillo.
Sì, ma dov’è? Replica Saverio.
Con uno scatto di reni recupero Poniello che sta tirando
come un drogato.
Dice di seguirlo, tanto è lui il primario.
Divento cortese soffocando il desiderio di soffocarlo
(cazzo, non poteva dirlo prima?) e gli offro un altro pacchetto di Light, tanto
ne ho una scorta in macchina.
Sorride felice e aspetta che ci raggiunga Saverio.
Il tragitto è breve. Una costruzione a cinque piani ci
mostra le finestre illuminate al neon.
Il cielo è color grigio lupo.
L’indagacervelli si ferma: andate avanti – ci dice – io
me ne faccio un’altra.
Se ci fermano?
Poniello, dite Poniello.
Poniello è primario del quinto piano.
L’ascensore non funziona. L’unico a scassare i timpani
col suo rumore di ferraglia ha bisogno della chiave.
E’ il turno di Saverio: si porta il fazzoletto al naso e
finge di perdere sangue.
L’ambulanza lo porta al Pronto Soccorso.
Io tallono la vettura con il fiato a metà. Ho vinto il
freddo: sudo.
Finalmente l’autista si ferma e tira fuori la barella su
cui è il mio socio; lo distraggo mentre Saverio prende la fuga.
Siete due pezzi di merda! – ci grida il dipendente
sanitario.
Ma a noi non ce ne frega un cazzo.
Poniello sta appallottolando il primo pacchetto quando ci
ritroviamo davanti a Neurologia.
Come mai ancora qui?
Col fiato corto gli rispondiamo che abbiamo voluto
aspettarlo, per delicatezza.
Bravi, andiamo.
Lui ha la chiave e saliamo. L’ascensore si ferma al terzo
piano.
Il primario ci spiega che la tromba delle scale al quarto
e al quinto si restringe e la cabina non
passa. In pratica, bisogna farseli a piedi, gli ultimi due. I gradini misurano
ognuno mezzo metro. Poniello tira, noi non molliamo, gli stiamo dietro. Se
fossimo nel presepe Gesù bambino avrebbe un caldo d’inferno.
La sala d’attesa è gremita. I pazienti, eccetto uno che
sorride con ghigno diabolico, hanno il volto sofferente e si tengono con il
destro il braccio sinistro. Un batuffolo di cotone impregnato di sangue poggia
sull’incavo, dove è stato fatto il prelievo.
Siamo gli ultimi ma al tempo stesso i primi.
Varchiamo la soglia del gabinetto d’analisi. Ci stoppa
un’infermiera. Niente più analisi per oggi: la dottoressa è stata ricoverata in
ortopedia.
Ne capiamo il motivo.
Ci raggiunge una dottoressa giuliva. Sorride non appena
ci scorge e ci domanda: i raccomandati?
Saverio ed io ci guardiamo: E da chi?
Ma da Poniello. Vi adora! Su, venite facimm’ ambress’.
Per una volta al di là della cattedra, la dott. ci
sottopone a un fuoco di fila di domande
su tutta la parentela.
Ma non si può fare i cazzi suoi? – penso.
Mi ha letto nel pensiero: È per l’anamnesi, sussurra e
scodinzola.
Entra lo psicologo, ci guarda e dice: ora siete miei,
andiamo!
Il suo è un bugigattolo con una finestra, una
scrivania, una poltroncina (per lui) e
una sedia per noi.
Ci accomodiamo occupando mezzo sedile ciascuno.
Il dott sorride: no, uno per volta.
Facciamo la conta: tocca a me.
Mi racconta una storiella che devo tenere a mente per
riassumerla, cosa che mi accingo a fare.
Invece no, più tardi! Ora devo leggere in fretta alcune
lettere con grafica colorata in cui, ad esempio, il verde è scritto in rosso,
ed io devo leggere rosso e non verde. Che casino! Ma io, che son un gran casinista,
nel casino mi ci trovo e le azzecco tutte.
Per ultimo affrontiamo il discorso sul pisello. Cazzo,
vuol sapere se è ancora attivo! Gli racconto una mezza bugia. Sto per andar via
quando si ricorda della storiella. Mi accorgo che manco lui se la ricorda e
gliene invento una di sana pianta.
Dice che va bene, che sono attivo più di un vulcano
spento.
Mi sta prendendo per il culo.
Poi tocca a Saverio e giù altre cazzate.
Torniamo da Giuliva (per distinguerla). Ci fa spogliare,
chiede la nostra altezza (spariamo cazzate), misura il nostro peso, la massa
magra (a Saverio solo quella grassa), la pressione al braccio. Ci fa distendere
su un tavolaccio, in canottiera, e c’incatena con quattro misuratori ai polsi e
alle caviglie.
Fuori il freddo si fa sempre più pungente, mezzi nudi lo
avvertiamo anche noi.
Finalmente ci
rivestiamo quando la pelle è lì lì per assumere il colore bluastro.
Ci attende una dottoressa dall’aria svogliata: Siete voi
che dovete fare l’elettrocardiogramma?
Un sì ugulato all’unisono accende di cupidigia gli occhi
della seguace di Ippocrate: spogliatevi!
Come, ancora?
E se no come vi faccio l’elettro?
Anche i pantaloni? Azzarda Saverio.
Se ha il cuore nei reparti bassi, anche quelli.
Il freddo continua a farsi sentire e la nostra pelle si
ritinge di blu.
Avanti il primo!
Tolga anche la canottiera!
Virilmente obbedisco.
Si distenda sul lettino!
Cazzo, voglio vedere se Garibaldi avrebbe continuato a
dire Obbedisco.
Torno subito – mormora la cardiosotutto.
Torna dopo dieci minuti, quando io sono ormai un lombo
refrigerato.
Su, che non è niente, non tremi!
Mi scuso. È per il freddo.
Aah!...
Mi poggia gli elettrodi un po’ dappertutto.
Le ventose sembrano refrattarie alla mia pelle, per il
sottile strato di ghiaccio che la ricopre.
Massaggi il torace
e le caviglie! Ecco, bravo, così!
Torno rosato come un porcellino appena nato.
La macchina segna battiti e sbalzi sulla carta pseudo
pergamenata.
Attenda qualche secondo…
Fa non so cosa, poi torna e: Si rivesta!
Gongolo al pensiero che Saverio subirà lo stesso
martirio.
Invece no! Cazzo che fortuna ha quell’uomo!
In quattro e quattrotto ha finito e, a sfottò, mi sorride
col medio alzato.
Torniamo in sala d’attesa.
Giuliva è contenta. Ci guarda e dice: Lattanzi alla
schermografia, Del Sole all’ecocardiogramma.
Da buon fumatore guardo sempre con sospetto alla
trapanazione radiografica. Saverio, invece, è preoccupato per questo nuovo
esame cardiologico.
Ci guardiamo, poi decidiamo di confortarci a vicenda.
Lo accompagno. Il padiglione Chini è questa volta quello
giusto.
Ormai lo conosciamo bene. C’inoltriamo nel deserto.
Cacchio, è diventata l’unica carovaniera. Ci facciamo
largo tra le spinte che riceviamo e
ricambiamo, sino alla stanza del dott. Iacovo. Un pigolio intenso trasuda dalla
porta d’ingresso. Siamo in un pollaio industriale.
Il cigolare di uno stipite ci mostra il volto
incartapecorito di un camice bianco.
Chi è Del Sole?
Saverio si toglie la coppola e si fa avanti.
Venga!
La porta si chiude.
Non so cosa avviene in quell’alcova ovipara, certo il
tempo trascorre senza che Saverio ne venga fuori.
Decido all’istante: rompo gli indugi e mi reco nella sala
blindata delle radiografie. Tanto siamo nello stesso padiglione. Ci
ritroveremo, dove non so, ma un giorno…, il dottor Zivago insegna.
Un tecnico con una cicca spenta tra le labbra è
appoggiato indolentemente a uno stipite.
Farò presto – penso.
Mi vede, mi chiede se corrispondo al nominativo che gli
hanno citofonato e mi dice di attendere. Tornerà subito.
Aspetto pazientemente per un buon quarto d’ora. Eccolo
che torna.
Allora, è pronto?
Da sempre rispondo.
Bene, si spogli, tolga il maglione, la camicia, la
canottiera…
La pelle anche?
Le piace scherzare – mi dice mentre appoggio la spalla
nuda su una lastra metallica. Un brivido mi fa rizzare… i capelli.
Fermo, così, non respiri!
Non respiro. Cazzo, ma quanto tempo ci mette a scattare
la foto.
Sono in apnea da un bel po’, con il volto che nello
sforzo di trattenere l’aria è diventato rosso come una mela Star quando mi
consente di rimettere in funzione i polmoni.
Il mio è più un lamento, un sospiro liberatorio che un
ampio respiro.
Centellino l’aria
che vaporizza in effetto condensa.
Ora di profilo con
le mani sul capo!
Ho visto molti film polizieschi, per cui mi è facile
obbedire.
Non respiri!
Cacchio, spero che questa volta non se la prenda tanto
comoda.
Speranza assurda più che vana.
Chiedo, finita l’operazione, quale sia la camera di
decompressione.
Allora le piace proprio scherzare! – mi ghigna il
tecnico. – Attenda, che le dico .
Attendo e non mi dice. Entra ed esce dalla stanza mordicchiando la cicca e
sbattendosene della mia ansia.
Lo attendo al varco e l’abbordo: e allora?
Tutto normale.
Questa volta mando un lunghissimo respiro di sollievo. Si
forma una piccola nube che poi si scarica in una pioggerellina marzolina.
Torno in cardiologia. Di Saverio non c’è traccia. Busso.
E’ qui Del Sole?
Silenzio.
Ripeto: il prof. Del Sole è ancora qui?
Si riaffaccia l’incartapecorito: lei chi è, un parente?
Vent’anni d’amicizia mi hanno reso tale.
Sì, il gemello!
Attenda, sta rivestendosi.
Torna il pigolio intenso, si ferma, riprende, poi
Saverio.
E’ rosso come un peperone della Cajenna, ma sorride:
Tutto a posto. Ora andiamo alla radiografia.
Già fatto – dico soddisfatto – anche a me tutto a posto.
Giuliva ci attende. È il momento dell’olter.
Rassegnati, Saverio ed io, senza aspettare che ce lo si
dica, entriamo nella saletta olter e ci togliamo giacca, maglione, camicia e
canottiera.
Per il mio socio l’operazione è più lunga perché indossa
la maglia della salute che ha un giro collo strettissimo.
Lo aiuto e gli scompiglio quei quattro peli che gli circondano la nuca. Lui
si passa una mano sul capo quasi a volersi ricomporre.
L’olter è una macchina rettangolare delle dimensioni di
una compatta fotografica. Ha un orologio interno che segna le ore e poi chissà
quale diavoleria che registra le pulsazioni cardiache e la pressione arteriosa.
Posizionata in una custodia di materiale sconosciuto, è
dotata di una cintura da allacciare in vita, una fascia misuratrice di
pressione collegata al marchingegno da un lungo tubicino cavo, che passa intorno al collo a mo’ di collana.
Il posizionamento non sarebbe sgradevole se fosse
disposto in stagione primaverile o estiva, ma col freddo che tira ti fa
accapponare la pelle che ormai degrada dal blu violetto al grigio topo. E’
necessario, infatti, una volta messo a mo’ di cilicio, resettare il piccolo
computer di cui è dotato e riavviarlo dopo due o tre tentativi andati in buca.
Giuliva ci raccomanda: Quando sentite che il bracciale si
gonfia e diventa tanto duro da farvi dolere il braccio, chiamatemi, così
verificherò che tutto funzioni al meglio.
Detto questo, si avvicina a Saverio, lo circonda con le
braccia per sistemare in vita la cintura reggente.
Il mio socio è immobile come un fuso.
Poi è il mio turno.
Giuliva mi si avvicina, mi circonda con le braccia e io
sento il profumo dei suoi capelli lavati di fresco e shampati di buono.
So che il bracciale comincerà immediatamente a
funzionare.
Ora fermatevi nella sala d’attesa e, non fatevi scrupolo,
chiamatemi!
La mia previsione non falla: non appena mi seggo sento il
bracciale pompare.
Saverio mi dà di gomito: anche a lui.
Il bracciale stringe in modo sorprendente, tira i tendini
del braccio sinistro, ne rattrappisce le dita per il formicolio intenso che
procura alle falangi e per il sonno in cui è caduto il muscolo estensore del
carpo in visita a sua sorella.
Ancora una volta virilmente non emettiamo un solo
lamento, confortati come siamo dal sorriso di una suorina che ci siede accanto.
Quando il dolore diviene più acuto, però, ci alziamo e
bussiamo alla porta di Giuliva: dottoressa- sussurriamo – è gonfio è duro e ci
fa male.
Giuliva non risponde.
Con discrezione riproviamo con un filo di voce:
Dottoressa, ci fa male, è gonfio e duro.
Ma la nostra tutrice deve essersi addormentata: la porta
resta chiusa.
A quel punto, perso ogni ritegno, gridiamo univocamente:
Giuliva, è duro, gonfio e ci fa male.
La suora ci guarda sconvolta, si alza e va a
rincantucciarsi, in diagonale, nell’angolo opposto a quello che occupiamo noi.
Anche gli altri pazienti in attesa di essere visitati ci
mostrano il loro disprezzo indirizzandoci severe espressioni verbali di
rimprovero.
Saverio ed io inebetiamo.
Cosa cacchio vogliono questi stronzi! Non lo sanno che
poi verrà il loro turno?
Giuliva apre rapidamente la porta. Nello sguardo c’è un
rimprovero frenato solo dall’essere raccomandati dal suo capo. Ci fa entrare
nella saletta, controlla senza dire una parola lo stato delle nostre braccia.
Si rende conto che qualcosa non va. Resetta il tutto, ci inviata a tornare
nella sala d’attesa e ci raccomanda: Non urlate, non parlate, bussate soltanto,
date tre forti colpi e vi aprirò.
Nella sala d’attesa tutti i pazienti sono raggruppati in
fondo. Al nostro apparire si raccolgono ancor più. La suora ci mostra il suo
biasimo non degnandoci di uno sguardo.
Ora il marchingegno va bene. Lo comunichiamo a Giuliva
dopo aver quasi sfondato la porta.
Torneremo domani per il prelievo e per l’estolsione dell’olter.
La mia Itaca
Sono trascorsi diciannove mesi,
ventisette giorni, otto ore, venti minuti e quarantacinque secondi da
quando ho messo piede in Istituto l’ultima volta come docente.
Oggi mi sono sentito come Argo quando rivede Ulisse. Non ho scodinzolato
solo perché mi manca la coda.
Iolanda ci ha accolto col solito sorriso: Ma volete andarvene al
giardinetto? Cosa cacchio fate ancora qui?
Io ho nicchiato e le ho detto che ci mancava la sua cordialità.
Saverio, invece, non l’ha proprio considerata e ha chiesto subito di
Francesca perché aveva urgenza di qualche fotocopia.
La sua frequentazione, infatti, non è completamente disinteressata. O ha bisogno delle fotocopie o del preside, o di Luigi, un applicato di segreteria a cui chiedere le graduatorie di Chimica. Altri motivi possono risalire a incontrare Biagio Iannone, con cui intrattiene una relazione illecita, o Cianciotti, a cui ha intenzione di vendere la roulotte.
La sua frequentazione, infatti, non è completamente disinteressata. O ha bisogno delle fotocopie o del preside, o di Luigi, un applicato di segreteria a cui chiedere le graduatorie di Chimica. Altri motivi possono risalire a incontrare Biagio Iannone, con cui intrattiene una relazione illecita, o Cianciotti, a cui ha intenzione di vendere la roulotte.
In lontananza c’intravvede il preside che ci fa un cenno di saluto:
-Non andate via che prendiamo un caffè.
Poi si chiude nelle sue stanze.
Io ho fretta, c’è Tex a casa che mi aspetta. Tex è un Border Collie bianco
e nero. Il nero ce l’ha soprattutto nell’animo. E’ un ladro ipocrita piagnone
vendicativo. Se lo porti a fare i servizietti lo devi imbottire di biscottini,
altrimenti ti irrora le scarpe e si lamenta come se la pipì gliela avessi fatta
addosso tu.
Entriamo nell’ufficio di didattica. Tutti ci accolgono con cordialità:
-I pensionati non possono entrare, non fanno più parte della scuola. Voi
due, in particolare, dovete fermarvi di fronte al cancello e salutarci a cenni,
come fa la lettrice del telegiornale dei sordomuti.
Io recepisco e tiro fuori il mio medio che non ha nulla da invidiare alle
mani affusolate della di prima.
Passiamo davanti all’ufficio di Luigi l’altro, cioè il segretario:
-Ma sempre qui state? Non ci avete niente da fare a casa?
Nel frattempo ci viene incontro Francesca, sotto il carico di fotocopie per
Saverio. Ha i muscoli facciali e delle braccia tesi allo spasimo per lo sforzo.
Le fotocopie strabordano da ogni parte, qualcuna cade per terra. Francesca si
china a raccoglierle e succede il finimondo. Il corridoio delle segreterie è
invaso da una montagna di carta che se passa il proprietario delle cartiere
Favia ne fa uno stok.
Invece passa il prof Favia che ci rinfaccia ancora gli orari degli anni
passati e ci ricorda che glielo abbiamo sempre messo nel boffice per tutti i
buchi del suo orario.
Finalmente un sorriso. Milenia e Nunzxia ci vengono incontro e ci invitano
al bar. Noi diciamo che sì ci vogliamo andare ma che stiamo aspettando il
preside che ce l’ha proposto un’ora fa.
-Ma allora è in bagno- ci informano le due gentili- se aspettiamo lui suona
l’ultima campanella!
Conveniamo. Un’ondata di ricordi si affolla nella mente.
Il bagno privato del preside è tra due segreterie, la didattica e quella
del personale.
Un giorno Valà ci annunciò che aveva due impellenze, andare in bagno e un
appuntamento col sindaco. Ci salutò e ci affidò l’istituto, come faceva quando
era assillato da vari impegni.
Saverio e io, al soldo di Porzxia, vacanzeggiammo. Niente in classe, niente
incombenze didattiche, ma solo lunghe passeggiate nei corridoi più che a
sorvegliare a sfotticchiare i colleghi che avevano lezione, a parlare di
ricette e manicaretti con Rosa e Maria, a fumare sul sagrato, io sì Del Cozo solo a aspirare voluttuosamente il fumo
passivo.
Al suono dell’ultima campanella facemmo uscire gli alunni, salutammo i
bidelli e li avvisammo che potevano tranquillamente chiudere la scuola perché
l’orario di lavoro era terminato.
Alle tre meno un quarto, per i fissati le quattordici e quarantacinque,
mentre stavo lottando col mio cane per avere una buona digestione, fui
interrotto da uno squillo sul cellulare.
Mi avete imprigionato!- urlava Valà – venite subito a liberarmi.
Io caddi dalle nuvole:
- Scusi preside, ma dove si trova?
-Come dove mi trovo, a scuola!
-E che ci fa?
-Che ci faccio? Questo è il mio posto.
-Ma non doveva andare dal sindaco?
-Ho rinviato l’ appuntamento per… per problemi urgenti.
-Cazzo- pensai- vuoi vedere che questo è stato a cesso per otto ore?.
-Provvedo- e chiusi la comunicazione.
Telefonai a Saverio. Mi rispose la moglie. Saverio era all’associazione dei
campeggiatori di cui è presidente.
-Anche il preside l’ha cercato, ma non ho potuto avvisare mio marito perché
aveva il cellulare spento.
-Porca puttana- mi dissi- e mo come faccio? Chi c’ha le chiavi della
scuola?
Un lampo: Mino.
Per fortuna nella mia rubrica avevo i numeri di tutti i dipendenti, tra cui
quello del nostro factotum.
Gli telefonai a Conversano perché è lì che abita.
Gli telefonai a Conversano perché è lì che abita.
Alle diciassette liberammo Valà che da quel momento, quando va in bagno
appende fuori un cartello: Do not disturb. Comunque sono qua!
Il rumore dello scarico (l’ha fatto amplificare da quell’occasione, come
ulteriore avviso) ci coglie di sorpresa.
Possibile che abbia già finito?
Era solo una pipì.
Aggiustandosi la patta, Valà ci raggiunge al bar.
-Offro io ai pensionati!
Io sorbisco il mio solito espressino, Saverio il solito caffè maculato con
una bustina di zucchero di canna, due dolcificanti e tre bustine di zucchero
raffinato.
Nel frattempo che Saverio scioglie la sua glicemia Nunzxia, Milenia e io
fumiamo due sigarette, discutiamo con tre colleghi e assistiamo alla proiezione
di un film hard che DVD, il prof di religione, somministra ai suoi alunni.
E’ l’ora di tornare a casa. Spero che Tex non me l’abbia allagata perché il
tempo è volato senza che me ne accorgessi.
Salutiamo i colleghi. Saverio mi segue con la carriola piena di fotocopie.
Ringrazia e benedice.
Montiamo in macchina e sventoliamo i nostri Clinex bianchi.
Quando nonna si
diverticolava
Diverticoli! – disse, grattandosi il mento, il dottor
Romano.
Mia sorella ed io, che eravamo nascosti sotto il lettone
dei nonni, ci scambiammo uno sguardo complice. Non ci pareva vero che nella
pancia della nonna ci fossero i diverticoli.
Io pensai che forse sarebbe stato il caso di aprire una
finestra nell’addome, tipo televisione, per intenderci, e assistere allo
spettacolo dei diverticoli.
Che devo dire… mi sembrava che mia nonna conservasse
nella pancia tanti Aldo, Giovanni e Giacomo in miniatura che di giorno, di
sera, a tutte le ore, imbastissero uno
spettacolo a suo unico beneficio e che lei si dimenasse sulla poltrona per il
gran divertimento.
Mia sorella Pupa, la chiamavamo così perché era bella
come una bambola di porcellana, che mi leggeva nel pensiero bisbigliò: ma lo
sai che sei sciocco? Nonna non si
diverte, si dispera, anzi! Non vedi che quasi piange?
Riflettei: era vero! Forse lo spettacolo imbastito dai
comici non era poi così divertente.
Ma no- intervenne ancora mia sorella- lei si dispera
perché non può vederlo! Ce l’ha tutto lì nella pancia e non le serve a nulla!
Anche questa volta la telepatia aveva fatto centro!
Mi vuoi dire perché dai risposte a domande che non ho
ancora fatto? Come sai cosa volevo dire?
Te lo leggo negli occhi!… lo dice pure una canzone.
Fra mia sorella e me c’è meno di un anno di differenza,
siamo quasi gemelli. Lei però è nata prima e questo mi frega, perché le aveva
dato il vantaggio della lettura, cosa che io ancora non sapevo fare per bene.
Beh, e allora a cosa sto pensando ora?- la sfidai.
Te lo dico subito! Stai pensando che vuoi mettere una
telecamera nella pancia della nonna così vediamo tutti insieme i diverticoli e
nonna non si dispera più.
Brava! Mi aveva fregato ancora una volta.
Mia sorella riprese- Ma la telecamera il babbo ce l’ha
chiusa nell’armadio.
La nostra origine fiorentina riemergeva ogni volta
dovessimo fare riferimento al genitore.
Tutti i miei amici, tutte le amiche di mia sorella
dicevano papà; noi no, parlavamo come Pinocchio!
E che ci vuole- la bloccai- prendiamo la chiave e
apriamo.
Stupido, il babbo ce l’ha appesa al collo!
Mia sorella era rimasta scioccata dalla fiaba di Barbablù
e pensava che tutti gli uomini adulti nascondessero qualcosa o in camere
segrete o in armadi, di cui portavano la chiavi al collo.
In verità, mio padre portava al collo una chiave, ma era
una minuscola chiave d’oro, un ciondolo della sua collanina che aveva ricevuto
in dono il giorno della cresima e che da allora non aveva mai più tolto. Ma noi
non lo sapevamo.
Il dottore si accomiatò dopo aver intascato duecento Euro
senza rilasciare ricevuta, come disse scandalizzato mio nonno che era un
maresciallo della Finanza in pensione.
Mia nonna rimase sola, seduta sul letto, con le gambe
penzoloni e si lamentava.
Si sta diverticolando- dissi io.
Si,- confermò mia sorella- ma solo nella pancia; non
riesce a vedere niente
La cura era a base di calmanti e sonniferi, nel caso non
riuscisse a prendere sonno durante la notte.
Pupa ed io volevamo riguadagnare la libertà, ma non
potevamo uscire di sotto il letto sin quando nonna era nella stanza. Ci salvò
nostra madre che la invitò in cucina a sorbire una tazza di camomilla.
Sgaiattolammo velocemente da sotto il letto e ci
rifugiammo nel ripostiglio che avevamo eletto a base logistica per i piani di
monellerie.
Ci distendemmo sul vecchio divano in vimini, mezzo
sfondato dai tanti salti che vi avevamo fatto su, mettendo a dura prova
l’elasticità del legno, poi assumemmo la posizione fetale, l’unica che ci era
congeniale per pensare.
Il cagnolino in peluche, Teddy, ci ammiccava da sotto un
asse da stiro tutto sgangherato.
Purtroppo lo scorgemmo nello stesso momento. Ci lanciammo
verso di lui per prenderlo e ci ritrovammo l’uno con la testa e l’altra con la
coda del pupazzo tra le mani.
Ciascuno di noi lo voleva per sé; tirammo, ci azzuffammo,
ci raschiammo e piangemmo.
Nostra madre venne a dividerci.
Io ne reclamavo la proprietà, ma nessuno della mia
famiglia ricordava chi l’avesse avuto in dono e da chi.
La questione è rimasta insoluta sino al disfacimento
completo del povero peluche.
Chiaramente neppure quella volta nessuno di noi due
l’ebbe vinta e il cagnolino fu relegato in soffitta.
A riappacificarci ci pensò l’alcool denaturato che nostra
madre strofinò sulle nostre piccole ferite.
Piangemmo per il dolore e ci abbracciammo, come nella
poesia “I due fanciulli” di Giovanni Pascoli.
Giunta l’ora di fare i compiti, mia madre ci spinse verso
la lunga scrivania fatta costruire apposta per noi, affinché potessimo studiare
nella stessa stanza senza infastidirci a vicenda.
Ma il pensiero del grande spettacolo che avveniva nella
pancia della nonna, senza che nessuno ne usufruisse, ci spinse a tralasciare i
nostri doveri e a tentare di pensare un piano di battaglia per liberare lo
schermo che si accendeva e spegneva nell’addome della nonna, con un gran
consumo di energia che poi faceva dire a mio padre che le bollette della luce
erano molto “salate”.
Le vignette di un vecchio giornalino di Tex Willer, il
mio compagno inseparabile durante le lunghe ore di noia alla scuola materna, mi
suggerì l’idea di aprire un varco nella pancia della nonna, così come aveva
fatto il mio eroe che, per liberare il figlio Kit e il fido Tiger, aveva
piazzato della dinamite, mentre le pallottole
dei cattivi gli fischiavano attorno, proprio davanti all’uscio della
capanna in cui erano rinchiusi.
Mia sorella mi guardò sgomenta: ma dove prendiamo la
dinamite!...- mi disse con aria di superiorità.
Non ci avevo pensato, era vero!
Ma ancora lei, mia sorella mi venne in aiuto.
Forse è nell’armadio di Barbablù, cioè – si corresse- del
babbo.
La storia di Barbablù quella volta mi parve più vera,
anche perché, proprio prima che andasse via il dottore, mio padre si era chiuso
nella sua stanza e lo avevamo sentito armeggiare vicino l’armadio, poi, con una
bottiglia che a noi parve di veleno, si
era avvicinato al dottore con aria cattiva e gli aveva offerto un bicchiere di
quell’intruglio.
Il dottore, dopo averlo bevuto, fu colto da un accesso di
tosse così forte che continuava a farla anche per le scale quando andò via.
Forse era già morto- pensai.
A quel punto decisi che le paure di mia sorella non erano
soltanto frutto della sua fantasia, ma che esisteva una valida possibilità che
fossero certezze.
Pupa mi lesse ancora una volta nella mente.
E’ proprio così!- mi disse con aria grave.
Mia sorella, che
ha un senso pratico molto più acuto del mio, ebbe un lampo di genio.
Perché, invece della dinamite non diamo alla nonna un po’
del veleno che il babbo ha dato al dottore? Se la nonna tossisce come lui, può
essere che vomiti il televisore che ha nella pancia!
Giusto!- approvai- come ho fatto a non pensarci io?
Bisognava, però, elaborare un piano per togliere dal
collo del babbo la famosa chiave.
Ancora una volta Pupa ebbe un’idea.
Senti- mi disse- domani mattina svegliamoci presto,
andiamo nel lettone della mamma e del babbo e li assaliamo con baci e abbracci.
Durante la confusione che si creerà io
romperò la collanina e tu la prenderai la chiave. Poi ce ne torniamo a
letto.
Il piano era geniale e il giorno dopo lo mettemmo in atto
punto per punto.
I nostri genitori pensarono che eravamo stati colti da un eccesso di
affetto e sottostettero volentieri alle nostre effusioni.
Mia sorella ruppe la collana, io presi la chiavetta, la
nascosi nella tasca della giacca del mio pigiamino e, dopo aver recitato per
alcuni altri minuti, ritornammo nei nostri letti.
Non c’eravamo allontanati che di pochi passi che sentimmo brontolare il
babbo per il fatto che si era rotto il suo gioiello e che chissà dove era
andata a finire la chiavetta in quel gran macello che avevamo inscenato.
Mia madre lo consolò non so come, perché per un po’ di
tempo le voci tacquero.
Ma non eravamo che alla metà dell’opera. Ora bisognava
riuscire ad aprire, non visti, il famoso armadio.
Questa volta l’idea fu mia.
Di domenica mattina il babbo, che era un cuoco sopraffino,
si preoccupava lui di preparare il pranzo.
Una pietanza che gli riusciva molto bene era il ragù, ma
per farlo la mamma gli faceva da assistente.
La preparazione del ragù è molto laboriosa.
Bisogna innanzitutto preparare le braciole di vitello e
maiale con ripieno di lardo prosciutto, formaggio romano, aglio, prezzemolo,
sale e un pizzico di pepe nero; poi si scelgono le frattaglie di carne più
saporite come nervetti e callosi, a cui si aggiungono alcune cotiche di
prosciutto e dei piedi di agnello.
A quel punto si mette a sfrigolare il tutto in un tegame
di creta, a fuoco lento.
Quando la carne prende un bel colore marroncino le si
aggiunge una cipolla tagliata a fette sottili, si aspetta che assuma un colore
castano chiaro e si irrora tutto con un buon bicchiere di vino bianco.
Quando il liquido si consuma, si versa abbondante passato
di pomodori pelati e il sale, si copre il tegame e si aspetta che cuocia a
fuoco lento.
Il tutto porta via almeno quattro ore. Quattro ore in cui
Pupa ed io restavamo padroni di tutto il resto della casa, con divieto assoluto
di varcare la soglia della cucina.
Mentre, di solito, questo fatto ci arreca grande
fastidio, perché vorremmo collaborare alla preparazione del sugo, quella
domenica, ci rese felici.
Quando il babbo e la mamma si reclusero in cucina, Pupa
ed io ci precipitammo nella loro camera da letto e arrembammo l’armadio.
Ahimè, la chiave era troppo piccola o la toppa dell’anta
era troppo grossa.
Deluso detti un calcio al mobile e con mia grande
sorpresa mi accorsi che l’anta si era schiusa appena.
Il resto fu facile!
La bottiglia di veleno recava una scritta paurosa: Grappa
purissima alla ruta.
Non appena la stappai, annusai il contenuto: un odore
fortissimo, nauseante e bruciante salì per le mie narici e starnutii con
violenza.
Il volto mi diventò di un rosso paonazzo e la stanza
prese a girarmi intorno.
Pupa mi sostenne: non cadere, stupido,si può rompere la
bottiglia!
Per fortuna il giramento di testa durò poco!
Prendemmo il bicchiere di plastica ripieno d’acqua che
tenevamo per la notte sul comodino, ne svuotammo il contenuto nella pianta di
pansé che era sul davanzale della finestra della nostra cameretta, lo riempimmo
a metà del liquido “velenoso” e lo nascondemmo nel comodino.
La nonna, che nel frattempo si era svegliata, chiamò per
prendere la sua camomilla.
Mai come quella volta, Pupa ed io accorremmo con
prontezza, violando la consegna, in cucina e ci dichiarammo disponibili a
portarle la medicina.
Mia madre, che aveva già preparato il calmante in un bicchiere
da bibita, ce lo porse.
Prima di andare dalla nonna, versammo nella nostra
piantina metà del calmante e vi aggiungemmo il “veleno”.
La piantina andò in trance, i fiori si addormentarono e
si piegarono su se stessi baciando il terreno.
Alla nonna porgemmo il bicchiere consigliandole di berne
il contenuto tutto d’un fiato e aspettammo.
Non appena la poverina ingollò quella che avrebbe dovuto
essere la sua medicina, fu colta da accessi convulsi di tosse e da dolori
fortissimi all’addome.
Le sue grida giunsero sin nella cucina e dalla cucina
giunsero velocissimamente ai nostri genitori.
Pupa ed io guardavamo la bocca di nostra nonna nella
speranza che il piccolo televisore venisse fuori, ma che devi fare, manco
l’antenna sbucò.
Mio padre ci urlò di non stare lì come due imbecilli, ma
di chiedere, piuttosto, aiuto al nostro dirimpettaio che è dentista.
Il dottore, non appena si rese conto delle condizioni di
nostra nonna, consigliò un ricovero immediato.
L’ambulanza la portò via mentre mia sorella ed io, affacciati
alla finestra la guardavamo
allontanarsi.
Mia nonna fu operata d’urgenza e da allora non si
diverticola più, ma a noi i dottori non hanno mai restituito il televisore che
lei aveva nella pancia.
Che ladri, però...!
Le
cose
Mamma, ho le mie cose!
Premurosa, mia madre accarezzò la guancia di mia sorella e le disse: Andiamo in bagno, non ti preoccupare.
Si chiusero in bagno per circa mezz’ora.
Quando vennero fuori, mia madre aveva gli occhi lucidi, mia sorella gli occhi raggianti.
Uscirono insieme nel pomeriggio. Al ritorno mia sorella aveva due splendidi orecchini che le pendevano dai lobi e mia madre un pacco della farmacia che subito chiuse nel contenitore che abbiamo in bagno, quello dove conserviamo lamette per calli, forbicine per le unghie dei piedi saponette ancora incartate, cotone idrofilo etc etc.
Conviene avere le cose-pensai, ma cosa sono le cose?
Li volevo da tanto- disse mia sorella mostrandoci fiera i due svaroski che luccicavano come stelle comete.
Anche io volevo la bandoliera con due pistole, ma manco per idea!
Se avessi le mie cose!-mi detti una spalmata sulla fronte
Non appena il bagno fu libero, lo occupai e mi chiusi a chiave.
Ecco lì il pacco! Tolsi dalla busta di plastica un affare quadrato, morbido e colorato. Sopra vi era scritto Lines seta con le ali. Pigiai su:un piccolo sbuffo d’aria.
Con le ali-dissi fra me- cosa può essere, forse una gabbietta. Ma no- mi risposi- a che servirebbe una gabbietta! Eppure se le cose si vedono in bagno si possono averle solo in due posti, o avanti o dietro. In bocca non credo, le avrei viste!
Cacchio- mi grattai la pera- ma cosa sono le cose?
Il dubbio mi attanagliò tutta la giornata. Mi sentivo fregato.
Vuoi vedere che io le ho già avute le mie cose e non me ne sono accorto?
Dev’essere proprio così- si accese una lampadina nel mio cervello- Cocca è più piccola di me! Oppure sono ritardatario ed è arrivata prima lei?
Abbassai i pantaloni e mi dissi: o da dietro o d’avanti, vediamo un po’
Scartai subito il dietro: dove cacchio possono essere le cose, sarà d’avanti.
Guardai il mio pisellino: no, ce l’ho da sempre!
O forse era proprio lui e io che ero abituato a vederlo non ci avevo mai fatto caso.
Ma perché bisogna fasciarlo con qualcosa con le ali. Diventerebbe forse così un uccellino a cui aggiungere poi le ali? Ma non pigola, non si muove!…
Uscii dal bagno sbattendo la porta.
Verso sera non gliela feci più.
Lello, lo sai che Cocca ha le sue cose?
E’ normale- mi rispose laconico.
E io che volevo saperne di più, porca vacca!
Come il solito, noi fratelli, una banda di sei, ci fermammo sul tardi a confabulare tra noi, nonostante le minacce dei nostri genitori che ci invitavano ad andare a letto perché domani si va a scuola.
Lello e Nino, i più grandi, parlavano di calcio e quanto fosse bravo Cicogna, l’ala sinistra del Bari a far impazzire i terzini delle squadre avversarie e De Robertis, l’ala destra, detto “Fa Fueq’, che scartava anche se stesso e sbagliava goal fatti.
Pupa e Cocca, le mie sorelle, parlottavano sottovoce e Pupa suggeriva alcuni consigli all’altra.
Io volevo ascoltare cosa si dicessero, ma ero con Enzo, che quell’anno avrebbe dovuto cominciare a frequentare la Prima Elementare.
Ero preoccupato per lui perché, sotto la mia tutela, aveva imparato a imprecare come uno scaricatore di porto.
Mi raccomando – gli dicevo- non ti far sfuggire neppure una delle parole che ti ho insegnato, devono restare un segreto tra noi.
Zuzù, altrimenti Enzo, annuiva con aria assente, e sfogliava un fumetto di Tex, quando l’eroe esclamava peste e corna!
Manco questo posso dire?- mi chiedeva.
Io nicchiavo, tanto peste e corna glielo aveva insegnato Tex, erano fanculo e simili che non doveva dire.
Poi Zuzù si addormentò sul divano e io rimasi da solo a chiacchierare con la mia coscienza che ripeteva: cacchio fai,te ne stai così e non sai ancora cosa sono le sue cose, le tue cose?
Mio padre, in vestaglia, venne in soggiorno: Ancora in piedi? Presto, tutti a letto!
Pupa e Cocca furono le prime a obbedire; Lello e Nino, siccome dormivano nella stessa stanza si avviarono ancora chiacchierando o litigando, per il tono di voce che spesso si alzava.
Io avevo il compito di badare a Enzo;gli feci un solletico da matti, lo svegliai e lo trascinai verso lo stanzone dove dormivamo con Zia Nella, sorella di mio padre, Pupa e Cocca.
Loro erano già sotto le coperte quando arrivammo: Cocca era ancora eccitata della nuova condizione delle cose e non dormiva, Pupa la esortava, invece, a non pensarci più e a lasciarsi andare nelle braccia di Morfeo.
Approfittai della situazione.
Belli gli orecchini che hai avuto!
Che, li vuoi anche tu?
No, io voglio la bandoliera con le pistole.
Chissà quando!
Quando avrò anche io le mie cose, se non le ho già avute!
Come- si stupì mia sorella- non le hai già avute?
E no, e poi che ne so, forse le ho avute e non ho fatto come te che l’hai detto a tutti.
Ma lo dovevo dire, se no come facevo ad avere gli orecchini?
Sì-annuii tutto compreso- Lello mi ha detto che è una cosa normale. Ma il guaio è che siccome è normale io penso di non essermene accorto e non ho avuto la bandoliera- conclusi dispiaciuto.
Senti- m’interruppe Cocca- fai come ho fatto io. Domani chiama mamma in bagno…poi ti dirà lei se hai avuto le tue cose.
E, magari, che almeno mi danno la bandoliera!
L’indomani, di primo mattino, dissi a mia madre che pensavo di aver avuto già da tempo le mie cose.
Mia madre sorrise: dai, non è possibile!
E’ perché non mi volete dare la bandoliera-piagnucolai.
Che c’entra la bandoliera, quella l’hai chiesta alla Befana. Vedrai che te la porterà.
Ma ci vuole quasi un anno!
Aspetterai.
Ma se ho le mie cose, vero che me la compri?
Mia madre rise divertita, poi per accontentarmi disse:va bene, andiamo in bagno.
Sorrisi anch’io contento. Grazie, mamma.
La porta dl bagno si schiuse cigolando. L’ho detto a papà che ci vuole un po’ d’olio.
Anche ieri cigolava?
Sì, anche ieri-sospirò mia madre.
Il giro di chiave mi rassicurò: beh, ora che devo fare?
Lo chiedi a me, tu dici che hai le tue cose?
Sì, mamma, ma che sono le cose?
Ah, non lo sai?
E sì che non lo so, ma penso di averle. Se ce le ha Cocca che è più piccola di me!
Ma Cocca è una signorina.
E io sono un signorino. Mi abbasso i pantaloni e poi mi dici se ce le ho le cose.
Mia madre, paziente, aspettò che terminassi l’operazione, poi mi guardò: bene, tutto a posto.
Allora?
Ho detto tutto a posto.
Vuol dire che ho le mie cose.
Sì- rise mia madre- ce le hai tutte le tue cose.
Allora usciamo nel pomeriggio.
Va bene- si rassegnò
Tutto felice andai da mio fratello Lello e gli dissi che anche io avevo le mie cose.
Lui non si scompose, mi fissò un attimo negli occhi e sentenziò: Non è normale.
Nel pomeriggio ebbi la bandoliera con le pistole; ma cosa fossero le cose lo scoprii solo alcuni anni dopo.
Premurosa, mia madre accarezzò la guancia di mia sorella e le disse: Andiamo in bagno, non ti preoccupare.
Si chiusero in bagno per circa mezz’ora.
Quando vennero fuori, mia madre aveva gli occhi lucidi, mia sorella gli occhi raggianti.
Uscirono insieme nel pomeriggio. Al ritorno mia sorella aveva due splendidi orecchini che le pendevano dai lobi e mia madre un pacco della farmacia che subito chiuse nel contenitore che abbiamo in bagno, quello dove conserviamo lamette per calli, forbicine per le unghie dei piedi saponette ancora incartate, cotone idrofilo etc etc.
Conviene avere le cose-pensai, ma cosa sono le cose?
Li volevo da tanto- disse mia sorella mostrandoci fiera i due svaroski che luccicavano come stelle comete.
Anche io volevo la bandoliera con due pistole, ma manco per idea!
Se avessi le mie cose!-mi detti una spalmata sulla fronte
Non appena il bagno fu libero, lo occupai e mi chiusi a chiave.
Ecco lì il pacco! Tolsi dalla busta di plastica un affare quadrato, morbido e colorato. Sopra vi era scritto Lines seta con le ali. Pigiai su:un piccolo sbuffo d’aria.
Con le ali-dissi fra me- cosa può essere, forse una gabbietta. Ma no- mi risposi- a che servirebbe una gabbietta! Eppure se le cose si vedono in bagno si possono averle solo in due posti, o avanti o dietro. In bocca non credo, le avrei viste!
Cacchio- mi grattai la pera- ma cosa sono le cose?
Il dubbio mi attanagliò tutta la giornata. Mi sentivo fregato.
Vuoi vedere che io le ho già avute le mie cose e non me ne sono accorto?
Dev’essere proprio così- si accese una lampadina nel mio cervello- Cocca è più piccola di me! Oppure sono ritardatario ed è arrivata prima lei?
Abbassai i pantaloni e mi dissi: o da dietro o d’avanti, vediamo un po’
Scartai subito il dietro: dove cacchio possono essere le cose, sarà d’avanti.
Guardai il mio pisellino: no, ce l’ho da sempre!
O forse era proprio lui e io che ero abituato a vederlo non ci avevo mai fatto caso.
Ma perché bisogna fasciarlo con qualcosa con le ali. Diventerebbe forse così un uccellino a cui aggiungere poi le ali? Ma non pigola, non si muove!…
Uscii dal bagno sbattendo la porta.
Verso sera non gliela feci più.
Lello, lo sai che Cocca ha le sue cose?
E’ normale- mi rispose laconico.
E io che volevo saperne di più, porca vacca!
Come il solito, noi fratelli, una banda di sei, ci fermammo sul tardi a confabulare tra noi, nonostante le minacce dei nostri genitori che ci invitavano ad andare a letto perché domani si va a scuola.
Lello e Nino, i più grandi, parlavano di calcio e quanto fosse bravo Cicogna, l’ala sinistra del Bari a far impazzire i terzini delle squadre avversarie e De Robertis, l’ala destra, detto “Fa Fueq’, che scartava anche se stesso e sbagliava goal fatti.
Pupa e Cocca, le mie sorelle, parlottavano sottovoce e Pupa suggeriva alcuni consigli all’altra.
Io volevo ascoltare cosa si dicessero, ma ero con Enzo, che quell’anno avrebbe dovuto cominciare a frequentare la Prima Elementare.
Ero preoccupato per lui perché, sotto la mia tutela, aveva imparato a imprecare come uno scaricatore di porto.
Mi raccomando – gli dicevo- non ti far sfuggire neppure una delle parole che ti ho insegnato, devono restare un segreto tra noi.
Zuzù, altrimenti Enzo, annuiva con aria assente, e sfogliava un fumetto di Tex, quando l’eroe esclamava peste e corna!
Manco questo posso dire?- mi chiedeva.
Io nicchiavo, tanto peste e corna glielo aveva insegnato Tex, erano fanculo e simili che non doveva dire.
Poi Zuzù si addormentò sul divano e io rimasi da solo a chiacchierare con la mia coscienza che ripeteva: cacchio fai,te ne stai così e non sai ancora cosa sono le sue cose, le tue cose?
Mio padre, in vestaglia, venne in soggiorno: Ancora in piedi? Presto, tutti a letto!
Pupa e Cocca furono le prime a obbedire; Lello e Nino, siccome dormivano nella stessa stanza si avviarono ancora chiacchierando o litigando, per il tono di voce che spesso si alzava.
Io avevo il compito di badare a Enzo;gli feci un solletico da matti, lo svegliai e lo trascinai verso lo stanzone dove dormivamo con Zia Nella, sorella di mio padre, Pupa e Cocca.
Loro erano già sotto le coperte quando arrivammo: Cocca era ancora eccitata della nuova condizione delle cose e non dormiva, Pupa la esortava, invece, a non pensarci più e a lasciarsi andare nelle braccia di Morfeo.
Approfittai della situazione.
Belli gli orecchini che hai avuto!
Che, li vuoi anche tu?
No, io voglio la bandoliera con le pistole.
Chissà quando!
Quando avrò anche io le mie cose, se non le ho già avute!
Come- si stupì mia sorella- non le hai già avute?
E no, e poi che ne so, forse le ho avute e non ho fatto come te che l’hai detto a tutti.
Ma lo dovevo dire, se no come facevo ad avere gli orecchini?
Sì-annuii tutto compreso- Lello mi ha detto che è una cosa normale. Ma il guaio è che siccome è normale io penso di non essermene accorto e non ho avuto la bandoliera- conclusi dispiaciuto.
Senti- m’interruppe Cocca- fai come ho fatto io. Domani chiama mamma in bagno…poi ti dirà lei se hai avuto le tue cose.
E, magari, che almeno mi danno la bandoliera!
L’indomani, di primo mattino, dissi a mia madre che pensavo di aver avuto già da tempo le mie cose.
Mia madre sorrise: dai, non è possibile!
E’ perché non mi volete dare la bandoliera-piagnucolai.
Che c’entra la bandoliera, quella l’hai chiesta alla Befana. Vedrai che te la porterà.
Ma ci vuole quasi un anno!
Aspetterai.
Ma se ho le mie cose, vero che me la compri?
Mia madre rise divertita, poi per accontentarmi disse:va bene, andiamo in bagno.
Sorrisi anch’io contento. Grazie, mamma.
La porta dl bagno si schiuse cigolando. L’ho detto a papà che ci vuole un po’ d’olio.
Anche ieri cigolava?
Sì, anche ieri-sospirò mia madre.
Il giro di chiave mi rassicurò: beh, ora che devo fare?
Lo chiedi a me, tu dici che hai le tue cose?
Sì, mamma, ma che sono le cose?
Ah, non lo sai?
E sì che non lo so, ma penso di averle. Se ce le ha Cocca che è più piccola di me!
Ma Cocca è una signorina.
E io sono un signorino. Mi abbasso i pantaloni e poi mi dici se ce le ho le cose.
Mia madre, paziente, aspettò che terminassi l’operazione, poi mi guardò: bene, tutto a posto.
Allora?
Ho detto tutto a posto.
Vuol dire che ho le mie cose.
Sì- rise mia madre- ce le hai tutte le tue cose.
Allora usciamo nel pomeriggio.
Va bene- si rassegnò
Tutto felice andai da mio fratello Lello e gli dissi che anche io avevo le mie cose.
Lui non si scompose, mi fissò un attimo negli occhi e sentenziò: Non è normale.
Nel pomeriggio ebbi la bandoliera con le pistole; ma cosa fossero le cose lo scoprii solo alcuni anni dopo.
Roma o
morte!
Partenza ore 05.00 del mattino. Macché, alle 07.00
eravamo ancora alle prese con valige che non volevano chiudersi. Mia moglie ed
io non siamo pesi massimi, perciò decidemmo di unire i nostri kg da scaricare
sui trolley. Il primo si arrese, il secondo pure, il terzo si fece a scodella e
unì mia moglie e me in un abbraccio di
quelli che ci stringevano da fidanzatini. Gambe per aria e nuca sul pavimento,
riflettemmo per un attimo se approfittare della situazione estremamente
favorevole. La sveglietta del mio orologio da polso ci ricondusse alla realtà.
Cristo, che ritardo! Mi rialzai in fretta e mi catapultai per le scale. Lo
scantinato è un deposito atipico. Vi è di tutto, dalle provviste alimentari
agli abiti disusati, alle scarpe dismesse, ai ferri per le riparazioni
domestiche, ai lettini divenuti troppo piccoli per i nostri due bellissimi
pastori tedeschi, alle migliaia di diapositive scattate negli anni ’70 e ’80
delle nostre due figlie, ai testi universitari di Lettere e Scienze Biologiche,
rispettivamente miei e di mia moglie, agli abiti carnascialeschi di Ciuppi e
Toni, ai fumetti di Tex Willer, di cui
conservo una vasta collezione. Il tutto in un grande disordine per le
frequenti visite che operiamo quasi quotidianamente per ricercare oggetti da
utilizzare per le riparazioni domestiche. L’angolo delle valige somiglia alla
torre di Pisa, sempre in precario equilibrio, ma stranamente sempre in piedi.
La valigia sostitutiva, come il solito, era l’ultima, quella sotto la pila. Non
disarmai. Afferrai il manico e tirai con forza. La torre, con un sonoro tonfo
si accorciò di qualche cm e resistette nonostante lo smottamento provocato
dall’estrazione. Lo schianto svegliò gli acari che soggiornano dormicchiando e
rosicchiando un po’ di tutto e starnutii violentemente. La pila questa volta
crollò vomitandomi addosso vecchi zaini della mia vita militare, bauletti in
fibra di epoca vittoriana, beatycase
vari e il trapano elettrico che ritenevo perduto. L’alluce valgo lo accolse con
malagrazia ed esternò con la mia voce ciò che pensava dei suoi progenitori che
poi erano anche i miei. Zoppicando riguadagnai l’uscita dello scantinato,spinsi
la porta che non voleva chiudersi per l’ingombro che arrivava sin sulla
soglia, chiusi a chiave la serratura che
può essere aperta anche con un apriscatole e salii in fretta le sei rampe di
scala che portano al mio appartamento. Mia moglie che mi attendeva vicino
l’ascensore mi chiese come mai fossi
salito a piedi. Le spiegai che dovevo rimettere in moto il mio arto inferiore
sinistro fresco di un sinistro. Non capì ma non se ne fece un problema.
Finalmente alle 07.55 eravamo in macchina, una bella Stilo del 2003,
turbodiesel, 1900 non so che.
Divorammo la circonvallazione a 150 km orari e alle 08.05 ritirammo il biglietto autostradale.
Roma o morte!
Il cielo azzurro, l’aria dolce, il levantino profumato di
mare erano indizi che ci aspettava una bella giornata, gioiosa, che dico,
felice. A Roma, infatti, ci recavamo per assistere alla seduta di laurea di
nostra figlia Toni. La distanza che separa la mia città dal capoluogo non era motivo
di preoccupazione, nonostante avessimo accumulato un grave ritardo, per
l’abilità che mi contraddistingue alla guida di autovetture potenti. Ben lo
sapeva mio padre che mi chiamava Cazio Nuvolari per non confondermi con il
grande Tazio.
Alle 09.30 eravamo a 36 km da Napoli. Il cielo, frattanto, si era fatto nuvoloso.
Nuvole nere, cariche di pioggia incombevano sull’Appennino schiaffeggiato da un
vento gelido foriero di bufera. No problem. Noi procedevamo sicuri discutendo
del più e del meno accompagnati dal rombo del motore e… da un puzzo terribile
di ferodo bruciato. Detti uno sguardo allo specchietto retrovisore e scorsi una
cortina di fumo bianco. Inchiodai. La macchina sembrava in preda alle fiamme.
Per fortuna avevo scelto la piazzola giusta per sostare: eravamo proprio su un
punto SOS. Mia moglie, terrorizzata, mi pregò di uscire per accertarmi che non
fossimo sul punto di divenire tizzoni ardenti. Sorrisi, mio malgrado, per darle
coraggio. Goccioloni di pioggia, in attesa che il mio corpo fosse allo
scoperto, cominciarono a rimbalzarmi allegramente sul capo. Imprecai sottovoce.
Mia moglie è per l’ortodossia dottrinale. Aprii il portellone del cofano motore
e tossii per il fumo e il puzzo. Pigiai il pulsante del SOS. Mi rispose una
voce metallica in inglese, spagnolo e tedesco, in italiano no, sovrastata dal
traffico dell’Avellino- Napoli. Non capii un cazzo ma ebbi fiducia che il mio
appello fosse stato raccolto. Cominciò l’attesa. Azionai i lampeggiatori
d’emergenza e scrutai l’orizzonte. Vetture della polizia, dei carabinieri e
delle guardie carcerarie transitavano di continuo a forte andatura, ma nessuna
di queste sembrava essere guidata da umani, perché non una ci si avvicinò per
chiederci se avessimo bisogno d’aiuto com’era lapalissiano. Dopo mezz’ora mi
riattaccai al pulsante del SOS.
In spagnolo una voce mi disse di non rompere le palle
perché il soccorso era prossimo. La pioggia cadeva a catinelle. Il freddo si
fece pungente per i nostri abiti danNunzxianamente leggeri. L’oscurità piombò
con una nuvolaglia color melanina che non lasciava presagire nulla di buono.
Del soccorso nessuna traccia. Alle 10.45 ricontattai l’SOS. Ancora una volta in
spagnolo o portoghese. Il soccorso non poteva venire perché anche lui aveva
bisogno di soccorso. Cazzo! Mia moglie era sull’orlo di una crisi di panico.
Che fare? La mia mente vulcanica cercò e
trovò la soluzione. Ricordai di aver memorizzato nel mo cellulare il numero ACI
e telefonai. Mi rispose, questa volta, un italiano in napoletano. Mezz’ora dopo
eravamo scomodamente seduti nel carroattrezzi in compagnia di un avellinese
che, bontà sua, ci reputava degni di dividere con lui la cabina di guida. Da
buon campano l’autista s’interessò ai casi nostri e ci propose la sua
autofficina per la riparazione della Stilo e una vettura sostitutiva per
raggiungere Roma in tempo utile per assistere alla seduta di laurea che avrebbe
impegnato nostra figlia Toni nel pomeriggio, alle 15.00. Accettammo. Per
raggiungere il punto ACI dovemmo tornare indietro, sino a Atripalda, uno
sperduto paesino dell’avellinese. Lì fummo accolti dal capofficina che ci
prospettò, dopo un’oretta, una riparazione costosissima, circa 1300 €, se
fossimo sfortunati, altrimenti una bazzecola, solo 650 €, se fossimo fortunati.
Chiaramente infoltimmo la schiera degli sfigati. Se avessi avuto bisogno di un
digestivo non sarebbe stato necessario fare una puntatina al bar o in farmacia:
avevo un pozzo amaro in bocca. Trasferimmo i bagagli dalla Stilo alla nuova, si
fa per dire, macchina, una Xara della Citroen, SW. Mi sedetti alla guida. Alle
13.00 eravamo nuovamente in cammino. La distanza che ci separava da Roma era
aumentata, grazie alla visita atripaldese. Il tempo era diventato
indecentemente brutto per la pioggia violenta e costante e il vento a non so
quanti nodi. Non mi persi d’animo. Sono o non sono Cazio?- pensai.
All’imbocco dell’autostrada spinsi il pulsante elettrico
per abbassare il vetro del finestrino di guida onde ritirare il biglietto:
Macché, non funzionava! Mia moglie scese dall’auto e ritirò il tagliando del
pedaggio tra lo strombazzare delle auto che seguivano. Ripartii sgommando.
Spinsi a fondo l’acceleratore. La lancetta del tachimetro in pochi secondi
segnò 170 km orari. Me ne fregai
e guidai a tavoletta. Mia moglie, di solito pallida, alternò, per tutto il
tragitto, il pallore al rossore, passando da ondate di caldo a sudore freddo. A
volte metteva le sue mani sugli occhi non so se per paura o perché preferiva
non vedere. Il tergicristallo andava come un forsennato sul parabrezza nel
tentativo di scrollare lo tsunami che impediva la piena visibilità, ma io ero
ormai come invasato e ironizzavo sui tratti controllati dal tutor che ammoniva
di ridurre la velocità. Alle 15.00 in punto eravamo nella
caput mundi, cioè sul suo raccordo anulare. Tra le imprecazioni dei piloti
delle altre autovetture mi avventurai in sorpassi a destra e a sinistra
impipandomene dei gesti onomatopeici che mi si rivolgeva costantemente.
Finalmente, con gli occhi rivolti un po’ al cielo, un po’al manto stradale, lessi
a caratteri cubitali Uscita San Giovanni. Il cuore mi si allargò in petto, più
di quanto sia già largo, grande se volete, per la lunga attività sportiva
consumata in gioventù. I battiti
cardiaci da 60 piccarono a 120. La meta era vicina! Entrammo, così, nella
Circonvallazione Tiburtina. La mappa stradale procuratami da mia figlia
raccontava che poco dopo avrei trovato l’uscita Scalo San Lorenzo. Pregustavo i
momenti di relax che mi aspettavano e spinsi sull’acceleratore. La Xara rispose
come un cavallo imbizzarrito alla mia sollecitazione. Sorpassammo a velocità
della luce di una lampada da 1000 Watt un mini autobus giallo con una
inserzione pubblicitaria che diceva Trinity College. Nello specchietto
retrovisore il giallo si confuse presto con l’antracite della carreggiata.
Macinammo km zigzagando in una gimcana da Go-Kart senza che vedessimo il
cartello liberatore. Pensai, a un certo punto, di aver sbagliato strada. Invece
no! Ero quasi per invertire il senso di marcia (ma non sapevo come avrei potuto
farlo), quando incrociai con lo sguardo un cartello che indicava l’uscita per
lo Scalo San Lorenzo, il quartiere sede della Sapienza, dell’Università,
intendo dire. Il sole fece capolino giusto in tempo per indicarmi il largo
Settimio Passamonti e dopo una breve deviazione a destra il Viale dello Scalo
omonimo dello stanco eroe manzoniano. Fermai l’autovettura in prossimità di un
sovrappasso. Mia moglie ed io ci facemmo occhiolino. Era fatta. Almeno così
sembrava. Marco, fidanzato di mia figlia, ci raggiunse dopo qualche minuto.
Dopo un saluto forzatamente frettoloso ci indicò dove posteggiare la macchina e
ci guidò, a piedi, a grandi falcate, verso l’abitazione in cui risiede con
Toni. Mia moglie sembrò tornare la giovane studentessa che correva i 400 metri ; io arrancavo. Entrati in un portone che neppure vidi,
attraversato l’androne, una porta si spalancò dinanzi ai nostri occhi. La
varcai come un automa, con i polpacci che mi dolevano e l’alluce valgo che
cantava. Borbottando sacramentavo contro il meccanico della mia città che aveva
revisionato la Stilo prima della partenza. Quel boia mi aveva assicurato che ci
avrei potuto fare il giro del mondo. Giunse così il momento della vestizione.
In piedi, con la gamba destra del mio pantalone che negava l’ingresso alla mia,
tanto da farmi precipitare per terra, indossammo velocemente gli abiti pronti
per la cerimonia e poi di nuovo di corsa per raggiungere l’Università. Il sole,
che sembrava aver vinto il duello con le nuvole, si arrese. Una pioggia
scrosciante ci accolse non appena varcammo l’uscio del portone. Marco riprese
la sua sfida con il tempo; mia moglie quasi lo precedeva; io arrancavo più di
prima. Alle 15.40, stanchi, bagnati, ma felici, abbracciammo nostra figlia che,
poverina, come Cenerentola, era sulle
spine per noi.
Giudizio Universale
Dormiva Manicotto di Sopra.
La notte dolce d'estate recava i mille violini delle zanzare, il canto
delle adenoidi e i sospiri traditori degli sfinteri che facevano finta di
nulla.
D'improvviso, un rombo di tuono staccò il silenzio.
La moglie del Sindaco, in prudente apnea, pensò: "Gli avevo pur
detto di non mangiarli tutti, i fagioli”.
A un
tratto si udì una fanfara scomposta di pifferi e tamburi: “Giudizio
Universale!”- annunciò con voce metallica l’angelo battistrada.Il banchiere Ricotta, colto nel sonno, si
sparò una revolverata in bocca e sua moglie Carenina (la "C sta ad
indicare la carena della navicella che utilizzava il padre della sindachessa
per le sue scappatelle extraconiugali), atterrita ed incontinente abituale,
sporcò le mutandine benedette che le aveva regalato il Parroco per Pasqua.
"Et
frenum Fiat!"- ordinò profonda e ieratica la voce di Dio.
L’angelo
cocchiere tirò invano le redini dei quattro cavalli alati, agguantò il freno a
mano e-: ”Porco cane- gridò impaurito- ora cappottiamo!”.
“Fiatque
frenum ... Frena, vacca Sodoma!”- trascese il Padreterno, con la barba e
quant'altro ritti per lo spavento, all'indirizzo dell'angelo cocchiere.
Il
poverino, già sordo di suo (era stato assunto in quota invalidi di guerra della
campagna contro Satana del 6042 a .C.), vecchio sino all'indecenza, rintronato da
tutto quel latino lui, che discendeva da una famiglia di Angeli Custodi
Notturni, quasi tamponava col supercocchio DV (= divino N.d.A.) la torre del
Municipio con l'orologio nuovo, se non fosse intervenuto il vigile Boccone ad
attaccarsi eroicamente al morso dei destrieri (come aveva visto fare, in
un’immagine storica riportata sulla “Tribuna Illustrata”, vecchio settimanale
degli anni cinquanta, da un impavido carabiniere).
Frattanto, l'Angelica Post Band (Post sta per Post e Band sta per
Band), stonatissima vuoi per mancanza d'esercizio, vuoi per il carattere
nevrotico e riottoso dei suoi componenti (recuperati nel girone degli
individualisti permanenti e sessuomani insoddisfatti, con la promessa
dell’investitura angelica ad aeternum, se avessero fatto bella figura), cercava
di mascherare le diaboliche disarmonie soffiando negli ottoni a tutto gas e
picchiando con mazzate da orbi sulla pelle dei tamburi.
La caciara, naturalmente, destò di un colpo le duecento anime del paese
(eccetto le anime del banchiere Ricotta e della moglie Carenina, che si erano
già destate prima). Al grido "I
marziani, i marziani! ", i cittadini (o paesani che dir si voglia) scesero
in piazza potentemente armati di cineprese e macchine fotografiche per
immortalare l'avvenimento. L’ala massimalista, invece, con a capo Girolamo
Spurgatopi, figlio naturale di un caporale delle SS fucilato nel convento delle
benedettine da una “spogliata” che aveva spogliato, scese in piazza con bazooka
e kalashnikov, intenzionata a massacrare gli invasori.
Costatata, poi, l'assoluta mancanza di pericolo, alcuni di loro si
prodigarono, addirittura, per l'atterraggio dei Cherubini, consigliandoli
con"accosti… a destra dottò! ... Poggia! ... Buono così”-, incuranti dello
stato cianotico e preinfartuale del vigile Boccone, mai per l'addietro tanto
insopportabilmente giubilato in presenza di terzi.
Ne
sortirono parcheggi allucinanti, tamponamenti con morti e feriti, perdita
totale, anche se temporanea, delle facoltà d'intendere e di volere, zoppie,
oltraggi e violenze carnali fra i messaggeri del Cielo (eppure, alle prove
generali, in Paradiso, tutto era filato liscio ... o quasi).
Finalmente,
reintegrato il vigile Boccone nelle sue pubbliche funzioni, gli arcangeli
Michele e Raffaele (Gabriele si era recato al distributore di benzina per fare
il pieno alla spada fiammeggiante, rimasta a corto di carburante) incolonnarono
i giudicandi e li tradussero innanzi al Padreterno per la ramanzina e i sacri
insulti precedenti il verdetto (uno a cranio).
Immenso sul palco che il pomeriggio precedente era stato eretto per il
comizio del vicesindaco Facente, il Signore si schiarì la voce ed esordì:
”Popolo di Manicotto! Non siamo
scesi su questa pubblica piazza per far le pulci ai cani e ai barboni…”.
L’angelo cancelliere suggerì: “Sono la stessa cosa Signore…”.
“Umani, voglio dire…
ignorante!”: - s’accanì l?onnipotente piccato per l’improntitudine del suo
sottoposto. Poi riprese con severità: “… bensì onde procedere (quel
"onde" - impensierì all'istante la platea) alla formale instaurazione
di giudizio di merito, alieno da ogni e qualsiasi pregiudizievole processuale e
non avverso i Manicottesi tutti”.
Il gelo era tangibile nella
folla; un batter di denti e di dentiere accompagnò la voce roca dell'avvocato
Consulto: “Signor Giudice eccepisco…”.
“Eccezione respinta!- s’incacchiò il Padreterno- la quaestio persegue
gli imperscrutabili miei fini e, come si dice tra voi mie creature, fatevi i c…
vostri. Dunque, andiamo a incominciare! Angelo Cancelliere, a Lei!”
L'Angelo Cancelliere cercò il Divino Registro
“Era qui due minuti fa”- disse impaurito, col sudore che gli grondava
dalle ascelle. Infine, semisoffocato dalla gioia per l’essersi ricordato che
gli si era seduto sopra, cavandolo da sotto il sedere: "Signor Mastro
Peppino! ... Signor Mastro Peppino!”- rantolò.
"Ragioniere, prego! "- s'adontò quello con sussiego.
“Non sottilizziamo!…-proruppe il Signore – sappiamo come cavolo sia
diventato ragioniere.”
Mastro Peppino arrossì e zittì. mentre tutt’intorno si alzava un
mormorio di disapprovazione
“Raccomandato di merda!”- s’alzò
una voce dal fondo.
L’Angelo Cancelliere procedette con tono inquisitorio: “Signor Mastro
Peppino, come ha impiegato i talenti?”.
E aspettò, battendo il piede destro con impazienza.
Il ragioniere si grattò il capo con espressione fessa, rifletté un po’,
poi dichiarò:
“Non credo di aver mai posseduto talenti, lo confesso; trascorro una
vita serena grazie alla dote di mia moglie, pace all’anima sua… no, talenti
proprio no… non sono un collezionista. Se poi si riferisce agli euro, devo dire
che è stata una gran fregatura il passaggio dalla lira alla moneta europea. Si
spende molto di più… ma non credo –aggiunse impaurito dall’occhiataccia del
Padreterno- sia questo il luogo... ”.
“E dice bene- lo interruppe il Signore- mi riferivo ai talenti della
parabola di mio Figlio!…Sa- continuò poi con tono di scusa- a lui piace
raccontare, scrivere: si è messo in testa che è un grande scrittore, un oratore
eccezionale… Gabrieleee! Porca Gomorra! Ma quando torna ‘sto cavolo di
Arcangelo? Mi serve qui!”.
Gabriele era indaffarato con la pompa di benzina.
A corto di monete, cercava di convincere il benzinaio a fargli il pieno
alla spada fiammeggiante, promettendogli una raccomandazione presso
l’Onnipotente, un’indulgenza stratosferica per abbreviare il suo percorso da
penitente. Ma quello, no, resisteva alle lusinghe e solo quando l’Arcangelo gli
firmò un “pagherò” a brevissima scadenza, lo accontentò.
La spada sfolgorò per qualche secondo, poi si spense.
Gabriele s’incacchiò come solo gli arcangeli sanno fare: “Ma Eva
peripatetica!- sbottò- cosa cacchio hai messo nel serbatoio della spada? Non si
accende!”. E dalli a provare e riprovare a scaldare l’acciarino che portava
nella tasca interna della veste candida.
Il benzinaio arrossì e tentò di scusarsi dicendo che aveva fornito solo
ecodiesel purissimo, che non gli era mai capitata una cosa simile, che la spada
era ingolfata, ormai vecchia e che, forse, era giunto il momento di
procurarsene una più efficiente… via, anche un usato garantito.
L’Arcangelo, spazientito, tirò fuori, sempre dalla
solita tasca interna, il libretto di “folgorazione” rilasciato dal DVPRF
(Divino Provveditorato Revisioni Folgoranti), con l’ultima data di revisione e
lo mostrò al benzinaio con fare minaccioso: “Legga, stupido, lei non conosce il
suo mestiere!”.
Il benzinaio prese il documento fra le mani, lo osservò con cura, era
quasi per restituirlo sconsolato al messo di Dio, quando si accorse di una
postilla a margine dell’ultimo foglio del libretto.
“Ecco, vede?- esclamò trionfante- è scritto
qui!Leggo testualmente: E’ fatto obbligo al possessore della spada
fiammeggiante, matricola AG. (AG.sta per Arcangelo Gabriele) di provvedere
entro e non oltre trenta universali alla sostituzione della pompa di iniezione
della su detta spada, pena il ritiro della patente. Segue la data: Alto dei
Cieli, 22 divinario 290000743. Come vede…”- concluse raggiante il pompista.
“Gabrieleeee!”- tuonò la voce del Signore.
“Devo andare!”- tagliò corto l’arcangelo e si allontanò frettoloso.
“Dove diavolo ti eri cacciato?- lo rimproverò l’Onnipotente-
sostituisci il cancelliere che è afono per il gran gridare”.
Gabriele prese posto sullo scranno, si schiarì la voce, dette uno
sguardo all’elenco spuntato sino alla lettera erre e cominciò: “Sanfilippo
Giov…”.
“Vai avanti- lo interruppe spazientito l’Onnipresente- non vedi che è
santo?”.
“Santapaola Ren…”.
“Ma cacchio fai?- lo interruppe ancora Dio- salta i santi, per Dio!”.
Gabriele provò a eccepire, ma fu messo a tacere in malo modo.
Il Signore si sistemò sul trono che nel frattempo gli avevano portato i
cherubini, strappò l’elenco dalle mani di Gabriele e, personalmente, riprese le
convocazioni.
“Ah ah, eccone uno a fagiolo- ridacchiò leggendone ad alta voce il
nome- Satanasso Luciano!”.
Un “macho” nerboruto, a torso nudo, tatuato sino all’ombelico di
oscenità da far rabbrividire persino un intero convento di monache di clausura,
stretto tra due donne procacissime, due occhi celesti, che ogni tanto scopriva
portando sulla fronte spaziosa un paio di occhiali da sole griffati, lunga e
fluente capigliatura bionda chiusa da un “codino”, avanzò strafottente verso
l’Onnipotente.
“Come hai speso i tuoi talenti?”- lo assalì il padrone dell’universo,
con sguardo torvo, chiedendosi dove avesse visto quella faccia.
“Maestà…”- ironizzò l’interpellato.
“Porco cane! -lo interruppe Dio – non sai chi sono?”.
“Eccellenza…- riprese il gaudente.
“Santo Dio- s’inviperì Il Signore- sono Dio, per Giuda!”.
“Dio- riprese con condiscendenza il belloccio- i miei talenti, quelli
che tu mi avevi dato, non ho potuto spenderli. Quando tentai di farli fruttare,
tu mi punisti. Io sono Lucifero…”.
“Sempre fra le palle…”-pensò Dio-.
“…il tuo angelo preferito- continuò il diavolo- e poi scacciato dai
cieli quando ho tentato di imitarti. Volevo far fruttare i talenti che mi avevi
dato, ma l’ho preso nel boffice. Ora sfarfalleggio per i mondi e porto con me
non i rimasugli, gli avanzi del tuo pranzo, ma il fior fiore delle
creature. L’ultimo che ho plagiato è già
nel girone dei satiri spocchiosi; io lo animo sulla terra, pruriginoso come
era, per trascorrere qualche giorno di materialità, come consento, a turno, a
tutti i miei collaboratori”.
Gli arcangeli lo guardarono con ammirazione.
Gabriele, che non aveva ancora “digerito” il fatto di essere stato
estromesso in malo modo dall’incarico di annunciatore del Giudizio, si fece
coraggio e alzò la mano per chiedere la parola.
Dio lo guardò in tralice.
“Che vuoi? Lasciami lavorare!”- s’incazzò.
“Padrone- disse l’Arcangelo- colgo l’occasione per annunciarti quali
sono le rivendicazioni sindacali della mia categoria, formulate nell’ultima
assemblea del Consiglio degli Arcangeli ”.
Il Signore tentò di zittirlo, ma Gabriele, che ormai aveva rotto il
ghiaccio, non si fece intimorire e, cavato dalla tasca interna della tunica
bianca un foglio pergamenato, continuò: ” Non leggo i preliminari per non
annoiare il rispettabile pubblico- e s’inchinò- perciò passo subito alle
richieste…”.
Dio, con fare bonario gli consigliò di rinviare la questione al
prossimo Consiglio di fabbrica perché era bene lavare i panni sporchi in
famiglia, perché era disponibile, da sovrano illuminato, non a esaudire, ma a
prevenire i desideri della sua manovalanza, ecc… ecc…
Ma Gabriele, dopo aver bevuto un paio di sorsi di un liquido
presumibilmente ad alta gradazione alcolica da una fiaschetta d’oro che aveva
tirato fuori dalla solita tasca interna, face il segno del ”time out”,
applaudito da tutta la schiera di angeli e arcangeli (i cherubini si
dichiararono neutrali), inforcò gli occhialetti da presbite e, dopo essersi
schiarita la voce, lesse: ”a) chiediamo un turno di riposo settimanale, come
hai fatto tu quando, di domenica, hai interrotto la Creazione; b) il lavoro
straordinario deve essere retribuito con crediti da spendere nelle boutiques
celestiali e non passare “in cavalleria”, come è accaduto sino ad oggi; c) le
spade fiammeggianti e tutte le altre “macchine” utili all’ordine pubblico nel
Paradiso debbono essere sostituite ogni morte di papa e non revisionate ogni
trecentomila anni come accade ora; d) la turnazione di sorveglianza davanti la
porta dell’inferno deve essere gestita da noi e non da tuo figlio che si dedica
troppo alle cene –figurarsi- si rivolse all’uditorio- l’ultima doveva essere
quella di duemila anni fa!…- e poco alla
gestione dei registri; e) si smetta una volta per tutte con la favoletta che angeli
ed arcangeli siano asessuati; onde per cui (quel “onde” impensierì anche Dio)
chiediamo con forza -è, infatti, un punto su cui non si transige-, come avviene
per i nostri colleghi al servizio di Lucifero, che ci sia concessa qualche
materializzazione per spassarcela un po’ sulla terra. Concludo: se non ci
sediamo al tavolo delle trattative con serietà- e guardò i compagni a chiedere
sostegno- indiremo uno sciopero generale ad oltranza. Ho detto!”- e tirò fuori
un sospirone liberatorio.
Michele e Raffaele applaudirono sino a spellarsi le mani e a spiumare
per la velocità che impressero al battito delle ali.
Satanasso, ovvero Lucifero, salì sul palco e, sotto lo sguardo
esterrefatto di Dio, si congratulò con Gabriele.
L’Onnipotente sobbalzò sul sacro trono, si levò in piedi in tutta la
sua possanza metafisica e, poggiando le mani sui fianchi e dondolandosi,
arringò la platea:
“ Italiani, Manicottesi tutti, l’imperativo è vincere… e vinceremo!
Siano stramaledetti gli Ingle… Volevo dire- si corresse- siano maledetti i
ribelli! Questo branco di bastardi sarà cacciato nelle profondità degli inferi
se non accetterà le mie condizioni. Tutti coloro che sono con me mi seguano e…
boia chi molla!”.
Alle parole del Signore, che è in cielo, in terra e in ogni dove, i
Manicottesi atterrirono: un odore di stallatico si diffuse per l’aere e ampie
pozze assunsero contorni da fattucchiera sul selciato rifatto di fresco.
Gli arcangeli, seguiti dagli angeli e questa volta anche dai cherubini
(che oramai pensavano di aver fatto la scelta giusta schierandosi con Gabriele
per la guerra sindacale lampo, condotta con tanta maestria dall’arcangelo),
tirarono fuori dalle solite tasche interne delle tuniche le vecchie e gloriose
bandiere rosse della vittoriosa campagna del 200032, combattuta contro gli dei
pagani capeggiati da Juppiter Massimo (Mino per le sue concubine e i più
stretti collaboratori), e, capeggiati da Lucifero, inscenarono una
manifestazione di protesta colorita da insulti scurrili e goliardici nei
confronti del loro datore di lavoro.
“Non c’è più religione!”- protestò Dio, sconcertato da tanta arroganza,
e, alzato il capo, fulminò tutta la marmaglia con l’unico occhio che
l’iconografia cristiana gli riconosce.
Ci fu un fuggi fuggi generale: Lucifero, colpito nel fondo schiena si
eclissò preferendo le sue anfrattuosità immonde al bel panorama manicottese
che, come è possibile osservare dalle foto turistiche esposte nell’unico
minimarket e nelle tre tabaccherie del paese, sfoggia bellissime colline
incastonate sulla circonferenza del lago Albino (così detto per il candore
delle acque in cui confluiscono gli scarichi dell’industria del latte, la
Manicottolat, pubblicizzata sulle reti televisive locali ogni trenta secondi di
trasmissione).
I cherubini furono trasformati in immagini marmoree ad abbellire il
frontespizio della chiesa madre cittadina, mentre i tre arcangeli, con le ali
fra le gambe, furono incatenati alla “colonna infame” che era al centro della
piazza.
“Giudizio Universale!”- tuonò il Padreterno.
“Giudizio Universale!”- dissero in coro i Manicottesi tutti.
I tamburi ripresero a rullare battuti dalle mazze rotanti dell’Angelica
Post Band, mentre il vigile Boccone, per riaversi dallo shock da traffico cui
era stato sottoposto in tutto quell’andirivieni assordante, seduto sul
marciapiedi antistante il Municipio, rullava il suo primo spinello, offertogli
dal trombettista del complesso, Sebastian de la Columbia.
“Giudizio Universale!”- ripeté con scarsa convinzione Dio, ormai a
corto di argomenti.
“Giudizio Universale…”- mormorò il popolo di Manicotto non capendo dove
volesse andare a parare l’Onnipotente.
Lo Spirito Santo si posò sulla spalla del Signore dell’Universo e, come
un pappagallino delle Azzorre, scandì con voce stridula: “Giudizio Universale…
Giudizio Universale!…”.
Dio lo guardò con commiserazione, commiserò se stesso, si passò una
mano sulla fluente chioma bianca, chinò i rai fulminei, si alzò dallo scranno
d’oro massiccio tempestato di diamanti e, con passo stanco, si avviò verso la
Via Lattea, seguito dallo stuolo dei giudicati che marcivano al passo dell’oca
e cantavano inni sopranazionali.
La nebbia raccolse la
processione nel suo manto e Manicotto divenne il paese fantasma in cui, ancor
oggi, si sente lo stridore delle catene che legano gli Arcangeli alla “colonna
infame”.
N.d.a.
I nomi di persona,di Istituti, fatti, situazioni,
ambienti e quant’altro sono di mia invenzione e non hanno alcuna attinenza con
la realtà.
INDICE
INDICE
Introduzione
Il laboratorio multimediale
Minchiuzzi è laureato
Opunzia Quercioli
Chi ha ucciso Fico Beniamino?
La circolare ministeriale
Il corso di recupero
Suor Clementina
La cultura del recupero
Un caso di malasanità: la supplentite
San Cedolino
Terza D
Se questo è un uomo
Le Commissioni d’esame
Cose che capitano
Un Giorno in Istituto
La sindrome del pensionato
Ilo dio Del Sole
Day Hospital
La mia Itaca
Quando nonna si diverticolava
Le cose
Roma o morte
Giudizio universale